TEATRO: I MAESTRI: 23 aprile 1964: Quarto centenario della nascita di Shakespeare
23 Aprile 2009
Pubblichiamo due articoli che uscirono nel 1964 su La Nazione, uno di Sergio Baldi, l’altro di Paolo Emilio Poesio.
La grande sinfonia
di Sergio Baldi
[da “La Nazione”, 23 aprile 1964]
Tutto il mondo celebra oggi 23 aprile il quarto centena rio della nascita di Shake speare. Il giorno però è soltanto tradizionale, di una tra dizione che data dalla metà del Settecento: al tempo di Shakespeare non si registrava la nascita ma il battesimo, e quindi sappiamo per certo soltanto che fu battezzato il 26 aprile 1564. Pro e contro la data odierna sta la curio sa circostanza che il 23 aprile è anche il giorno di morte (23 aprile 1616), sicché noi non sappiamo se la coinciden za sia solo un errore di me moria del testimone settecen tesco, oppure un fatto casua le, oppure un ultimo vestigio di quella teatralità a cui Sha kespeare fu controvoglia chia mato.
Controvoglia, poiché i po chi elementi biografici che possediamo di luì non ci mo strano affatto un poeta in tento a cercare fama perpe tua, ma piuttosto un uomo che dell’arte si serve per con quistare una certa agiatezza, una sua posizione sociale. Soltanto i due poemetti, il Venere e Adone e II Ratto di Lucrezia, furono dati alle stampe dall’autore stesso e dedicati ad un mecenate; i sonetti furono abbandonati a un oscuro tipografo: e i drammi, i celebri universali drammi, lasciati volta per volta agli attori. Che Shake speare, venuto a Londra poco più che ventenne, comincias se col fare il posteggiatore dei cavalli di chi si recava a teatro è tradizionale; è cer to però che della carriera tea trale egli percorse tutte le tappe: prima trovarobe, poi attore ed autore, infine comproprietario del miglior teatro di Londra, del «Globo ». Alla fine del secolo la sua posizione finanziaria era tan to solida che i suoi «cari compaesani » si rivolgevano al lui per avere dei prestiti. Ne gli stessi anni suo padre, il quale alla nascita di Shake speare era stato fra i mag giorenti della città ma che poi era fallito, rinnova, coi denari del figlio, la richiesta di stemma e questa volta l’ottiene: d’oro, alla banda di nero carica di una lancia del campo armata d’argento – «Shakespeare » infatti, sareb be il nostro «Crollalanza ».
Lo stemma paterno nobilitò in tutti i sensi un denaro guadagnato in un ambiente allora considerato spregevole.
Da quest’ambiente del tea tro lo Shakespeare ne uscì di sua volontà, forse nel 1610, per tornare alla nativa Stratford-on-Avon, dove l’attende vano la moglie e le figlie, dove già aveva comprato case e terre ed anche il diritto di farsi seppellire nella chiesa parrocchiale. Al suo ritorno non è più un attore ma un gentiluomo, un gentiluomo di mezzi, affabile e liberale, poe ta di una certa fama, citta dino importante e una gloria locale. La fama locale durò: cinquanta anni più tardi il giovine parroco conclude pa teticamente un suo appunto: «Ricordarsi di leggere i dram mi di Shakespeare, e di leg gerli bene per non far brutta figura ».
UNA SFIDA
Quel Francis Meres che nel 1598 metteva Shakespeare ac canto ai sommi greci e lati ni, non esclusi Omero né Vir gilio, e diceva che se le Muse avessero parlato inglese avreb bero parlato con le ben li mate frasi di Shakespeare; quel Francis Meres è voce isolata per ben più di un se colo. I contemporanei invi diavano a Shakespeare, semmai, il successo di cassetta; e Ben Jonson, nonostante il suo roboante elogio (non pri vo di malignità), presumeva di far meglio di lui anche se non aveva la stessa for tuna di pubblico: per la cri tica Shakespeare non era ab bastanza classico. Fu infatti Ben Jonson il primo autore di teatro inglese che pubblicò un’edizione in-folio dei propri drammi (il che allora voleva dire dare al proprio teatro un valore anche letterario), ma Shakespeare era già mor to da qualche mese, e gli at tori suoi amici non raccolsero la sfida che nel 1623, sette anni più tardi. La polemica per la palma, infatti, andò avanti per tutto il Seicento; e anche un poeta come Milton è d’accordo col giudizio «moderato » del tempo suo: «nell’Allegro Ben Jonson ha un «dotto secco » e Shakespeare «figlio della fantasia, canta le sue naturali note silvestri »: Shakespeare, infatti, per tutto il Seicento, aveva la «fantasia » ma non l’«ar te ». La sua fama come ar tista totale ed autonomo è opera dei romantici tedeschi; non ci sarebbe da meravi gliarsi quindi se anche Sha kespeare avesse pensato, con tutto il suo tempo, che i suoi drammi erano soltanto tea tro, non letteratura.
