LETTERATURA: STORIA: Il fronte si allontana16 Febbraio 2013 di Mario Camaiani Gennaio ’45: sul fronte della linea gotica, in Garfagnana, le truppe anglo-indiane, artefici della controffensiva con la quale gli Alleati avevano rioccupato tutto il territorio del comune di Barga, vennero sostituite da quelle nordamericane, in prevalenza composte da negri. Ma le artiglierie inglesi restarono, alcune batterie delle quali erano dislocate vicino alla ex casa del fascio di Filecchio, nella quale, al piano di sopra, da pochi giorni risiedevo con i miei genitori, in coabitazione con altre due piccole famiglie di nostri concittadini livornesi; mentre al piano terreno gli inglesi avevano approntato una infermeria militare. La linea del fronte era pressappoco uguale a quella di prima dell’attacco italo-tedesco e divideva Gallicano e Barga da Castelnuovo di Garfagnana. Naturalmente mancava la luce elettrica e, ancora peggio, l’acqua, per cui dovevamo andarla a prendere ad un pozzo, a circa un chilometro di distanza. Lì appresso c’era un lavatoio pubblico, ed un giorno alcune donne, fra le quali mia madre, mentre stavano lavando i panni, furono molestate da un soldato negro, un po’ ubriaco; ma la cosa finì poco dopo senza che accadesse nulla di peggio. Un’altra volta, sempre al lavatoio, arrivò una granata tedesca che esplose vicinissima alle lavandaie; ma a quel tempo siffatti rischi e pericoli erano all’ordine di ogni giorno, erano nella normalità. Verso la metà del mese aumentarono le postazioni di cannoni, inglesi, che si piazzarono in località Vicari. Ed inoltre giunsero carri armati U.S.A., che presero posizione in un campo dietro la nostra casa: quando sparavano di notte, e succedeva spesso, non si poteva dormire dal terribile frastuono delle cannonate che perfino facevano tremare l’edificio. Ma anche le artiglierie dell’Asse non erano da meno e rispondevano quasi con altrettanta forza: i loro proiettili infatti esplodevano sovente anche da noi, a Filecchio, come pure accadeva in tutte le altre località della zona di operazioni. Qui voglio precisare che le truppe italo-tedesche, ben organizzate, disponevano di una forza operativa militare efficiente, sia di armamento leggero e sia di artiglieria; pur inferiore però a quella degli anglo-americani; tuttavia praticamente non disponevano né di aviazione, né di carri armati. Nel febbraio aumentò l’attività bellica degli Alleati che, sia con l’aviazione che con l’artiglieria, martellavano pesantemente le posizioni degli italo-tedeschi. Babbo continuava l’attività allo stabilimento S.M.I. di Fornaci di Barga; e proseguimmo la solita vitaccia, sempre con la paura di una nuova offensiva dell’Asse, dato infatti che, oltre i duelli di artiglierie, spesso avvenivano scontri di pattuglie. Ai primi di marzo, in particolare, i tedeschi effettuarono un attacco che sembrava potesse rompere le linee degli anglo-americani: ma questa volta ciò non avvenne, anche perché la “musica” dei cannoni alleati giunse al massimo di intensità, con migliaia di colpi che capillarmente colpivano il fronte avversario. Dopodiché la rimanente truppa di colore venne sostituita da quella bianca, e si rafforzò il numero dei cannoni britannici e dei carri armati americani. Lo schieramento alleato era più forte, mentre quello dell’Asse s’indeboliva; infatti sempre più erano i soldati italiani e tedeschi che si arrendevano: un giorno, insieme al mio babbo, ne vedemmo tanti, radunati a Fornaci, in attesa di essere trasferiti al campo di prigionia. Io ripresi a lavorare presso l’officina Montanelli, a Fornaci, e ciò mi serviva per vivere meglio, facendo qualcosa di utile, praticando tante persone, imparando un mestiere; ed era un piacere collaborare con il principale, Romolo, che mi insegnava tante cose e mi trattava, si può dire, come fossi un suo figlio. La gente era molto interessata alle discussioni politiche che, con il tramonto della dittatura fascista e l’incipiente avvento di un sistema democratico, aveva modo di sbizzarrirsi su questo argomento. I più propendevano per la seconda soluzione, per l’antifascismo; altri, invece, difendevano il vecchio regime; ma questi erano sempre di meno perché, essendo contrari alla prevalente opinione pubblica, era pesante, e sempre in perdita, sostenere le proprie idee. Spesso mi trovavo, nelle più svariate occasioni, spettatore o partecipe di dette conversazioni che molte volte erano oltremodo interessanti. Per motivi di lavoro, una volta mi trovavo in una casa di Fornaci e la proprietaria, una giovane signora, che aveva il marito prigioniero di guerra in India, così parlando, mi disse che lavorava come infermiera presso l’Asilo Giovanni Pascoli, lì vicino. Essendo io già a conoscenza che quell’asilo era una specie di manicomio, le chiesi spiegazioni a tal proposito. Ed ella, gentilmente, mi rispose: “Questa struttura è a carattere nazionale, perché in essa vengono ospitati minorati psichici provenienti da tutta Italia, figli di caduti in guerra. In essa ci sono sale di studio, di lavoro, di giochi…ci sono la palestra, la piscina, il teatro, la chiesa. E per accudire ai ricoverati vi è impegnato un apposito personale, composto da generici, da sanitari, da maestri, da suore.”. “Però deve essere faticoso mentalmente trattare con persone che non hanno intelletto”, feci io. Al che l’infermiera mi precisò: “Gli ospiti dell’Asilo Pascoli, e sono oltre cento, non sono tutti allo stesso livello di anomalie mentali; vanno, in una vasta gamma, da quelli quasi dementi a quelli vicini alla normalità. E noi che li assistiamo, impegnandoci con dedizione a questo lavoro, riceviamo in cambio tante soddisfazioni nel vedere che con i nostri sforzi questi ricoverati migliorano, sia psicologicamente, che fisicamente. C’è chi impara a fare il falegname, chi a cucire, chi a riparare scarpe, chi canta nel coro, chi suona uno strumento musicale…ed addirittura c’è chi viene avviato al lavoro nello stabilimento. Ma al di sopra di tutto viene a loro curata la parte intellettiva e, per questo, in modo precipuo, ci sono i medici; mentre le suore cercano di ‘svegliare’, se possibile, in questi pazienti, una pur minima sensibilità spirituale, religiosa”. “Ma davvero è possibile che questi malati di mente possano addirittura comprendere concetti superiori?”, le chiesi ulteriormente. “Si – riprese la signora -, anch’essi, pur con dei limiti, hanno il senso del bene e del male e si comportano, fra loro e con gli altri, come le persone ‘normali’; talvolta in modo negativo, con egoismo, invidia, vanità…; talvolta in modo positivo, con fratellanza, generosità, umiltà…: in fondo pure loro sono esseri umani che verranno giudicati in base a ciò che, liberamente, potranno fare di bene, secondo le capacità intellettive di ciascuno. Noi siamo cristiani e, come tali, sappiamo che Gesù non ci ha insegnato alcunché che possa essere di grande, relativo alla gloria di questo mondo, fine a se stesso; ma ci ha insegnato ad amarci come fratelli, ed è su questo che saremo giudicati. Lui stesso infatti che, come Dio, poteva tutto, non ha compiuto nessuna opera ‘mondana’: non ha fatto dipinti, né sculture, né costruzioni…nemmeno ha lasciato un suo scritto…; ma ci ha dato l’esempio di cosa significhi ‘Amore’, donando la Sua Vita per la nostra salvezza, compresi i suoi nemici, i suoi uccisori”. In quel frattempo era giunto nella stanza un anziano signore, padre dell’infermiera, che in seguito seppi essere stato un attivista fascista che, rivolgendosi alla figlia, intervenne: “Laura, voglio parlare a questo giovane, che ascolta con attenzione – e mi si rivolse -, sai, ragazzo, a chi spetta di sovvenzionare e dirigere questo istituto? Alla metallurgica, e questo perché, per legge, gli industriali debbono devolvere una quota dei loro utili in opere sociali, come questa, appunto, e come tante altre. E, per contro, il capo del governo, Mussolini, creò l’ I.R.I. (Istituto Ricostruzione Industriale), onde poter aiutare le industrie in difficoltà e per potenziare tutta l’industria in genere e di conseguenza tutta l’economia della Nazione. Sai – continuò -, io ero iscritto al partito socialista, al tempo che Mussolini ricopriva la carica di direttore del quotidiano del partito, ‘Avanti!’; ma poi aderii al nascente partito fascista perché con esso si realizzava il vero socialismo. Si fece la pace con la Chiesa, con i Capitalisti, con la Monarchia, finché questa non ci ha tradito; ed ora che è stata costituita la nuova repubblica, non è denominata ‘Repubblica Fascista Italiana’; bensì ‘Repubblica Sociale Italiana’”. A questo punto l’uomo tacque, spossato: evidentemente il suo era stato un sofferto, amaro sfogo. Laura riprese: “Babbo, non ti accalorare così tanto, che ti nuoce alla salute, come sai; ed inoltre ora i tempi stanno cambiando. E bisogna ammettere che Mussolini ha anche agito da megalomane, da dispotico: e di questa guerra, da lui voluta, che adesso sta concludendosi con la nostra rovina, che ne dici?”