LA SCENA
Tanto più che cessati gli entusiasmi romantici, appare sempre più chiaro che la realtà di un qualsiasi dram ma di Shakespeare è nella sua rappresentazione e non nella sua lettura. Lo stesso Shakespeare, infatti, così in differente alla stampa, era in vece affettuosamente minuzio so per la recitazione (si pensi ai consigli agli attori nell’Am leto), non solo, ma anche era pronto a sacrificare il pro prio testo alle necessità sce niche, a scrivere i suoi drammi a seconda degli attori di sponibili (addirittura a secon da degli attrezzi disponibili), ad accettare interpolazioni di canti e di scene farsesche. La filologia scespiriana moderna è oggi infatti cautissima ne gli emendamenti: Coleridge, in ossequio al proprio senso romantico del tragico, voleva eliminare dal Macbeth quella scena del portiere che De Quincey riconobbe poi come fondamentale; gli editori mo derni tremano oggi a mutare un due punti in una virgola come il senso vorrebbe: i due punti potrebbero indicare un fiato nella recitazione.
Riconoscere questa premi nenza del teatro sulla lette ratura vuol dire intender più a fondo l’animo di Shake speare. E’ verissimo, come disse il Croce, che Shake speare «è il poeta della vita in tutta la sua contraddizio ne », ma anche è vero che egli ebbe chiara coscienza di questa contraddizione essen ziale per cui nulla è come dovrebbe essere secondo ra gione. All’uomo di teatro ecco che il mondo stesso appare come un grande teatro. Da vanti a una rappresentazione teatrale non si distingue più, per un momento, tra realtà e finzione: ma è possibile in vece distinguere sempre, co me si dovrebbe, davanti alla grande rappresentazione del mondo? Quanto meglio espri me il suo dolore l’attore che recita la parte di Priamo «in una finzione, in un sogno di finzione », che non Amleto «figlio di un caro padre as sassinato, spinto alla vendet ta dal cielo e dall’inferno! »; «II mondo non è che un pal coscenico, uomini e donne non sono che attori che en trano ed escono »; «la vita non è che una mobile om bra, un cattivo attore che si pavoneggia e perde tempo sul palco e dopo scompare; è una storia raccontata da un pazzo, piena di urla e di gesti, che non significa nul la »: così nel Come vi piace e nel Macbeth, dove l’ama rezza di Shakespeare è più scoperta; ma il senso dell’in certezza fra l’immaginato e il reale è dominante dovun que perché la contraddizione è l’essenza della vita stessa, lieta o triste che sia. Cosic ché, verrebbe fatto di dire che non fu la consuetudine col teatro a suggerire a Sha kespeare la sua interpretazio ne della vita come finzione scenica, ma che fu il suo sen timento della vita come con traddizione a spingerlo verso il teatro. Gli piacesse o no il suo destino, il suo com pito era «dare a un aereo nulla un luogo ove consistere ed un nome ».