. Evidentemente la figlia non aveva gli stessi sentimenti politici del padre, il quale soggiunse, mestamente: “Sì, Laura, hai delle ragioni: questa sciagurata guerra, sbagliata, ora è bene per noi che la vincano gli Alleati; perché se, per assurda ipotesi, adesso la vincesse la Germania, noi non saremmo più loro alleati, alla pari; bensì loro sottomessi!”. Prima che mi accomiatassi, la signora mi chiese scusa per il dire del padre, che, precisò lei, mi aveva certamente annoiato. Al che io, ovviamente, le risposi che invece i suoi ragionamenti meritavano di essere ascoltati. (Ed in realtà a me era sembrato di essere tornato indietro di qualche anno quando, a scuola, l’insegnante di ‘cultura fascista’ ci inculcava propaganda politica illustrandoci le opere del Regime, sulla falsariga del ‘tutto bello, tutto buono!’). Un giorno un funerale procedeva sulla strada comunale, proveniente da Filecchio, verso Fornaci, per poi di lì raggiungere il camposanto, a Loppia. Il mesto corteo, a passo lento, recitando preghiere, iniziava con gli “incappati” della misericordia ed il prete con i chierichetti; poi seguiva il carro funebre, trainato da un cavallo bardato di nero; infine chiudeva con i familiari e conoscenti della persona deceduta. Io, lì presente, osservavo il triste spettacolo, quando un militare motociclista, inglese, che procedeva in senso opposto a velocità sostenuta, sbucò da una curva ma subito rallentò. Non solo; ma addirittura si fermò, spense il motore e, rimanendo a cavalcioni della moto, al momento del passaggio del feretro, si tolse il casco chinando la testa, insegno di rispetto e di partecipazione. Questo gesto civilissimo mi colpì: si era in zona di operazioni, sotto strada erano piazzate batterie di cannoni: quel militare forse era un portaordini, dato che a bordo del mezzo vi erano delle borse con incartamenti e, per questo, chiaramente era esentato dal compiere certe cortesie…Ma egli invece antepose, a tante considerazioni contingenti, il suo alto senso morale comportandosi da perfetto “gentleman”, nel significato più altamente nobile di questo termine. Uno sprazzo di fulgida luce, nel buio della guerra! La popolazione del nostro territorio, dopo mesi di permanenza del “fronte”, era allo stremo anche dal lato del vestiario; ed ecco che la Croce Rossa Americana, in collaborazione con quella italiana, organizzò negli Stati Uniti una raccolta di vestiari usati e di calzature, ma in buono stato, da distribuire ai più bisognosi; e fra questi c’erano inseriti gli “sfollati”, quindi pure noi. Uno dei centri di distribuzione fu effettuato, appunto, a Filecchio: un grosso autocarro, carico di indumenti, parcheggiò nella piccola piazza del paese e il personale della Croce Rossa, coadiuvato da quello del comune di Barga, iniziò la consegna dei capi di abbigliamento. Lo svolgimento della donazione, che avvenne a metà marzo ’45, fu abbastanza corretto, anche se qualcuno cercava di accaparrarsi i capi migliori; ma triste e deludente era la considerazione di come eravamo ridotti, a ricevere aiuti caritativi, come gli indigeni in Africa… (Addio, sogni d’italica gloria, di maestra di vita e di progresso! Noi, cittadini di tanto esaltata Patria, ridotti ad elemosinare vecchi vestiti da chi volevamo vincere ed elevare al nostro livello di civiltà!). Ma in fondo, accettando di buon grado l’aiuto che i nostri ex nemici benignamente ci davano, dimostrammo almeno di essere grandi nella virtù dell’umiltà, il che non è cosa da poco. Personalmente, ricevetti un bel paio di pantaloni ed un bellissimo cappotto, da società, nero, che per tanti inverni l’ho indossato, con un pizzico di vanità, tanto era elegante. Nella ‘bottega’, in piazza a Filecchio, ci frequentava un signore anziano, sempre con la pipa in bocca, il quale aveva trascorso tanti anni in Svizzera, per lavoro. Era un radiotecnico e, sintonizzandosi su stazioni radio straniere, veniva a conoscenza di interessanti notizie riguardanti vari eventi bellici, dei quali ce ne metteva a conoscenza. Una volta ci riferì che in suddetto modo aveva saputo che i tedeschi fin dall’estate ’44, avevano messo in opera una nuova arma aerea onde colpire il suolo dell’Inghilterra meridionale, ma che adesso, l’avevano perfezionata, potenziandola. Si trattava dei missili autoguidati, denominati V.1 e V.2 (dei quali ne ero già a conoscenza), che, lanciati da basi nella Francia occupata, colpivano città nell’Inghilterra meridionale, soprattutto Londra, causando strage di civili fra la popolazione; ed in questo periodo il numero dei lanci era notevolmente aumentato. Ma il fatto del quale ne parlò un dato giorno ci colpì in modo particolare, per l’enorme tragedia, consumatosi nella città tedesca di Dresda, durante un massiccio, spietato bombardamento aereo terroristico, che ebbe luogo il 13 e 14 febbraio 1945. Per due giorni, grandi formazioni di aerei statunitensi e britannici, alternandosi, operarono, con attacchi diurni e notturni, sequele di bombardamenti a tappeto che, più che in periferia, ridussero a cumuli di macerie il centro della città, quasi priva di obiettivi strategici e sovrappopolata da sfollati provenienti da altre località. Nell’incursione vennero utilizzate anche bombe dirompenti ed incendiarie che alle distruzioni aggiunsero terribili incendi, causando un incalcolabile numero di vittime, valutato da un minimo di ventimila sino ad oltre il doppio! Un giorno, mentre mio padre ed io passeggiavamo per Fornaci, incontrammo il signor Davide, in compagnia di altre due persone; ma egli non aveva più il “passo” rapido e giovanile, come gli era usuale, ma zoppicava vistosamente. Con lui ci scambiammo cordialmente saluti ed abbracci, e subito ci presentò i suoi accompagnatori: l’uno era suo fratello, Ugo, e l’altra sua moglie, Liliana; e ci spiegò: “Questi miei cari abitano a Lucca, e mio fratello, che conosce bene l’inglese, ha contratto una ottima amicizia con un tenente americano, il quale gli ha messo a disposizione una Jeep, con due militari, che ieri lo hanno accompagnato, insieme a mia cognata, qui a Fornaci a farmi visita, preoccupati per me, con la guerra che qui imperversa. E domani tornano a riprenderli”. ”Bene – fece babbo – ; ma a te che ti è accaduto, che cammini così malamente?”. “Eh – rispose Davide -, durante i giorni dell’occupazione tedesca di Fornaci, una mattina, uscendo di casa, quando aprii il cancellino lungo la cinta del giardino, mi crollò addosso la colonna che lo sosteneva, lesionata da una cannonata, e rimasi sdraiato per terra con una gamba intrappolata nell’intelaiatura metallica, che però fece ponte, impedendo ai detriti di fracassarmela. Nella notte precedente, dalla cantina dove pernottavo, avevo udito una forte deflagrazione, ma non credevo che fosse avvenuta così vicino, presso la casa. Comunque ero lì fermo, non potevo muovermi; quand’ecco che fortunatamente transitò un reparto di tedeschi, a piedi, ed io urlai: ‘aiuto’, più forte che potevo; ed ecco che alcuni di loro vennero ad aiutarmi, si tolsero le armi, mi sollevarono in piedi, e se ne andarono quando si furono accertati che potevo camminare da solo, sia pure alla meglio. Evidentemente non avevo niente di rotto, ma solo una forte contusione…Ma ora sto meglio, e presto sarò ristabilito del tutto!”, concluse Davide. “Ma dunque i tedeschi si sono comportati sempre bene durante quei giorni, con i civili?”, gli chiese mio padre. “Sì, e per quanto riguarda la loro permanenza a Fornaci lo posso affermare direttamente; ma so che ciò è avvenuto pure da altre parti. Un mio conoscente di Sommocolonia, sceso poi qui a Fornaci per incontrarsi con dei suoi parenti, ha raccontato che, nei cruenti, terribili combattimenti che avvennero nel suo paese, fra i tedeschi da una parte e gli americani ed i partigiani dall’altra, i caduti ed i feriti si contarono a centinaia, soprattutto fra gli attaccanti, anche perché questi erano incappati in una zona minata; ma anche le perdite umane degli afroamericani furono notevoli, come pure quelle dei partigiani, i quali combatterono coraggiosamente in prima linea. Infine i militari della “Buffalo”, sconfitti, si ritirarono precipitosamente; ma diversi di loro resistettero eroicamente. Sembra infatti che un tenente, negro, con i suoi uomini, accerchiati, rimasero a difendere la loro posizione, senza tentare di fuggire o di arrendersi, finché, addirittura, furono uccisi da una cannonata sparata