Nel singolo dramma la vit toria del bene o del male è incidentale, spesso dovuto sol tanto alla storia preesistente oppure alla convenzione tea trale: sono noti il tono lieto della Giulietta e Romeo e quello triste della Legge del Taglione in contrasto con l’esito. Il finale, infatti, non interessa tanto a Shakespeare quanto invece lo svolgimen to dell’azione, ed in questa la ricerca di una plausibilità per lo strano fatto che nar ra, fatto tanto strano da es ser degno di esser portato in iscena. Anche in questo il teatro e il poeta coincido no: il teatro elisabettiano non vuole storie di tutti i giorni, ma per Shakespeare la vita non è mai quotidiana, e i fatti straordinari non sono che apici riassuntivi ed esem plari: la plausibilità del sin golo fatto strano sta proprio nella straordinarietà della vi ta: una vita nella quale non è possibile distinguere non solo fra realtà e fantasia ma nemmeno fra bene e male. La comprensione scespiriana dei personaggi opposti, di Iago come di Desdemona, riposa su questa inestricabilità per cui nessuno può dirsi rappre sentare del tutto il bene od il male (si pensi per esem pio all’inversione delle parti nella scena della preghiera del re nell’Amleto), ma tutti in vece sono vittime del con trasto, impreparati ad affron tarlo, Amleto quanto Polonio. Lear come Cordelia. Male e bene sono una tela di ragno in cui l’uomo è perennemen te invischiato e quindi in istato di perenne incertezza. Quindi il dubbio.
IL DUBBIO
Il dubbio come stato di in stabile equilibrio puntuale è la fragile chiave di volta del l’universo di Shakespeare; la soluzione è un gesto dispe rato che coincide col crollo, con la fine, del dramma e dello spettacolo; è una fine che termina ma che non pa cifica. Nel dramma di Sha kespeare non c’è infatti pa cificazione ma al massimo qualche raro momento di oblio, ed esso è dato dalla musica, dalla meno plastica di tutte le arti, da quella più libera da significati concreti. Se dunque il punto di equi librio coincide col punto di rottura, se il dubbio è il tono costante della grande sinfo nia scespiriana, la dissolven za è l’unico esito coerente. La sinfonia, allora, non può avere il suo punto centrale che nell’Amleto, il suo esito che nella Tempesta. E la sto ria conferma. La lettura cro nologica dei drammi ci mo stra infatti uno Shakespeare sempre più cosciente della propria spinta ad identificare il teatro con la vita e la vita con il teatro: non vi è dun que altra lettura possibile (se non contro la poesia) dell’epi logo detto da Prospero se non leggerlo come l’addio del poe ta ai propri fantasmi. Poeti camente «il resto è silenzio », e pare che Shakespeare altro non volesse; ma la vita, che per l’appunto è contradditto ria davvero, ha deciso altrimenti.
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Il drammaturgo in Italia
di Paolo Emilio Poesio
[da “La Nazione”, 23 aprile 1964]
Quale sia stata la prima opera di Shakespeare rappre sentata in Italia – e in qua le città e da chi – non è mai stato stabilito con certezza. Di Shakespeare che il Sette cento nominava, corrompen done la grafia. Sespar o Sespir non erano nemmeno lon tani parenti quell’Amleto che nel 1715 fu rappresentato nel teatro dei Capranica, a Roma, con musica « del si gnor Domenico Scarlatti ». né quell’altro Amleto di Apo stolo Zeno portato in scena al Regio Ducal Teatro di Mi lano nel 1719 « in occasione di celebrarsi il giorno natali zio della Cesarea Cattolica Maestà di Elisabetta Cristina imperadrice ».
In fondo, a ben pensare, il secolo ideale per la popola rità di Shakespeare sulle sce ne italiane non poteva es sere che l’Ottocento: secolo di attori giganti adatti a perso naggi giganti. Il Morrocchesi. forse, e Gustavo Modena che vestì i panni di Frate Loren zo in Romeo e Giulietta fu rono tra ì primi a cimentarsi con i personaggi di quello che il Torti – cosi caro al Manzoni – definiva « il mag gior britanno ». Ma se dob biamo prestare fede alla pa rola di Ernesto Rossi, lo stes so Modena a chi gli chiedeva perché non portasse più fre quentemente alla ribalta i drammi shakespeariani, ri spondeva: « Lascia stare, non è pane per i nostri denti ».
Tommaso Salvini
Le traduzioni, naturalmen te, non aiutavano gli inter preti, salvo quella del Càrcano che ancora oggi, alla rilettura, serba una certa tal quale barbarica forza espres siva, una forza eminentemen te scenica. In più, la brutale abitudine di tagliare, ridur re, mettere in luce il prota gonista a discapito del qua dro di fondo doveva per tut to il secolo scorso travisare un teatro che solo in appa renza chiedeva l’aiuto dei mattatori.