dalle loro artiglierie. Il tizio che mi ha narrato questi avvenimenti – continuò Davide -, e tanti suoi compaesani, stavano nascosti nelle cantine mentre infuriavano i combattimenti; poi, dopo la battaglia, i tedeschi requisirono gli uomini che trovarono, obbligandoli ad aiutarli a trasportare sia i loro feriti e morti alle loro basi di partenza. Le donne e gli altri rimasti in paese pensavano che i loro uomini chissà se e quando fossero a loro restituiti; ed invece il giorno dopo questi tornarono alle loro case: erano stati rilasciati, dopo avere svolto il compito, obbligato, loro assegnato. Da notare che durante i giorni dell’occupazione del barghigiano, i tedeschi non molestarono alcuna donna, né usarono violenza verso le poche persone della popolazione, che erano rimaste. E tornarono sulle loro linee di partenza carichi di un ingente bottino di guerra: cannoni, armi leggere, munizioni, vettovaglie”. Ugo intervenne nella conversazione: “Da noi, a Lucca, la guerra, come fronte, è transitata rapidamente; ma purtroppo sono avvenuti dei gravi, deprecabili episodi di assurda violenza. Infatti, un prete e, in un altro caso, dei religiosi di un convento, sono stati uccisi dai tedeschi perché accusati di aiutare i partigiani. Poi – e qui Ugo si fece più contrito -, ho saputo che sempre da parte delle truppe tedesche c’è stata una strage di civili, bambini compresi, in un paese montano del comune di Stazzema…”. “E perché questa tremenda strage?”, gli chiese mio padre. “Questo non lo so – riprese Ugo -, non sono al corrente di altri particolari in proposito; ma anche se fosse per rappresaglia sarebbe comunque un atto di estrema crudeltà, del tutto inammissibile”. “E perché – intervenne Liliana -: forse che nel caso di una minore crudeltà una rappresaglia è lecita?”. La domanda, provocatoria, mise tutti in imbarazzo; infine alla signora rispose suo cognato: “Hai posto un interrogativo, Liliana, che mette a nudo come la guerra sia comunque sempre crudele. Infatti, quando militari di un dato esercito, in divisa, quindi ben in evidenza, vengono colpiti da avversari vestiti come i civili, perciò non identificabili, con agguati clandestini, a tradimento, detto esercito ha facoltà di procedere a rappresaglie, proporzionate alle perdite subite, onde scoraggiare altri vili attacchi, escludendo però di uccidere persone deboli, come, soprattutto, dei bambini. Questo concetto è ammesso da tutte le nazioni, altrimenti, senza cruente ritorsioni, i soldati potrebbero venire uccisi in continuazione, come ad un un tiro a segno, da avversari sempre ignoti -. E qui Davide soggiunse, non rinunziando ad esternare un suo pensiero religioso, da coerente ed integerrimo cristiano qual’era, – In qualsiasi controversia, litigio, sia di singoli, che di famiglie, di gruppi di parte e, su, su, sino alle nazioni, in genere gli uomini danno la colpa di ciò che non va bene agli ‘altri’; mai a riconoscere le proprie colpe, anche se ci sono. E da questo nascono le fratture nelle famiglie, nelle società fino, appunto, alle guerre. Gesù, invece, nel Vangelo (Matteo, 7, 5), ci insegna che ‘prima di togliere una pagliuzza dall’occhio di un nostro fratello, è bene togliere il trave che abbiamo nel nostro’, a significare che prima di giudicare gli altri, bisogna giudicare e purificare noi stessi. Così facendo il ‘mondo’ andrebbe meglio, in tutti i sensi. E fortuna che molti si comportano in questo modo per cui, se ci sono i periodi di conflitti, ci sono pure quelli di pace, e sono i maggiori”. Un livornese, amico e collega di lavoro, alla “metallurgica”, di mio padre, Cesare Cipriani, che abitava presso Fornaci, stufo di aspettare che la guerra guerreggiata qui terminasse e quindi poter riprendere l’attività lavorativa, decise di partire per Livorno con la sua famiglia ( moglie e quattro figli), onde, con l’aiuto dei suoi due fratelli colà risiedenti, trovare un lavoro ed un qualsivoglia alloggio. Un giorno, all’uscita di mio padre dallo stabilimento, gli comunicò questa sua decisione, aggiungendo: “Però mi preoccupa di lasciare la casa che, pur chiusa, ma disabitata e arredata con tutti i mobili, può essere facilmente preda di ladri. Quindi, sapendo che tu alloggi, in coabitazione, nel dopolavoro di Filecchio, ho pensato, Umberto, di proporti di prendere dimora nel mio appartamento, usando tutto quello che vuoi, ed inoltre ci sono ancora molte legna per la stufa…”. Babbo fu entusiasta di questa proposta: “Come no, Cesare: accetto volentieri e penso che anche i miei di famiglia siano d’accordo, così avrò da camminare molto meno per recarmi alla fabbrica, mia moglie sarà più vicina alle botteghe per le spese ed anche Mario sarà a due passi dall’officina ove lavora.”. “Così ci aiutiamo in modo reciproco”, concluse Cesare. Poi aggiunse: “Però sono preoccupato per l’incognita del viaggio e di come troverò la situazione dei miei fratelli: ovviamente partiremo a piedi, sperando prima possibile di trovare qualche mezzo di trasporto; poi a Lucca ci sarà il treno, o la corriera…” Cosicché, sul finire di marzo, aiutati da Viviano e da sua madre, trasportammo con una carretta i nostri pochi mobili nella casa del Cipriani, in località “La Quercia”, presso il ponte della Loppora, e lì prendemmo dimora. I miei genitori ed io eravamo contenti; ma anche con una punta di amarezza per esserci separati dai nostri coinquilini con i quali vivevamo insieme da mesi, come in un’unica famiglia, sostenendo insieme tante traversie, tante brutte avventure. Ed anch’essi provarono i nostri stessi sentimenti; ma tanto si era abbastanza vicini di casa, quindi avremmo potuto frequentarci spesso. Da pochi giorni dimoravamo nella nuova abitazione quando, all’alba del primo di aprile 1945, giorno della Santa Pasqua, tutte le artiglierie alleate iniziarono a sparare all’impazzata per stroncare un attacco degli italo-tedeschi: era un fuoco terribile e con apprensione osservavamo i movimenti delle truppe anglo-americane, memori della terribile ritirata di tre mesi prima. Ma non accadde nulla di peggio ed anzi, nel pomeriggio, il cannoneggiamento calò di intensità fino ad un andamento, diciamo, normale. Qualche giorno dopo tanti soldati di Salò, ed anche tedeschi, arresisi, erano ammassati in una piazza di Fornaci: stanchi, demoralizzati, tristi, quasi si può dire che facevano pena; ed anche la popolazione locale non inveiva contro di loro, ma li osservava in silenzio. Ormai la guerra si avviava verso la fine con la sconfitta della Germania e dei suoi alleati: sui fronti occidentale ed orientale infatti già si combatteva anche in territorio tedesco e le residue forze dell’Asse stavano per essere stritolate dalla convergenza dei due eserciti. Ma sul nostro fronte la virulenza dei cannoneggiamenti non si attenuava; anzi, diventava maggiore: le artiglierie tedesche ed italiane colpivano tutta la zona con proiettili di grosso calibro, e spesso ci rifugiavamo in una cantina in una vicina casa, a Mencagli, nella quale addirittura alcune volte vi pernottavamo. Un giorno una granata esplose per strada dove io e mia madre vi si era transitati si e no da un minuto: anche questa volta, come per tante altre, l’avevamo scampata per miracolo! E con il protrarsi dei bombardamenti di artiglieria, che avvenivano da oltre sei mesi, aumentava il numero dei civili uccisi o feriti: nel cimitero di Loppia ci sono ancora alcune tombe di queste vittime, fra le quali, su una lapide, spicca la foto di una bella ragazza, di diciotto anni, uccisa da una cannonata il 14 aprile ’45, pochi giorni che, sul nostro fronte, i cannoni tacessero. I giorni passavano, si era alla metà di aprile, ma i furiosi colpi di artiglieria non accennavano a diminuire: noi della popolazione eravamo stremati, ma ci sosteneva la speranza che tutto stesse per finire. Finché, esattamente nel pomeriggio del 18 aprile 1945, i cannoni, dell’una e dell’altra parte, tacquero; nella notte seguente udimmo un gran rumore di carri armati che transitavano per la strada principale: ci affacciammo alla finestra: erano statunitensi, andavano verso nord, avanzavano! Il fronte si era allontanato: l’incubo era terminato! L’indomani tutta la gente era per strada, tutti ci abbracciavamo gli uni con gli altri: che fosse davvero finita? Si può dire che sembrava proprio così; ma qualcuno, pessimista, insinuava che forse il fronte si poteva fermare nuovamente in Alta Garfagnana, in Lunigiana; ma i più sostennero di no ma che comunque, anche nella peggiore delle ipotesi, qui il fronte non c’era più, era andato via… per sempre! Letto 1982 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Fabio strafforello — 16 Febbraio 2013 @ 14:35
“Se vuoi la pace prepara la guerra!”