A Tommaso Salvini riusci vano congeniali le atletiche misure di Macbeth, di Re Lear, di Coriolano, di Otello più di quanto – sembra – non gli fossero adatti i pan ni neri del principe di Da nimarca (ma da giovane, con il Modena, aveva impersonato anche Romeo: e non sappia mo con quale Giulietta, pur troppo). A Ernesto Rossi, più souple – fors’anche più mo derno, più ambizioso – piac que aggiungere alle parti già dette, quelle di Prospero della Tempesta, di Giulio Cesare e di Riccardo III nella quale ultima, come il Garrick non esitava a ingobbirsi per poi sollevarsi in tutto il pieno della sua nobile statura al momento del grido famoso: Il mio regno per un cavallo!
Se Salvini trovò in Otello la sua più personale interpre tazione – al punto da fornire a Stanislawski l’avvio per il « metodo » – Rossi fu l’Am leto per eccellenza. O Rossi, je t’ai vu, tralnant le man teau noir – Briser le faible coeur de la triste Ophélie cantò José-Maria de Heredia nei suoi Trophées. dopo una serie di rappresentazioni pa rigine della tragedia: alla quale Rossi era giunto dopo appassionato studio: sì era fatto rifare apposta (metten doci mano egli stesso) una traduzione e aveva, caso ra rissimo fra gli attori italiani di allora, dato alle stampe un volumetto di studi shake speariani.
Amleto era stato anche Alamanno Morelli che, se le cronache sono veritiere, al teatro Re di Milano, nel 1868, vesti il principe tutto di bian co. Il pubblico non pare fa cesse caso al particolare, men tre tollerò male il gran nu mero di morti in scena, spe cie al finale: e Morelli, allora, decise di «ratizzare » le ucci sioni, aumentandole di sera in sera fino a far tollerare agli spettatori il massacro voluto dall’autore.
Grandi nomi dell’arte tra gica: ai quali si deve affian care quello di Ermete No velli, che del Mercante di Ve nezia compì una riduzione as sai discutibile dal punto di vista critico, ma efficacissima dal punto di vista del succes so personale. Shylock – tale il nuovo titolo – rimase un insuperato suo cavallo dì bat taglia.
E le donne? Da Adelaide Ristori che prediligeva Lady Macbeth (la recitò anche in inglese a Londra), a Eleonora Duse che affidò a Arrigo Boito il compito di dare ala di poesia a Antonio e Cleopatra e che era stata Giulietta nel la sua adolescenza, il quadro è meno ampio: ma pochi sanno che Giacinta Pezzana fu, durante una tournée in Ame rica, Amleto, a somiglianza di Sarah Bernhardt.
Meno ricordato, ingiusta mente, un altro grande inter prete shakespeariano, Gio vanni Emanuel che nell’Am leto, attorno al quale lavorò cinque anni consecutivi, volle abolire la presenza dello Spet tro traducendola con un rag gio di luce che spioveva dal l’alto (il che dette luogo poi a un comico incidente, nar rato da Amerigo Guasti, la sera in cui la sedia sospesa in aria e dalla quale cadeva la luce si mise a girare vor ticosamente). Ancora a Ema nuel si deve se Otello lasciò gli abiti orientali indossati da Salvini e da Rossi per prendere abiti veneziani, co me era logico e naturale (ma pubblico e critica gli tirarono la croce addosso per l’inno vazione).
Nel Novecento
Sulla scia di questa gran de tradizione, il Novecento tenne vivo il gusto del teatro shakespeariano in Italia: un elenco completo dei nomi e delle maggiori interpretazioni è impossibile, anche se ven gono subito alla mente Er mete Zacconi (che ai ruoli tragici affiancò quello bril lante di Petrucchio della Bi sbetica), Ruggero Ruggeri (Amleto e Macbeth), Fer ruccio Garavaglia. Amedeo Chiantoni, Armando Falconi (festoso Falstaff). Luigi Ci mara e Vera Vergani (Romeo e Giulietta nel primo dopo guerra), Alessandro Moissi (formidabile Amleto), Renzo Riccì (Amleto, Otello, Re Lear), Camillo Pilotto, Memo Benassi (grande Shylock, grande Malvolio e grandissi mo Tersite in Troilo e Cressida), Gualtiero Tumiati (che per primo rivelò la bellezza della Dodicesima notte nel 1921), Eva Magni (Puck con Max Reìnhardt), Laura Ado ni, Gino Cervi, Annibale Ninchi. Sandro Ruffini. Elena Zareschi, Sarah Ferrati, Evi Maltagliati.