E’ sempre stato così, dall’alba in cui l’essere umano, o in senso generale ogni essere vivente ha dovuto difendersi dalla paure del suo subconscio, o più drasticamente e realisticamente dalle paure di un nemico in carne e ossa che tenta di sopraffarti con qualsiasi mezzo a disposizione, mettendoti a tacere o ascrivendoti al suo volere, che ogni persona cosciente tenta di difendersi come può.
E’ con intensità e con piacere emotivo, non certo per il dolore descritto nelle sue righe Sig. Mario, che ho partecipato con presenza e visione di eventi, attraverso l’uso della mia fantasia, al suo preciso, dettagliato, sentito, fermo, umano, schietto, equilibrato, sofferto e articolato documento, collocato con chiarezza evocativa nel periodo della seconda Guerra Mondiale.
E’ un testo molto significativo il suo, Sig. Mario e per certi versi sempre molto attuale; in esso si riporta l’uomo comune a conoscenza di essere sempre al servizio del potere, sempre oggetto delle scelte altrui e che sovente non collimano con i nostri desideri e piaceri personali. Difficilmente gli ordini o le indicazioni che ci vengono dati dagli altri, sono giusti o necessari per indicarci il percorso di strada che porti alla nostra felicità personale, ma altresì che non dipenda dal provocare dolore ad altri individui, per sola opportunità di non essere noi a doverne soffrire.
Sovente chi pianifica le guerre poi non le partecipa con la fatica, lasciando il sudore, la rabbia, il fiatone, la fame, il freddo, la sofferenza agli altri che la combattono in prima linea, o che la devono subire passivamente col disagio, col dolore e con le umiliazioni.
E’ poi con la loro prosopopea e apostrofando con boria e con sorrisi compiaciuti o sotto i baffi, quel senso di sfida personale, ancor più che di strategia militare, che fa parte del desiderio di lasciare un segno forte del loro passaggio nei confronti del mondo, mostrandolo con ogni cattiveria e incuranza che nasce dalla solitudine che provano i despoti nel loro cuore, che spingono gli altri uomini, a loro sottoposti, a fare tutto il male possibile verso l’umanità.
Nasce da questa identità avversa al nostro profondo modo di sentire e che non ci appartiene come parte integrante di noi stessi, quella sorta di tensione che contrappone gli individui, facendoli scontrare al di fuori della logica istintuale e quindi della sola logica necessità di mantenere in vita la propria specie, riportando l’essere umano alla meritata qualificazione e definizione di “bestia umana.”
Ma, laddove l’individuo singolo può sfuggire dall’ordine e dall’odio precostituito degli alti burocrati, finisce poi col paragonarsi e con l’allinearsi al buon senso e al bisogno di conforto con altri esseri viventi della stessa specie e in senso generale con esseri viventi che hanno alcune affinità emotive simili alle nostre.
Un giorno la guerra, come atto dovuto di contrapposizione alle necessità umane non esisterà più, e questo rappresenterà il momento nel quale l’essere umano avrà riunito se stesso nella stessa forma derivante dall’origine della vita.
Sig. Mario, lei oltre a scrivere in modo scorrevole, bello e fantastico, ma drammaticamente vero, sa anche darci emozioni importanti e la sua memoria è filtrata da un’infinità di sensazioni positive di elevata e spiccata umanità, per questo le sono grato della sua testimonianza e le auguro di mantenere il giusto equilibrio e la necessaria serenità di sempre.
L’uomo che ha conosciuto il dolore, asservendolo al bene dell’umanità, ha aperto la sua porta verso il Paradiso.
fabio strafforello Dolcedo 16/02/13
Commento by Mario Camaiani — 16 Febbraio 2013 @ 21:23
Sig. Fabio,
il suo dotto commento, molto benevolo, alla mia narrazione, attraverso il quale ha spaziato in interessanti riflessioni, mi ha profondamente lusingato.
La ringrazio sinceramente e mi complimento con lei per la sua alta capacità di esternare così bene i suoi concetti, mentre le invio i miei più cordiali saluti.
Mario.
Commento by Mario Camaiani — 16 Febbraio 2013 @ 21:44
Trasmetto l’interessante e profondo commento alla mia narrazione inviatomi dall’amico Gian Gabriele, che sentitamente ringrazio.
Mario.