O, ancora, Vittorio Gassman (al quale si deve, fra l’altro, il primo Amleto ita liano integrale: quello del 1952, con regìa di Luigi Squar zina), Gianni Santuccio (Macbeth), Arnoldo Foà, Giorgio Albertazzi (ultimo, in ordine cronologico, degli in terpreti di Amleto), Anna Proclemer, Rina Morelli, Pao lo Stoppa, Edda Albertini (bellissima Giulietta), Gior gio De Lullo, Romolo Valli, Rossella Falk, Annamaria Guarnierì, Tino Carraro (Coriolano). E l’elenco è tutt’altro che completo.
Per quanto nel nostro secolo sia stato avvicinato un più vasto repertorio shake speariano dando cittadinanza anche alle commedie meno popolari, alcune opere non sono state ancora rappresen tate in Italia: Re Giovanni, Re Enrico V, Re Enrico VI, Re Enrico VIII (delle quali si ebbe però un’edizione radiofonica), la seconda parte di Re Enrico IV, Tito Androni co, Timone d’Atene, Cimbalino. Altre sono state rappre sentate solo in un recentis simo passato: Molto rumore per nulla (1950, regìa Brissoni), Misura per misura ( 1957, regìa Squarzina), La commedia degli equivoci (1958, regìa Ferrero), Pericle principe di Tiro (1959, re gìa Sartarelli), I due genti luomini di Verona (1960, re gìa Menegatti), Pene d’amor perdute (I960, regìa Enriquez). E, infine, va in scena per la prima volta stasera a Firenze Tutto è bene quel che fini sce bene (regìa Menegatti).
Accanto agli attori, come non fare i nomi dei registi che hanno concorso a dare sempre maggiore nobiltà agli spettacoli shakespeariani in Italia? Guido Salvini. Pietro Sharov, Giorgio Strehler, Lu chino Visconti, Orazio Costa, Luigi Squarzina, Alessandro Brissoni, Mario Ferrero, Fran co Enriquez. Franco Zeffirelli tra i tanti. A questi, uni remo i nomi di due registi stranieri: Max Reinhardt per l’indimenticabile Sogno dato in Boboli nel 1933 e per II mercante di Venezia rappre sentato a Venezia, e Jacques Copeau con il Come vi garba, anche questo dato in Boboli nel 1938.
La storia della fortuna di Shakespeare in Italia non si può racchiudere in questi po chi accenni: ma anche un rapido elenco può dare la mi sura della popolarità che il creatore di tante immortali figure di poesia ha conosciu to in un popolo che alla poe sia non si è mai negato.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 23 Aprile 2009 @ 18:31
Articoli di grandissimo interesse, che, con argomentazioni intelligenti, logiche, sagge e profonde, ci portano a conoscere ancora più a fondo il grande poeta e drammaturgo inglese. Ottima scelta, Bartolomeo
Gian Gabriele
Commento by Carlo Capone — 24 Aprile 2009 @ 19:55
Due chicche, Bartolomeo, tramite cui ho acquisito ulteriori notizie, non so quanto attendibili, su Shakespeare. Apprendo che più o meno a 50 anni tornò a Stratford carico di denari e di gloria. In realtà le fonti ufficiali parlano di decesso avvenuto a Londra, di una vita con molti buchi neri, spesso avventurosa e squattrinata, comunque dedita al teatro fino all’ultimo.
Quando visitai Strafford mi colpì molto che ci fecessero visitare la casa di Ann Hataway, la moglie, ma non la sua, o meglio, entrammo in quella dove si ‘presume’ sia nato.Tracce di dimore agiate e in vista nessuna. Se avese vissuto i suoi ultimi anni a Stratford, ricco e omaggiato, qualche testimonianza in loco dovremmo averla, invece proprio al suo paese di lui non c’è nulla.