“Possiamo affermare che anche questa narrazione di Mario ci offre la possibilità di penetrare appieno negli eventi e soprattutto ci porta ancor più a meditare a fondo. Non solo, dunque, siamo di fronte ad un ulteriore ampio, dettagliato raccontare, attraverso riferimenti concreti di vita vissuta e precise puntualizzazioni storiche, ma anche emergono sostanzialmente intensità del vissuto, la partecipazione viva alle vicende delle persone, le convinzioni individuali e che vengono a maturarsi man mano che le vicende drammatiche si evolvono. In tal senso si fanno pressanti e coinvolgenti gli intensi scambi di opinioni, pur da versanti divergenti ideologicamente, scambi sostenuti sempre con fede, forza e convinzioni personali, ma in modo encomiabile nell’ambito del civile discutere. Tanto che diviene giusto anche concepire e riconoscere ciò che di buono e di positivo, pur nella drammaticità del momento e pur nella consapevolezza nel dove si trovasse la ragione, è stato realizzato da entrambe le forze in conflitto. Ciò dimostra onestà intellettuale e leale coscienza valutativa. E qui vanno sottolineate le encomiabili opere per i ragazzi orfani e diversamente abili; qui non vanno dimenticati i gesti di rispetto umano (anche di fronte alla morte ed alla sofferenza), esternato in varie occasioni dagli opposti contendenti; qui non va sottaciuta la generosità di chi ha voluto offrire un concreto sollievo alla gente, senza considerarla nemica.
Si ha allora, come rilevavo in precedenza, non soltanto una cronaca viva ed utile per conoscere un certo periodo ben preciso, bensì anche e soprattutto una lezione di grande umanità, che testimonia l’esistenza e la non cancellazione assoluta del bene, della prodigalità, dell’amore fraterno, che nemmeno una guerra spietata, aberrante, distruttiva ha potuto affossare.
In questo modo potremmo utilizzare tale memoria storica e personale, per attualizzare un passato orribile e trasformarlo, attraverso gli esempi positivi e non solo, in un vivere ancor meglio un presente spesso inaccettabile, proiettandoci in un futuro assai più umano e più giusto. E questa è la speranza che alita forte tra le righe del racconto e che dà ampio risalto, se ancora ve ne fosse stato bisogno, all’animo nobile, integro, retto dell’abile e apprezzato narratore, del quale mi onoro essere amico.
Gian Gabriele Benedetti.”
Commento by Fabio strafforello — 17 Febbraio 2013 @ 19:28
Caro Fabio,
ho letto con piacere il tuo ampio commento al racconto di Mario Camaiani, persona alla quale sono legato da profonda e sincera amicizia, ben conoscendone, tra l’altro, i sani, encomiabili principi del suo atteggiamento esistenziale. Un commento, il tuo, come sempre, ricco di implicazioni dal contenuto umano e speculativo sulla pienezza dell’essere e del dover essere, cioè sulla condizione dell’uomo e del suo comportamento, che spesso, purtroppo, esce da quegli schemi ontologici degni di una razionalità coerente e di una coscienza sostanziale e tesa al bene. Conseguenza di tale errato, egoistico, superbo, arrogate, violento e tutt’altro che equilibrato modo di agire sono le guerre, i soprusi, le ingiustizie, gli abomini, gli orrori. Si fa, quindi, il tuo intervento, un itinerario che spinge gli animi e le volontà ad evitare gli errori, le ipocrisie, le eresie, le iniquità, le sopraffazioni, le ferite insanabili. Ed in questo senso, pur nella denuncia, nasce il sostegno all’uomo che agisce nel giusto, nell’onesto, nell’ossequio di quei valori che debbono informare una sana convivenza. Sostegno a quell’uomo spesso ben tratteggiato dal fecondo e sostanzioso raccontare di Mario Camaiani.
In merito a quanto sopra, mi vien fatto di pensare che l’essere umano sia capace di compiere azioni tanto esecrande da precipitare negli abissi più profondi e tenebrosi del male e della perdizione. Ma, per fortuna, lo stesso uomo è anche in grado di realizzare grandi opere, improntate al buono, al bello, al giusto, all’onestà, alla generosità, alla carità…, tanto da salire fin sulle vette più alte di una straordinaria luminosità spirituale, comportamentale, artistica, civile, sociale, etica, materiale…,arrivando a toccare le radici del cielo.
E noi, nel nostro piccolo, cerchiamo e cercheremo non solo di apprezzare a fondo queste eccelse qualità umane, ma anche di imitarle e di seguirle (ed eseguirle) in prima persona.
Gian Gabriele Benedetti