Certo che l’Inghilterra elisabettiana, malgrado il suo sbandierato Rinascimento, era messa male. Di questo villaggio seicentesco si ammirano le case a traliccio dalle modeste suppellettili in noce, dai letti cortissimi, dormivano adagiati allo schienale, e dai tetti di paglia impastata con fango. Eppure già dominavano il mondo. Nello stesso periodo noi avevamo un certo Bernini e un certo Borromini, e le case dai tetti di paglia erano un retaggio medioevale, ammesso che ne esistessero. Per non parlare della scarsità di fonti. Sul fronte di quelle letterarie, tutte le sue opere sono state trascritte più volte partendo per lo più da canovacci (andavano in scena con un plot di massima e cambiavano ogni sera a seconda degli umori del pubblico, per altro sempre numerosissimo). Da qui il terrore degli studiosi moderni di cambiarne, come apprendo, una virgola. Ma non è tutto, non c’è neanche concordanza su chi le abbia composte: chi dice lui stesso, chi afferma fossero un parto di più menti, chi addirittura ipotizza che non abbia lasciato niente di scritto e che i testi, questo sì suoi, siano stati raccolti da uno della compagnia dopo la sua morte. Anche sul versante biografico le lacune si sprecano, come detto, e allora ci si chiede: possibile che la nazione fra le più potenti del mondo di allora non abbia saputo registrare le gesta principali di uno dei geni dell’umanità? possibile che non ci sia neppure un atto di nascita, un rogito o una trascrizione che attesti un avvenuto passaggio di proprietà? e meno male che siamo nel 600! Sappiamo molto di più noi su Dante, vissuto in un’Italia comunale ma più avanti già 4 secoli prima.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 24 Aprile 2009 @ 20:29
Shakespeare fa parlare di sé non solo con le sue opere, ma con le leggende che sono nate intorno a lui. Si dubita perfino della sua esistenza. Il nome Crollalanza ha autorizzato anche un’ipotesi sulla sua nascita in Italia, avvalorata dal fatto che all’Italia Skakespeare ha dedicato vari suoi lavori.
Spero di poter trovare altre cose nel mio archivio. Ma ci vuole pazienza.
Non so se avete notato che questo form dei commenti è stato migliorato con la traduzione in italiano. Un commentatore che voglia essere aggiornato sui successivi commenti all’articolo, non deve far altro che sbiffare il quadratino che si trova nello spazio in basso a sinistra dove è scritto: Avvisami via e-mail della presenza di nuovi commenti a questo articolo.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 28 Aprile 2009 @ 09:59
Vedo che il 27 aprile il bravo Massimo Maugeri ha aperto un dibattito su Shakespeare qui:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/27/shakespeare-il-misterioso-incontro-con-domenico-seminerio/
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 4 Maggio 2009 @ 20:47
Sempre riguardo al dibattito su Letteratitudine, Domenico Seminerio è intervenuto nel dibattito con questo commento:
“Finalmente posso rispondere. Non l’ho fatto prima perché fuori sede. Morivo dalla voglia di sapere cosa avete detto sul mio romanzo e quali erano le domande a cui dovevo rispondere. Innanzitutto grazie a tutti per gli interventi, belli, e per le questioni postemi, a cui cercherò di dare una risposta. Prima cosa: l’idea per il romanzo m’è venuta leggendo uno studio di Martino Iuvara, prof. di letteratura inglese a Ispica, il quale sosteneva la sicilianità del Bardo in base a diversi indizi. La cosa mi ha intrigato, come si dice, ho fatto le mie ricercuzze, mi sono convinto che l’ipotesi di Iuvara poteva ben stare alla pari con le molte altre che circolavano sulla vera identità di Shakespeare e, anzi, con qualche elemento di probabilità in più. Ne ho fatto un romanzo, mescolando, come ovvio, elementi di pura fantasia agli indizi tratti dallo studio di Iuvara, cui se se sono aggiunti altri.
E gli indizi sono veramente tanti, forse troppi, e tutti univocamente orientati. Un dato: di William di Stratford sappiamo veramente poco e quel poco assolutamente incompatibile con le opere a lui attribuite.
Facile concludere che fosse il prestanome di un personaggio che non amava firmare i suoi drammi o, forse, uno pseudonimo.
Lunghissima la schiera di personaggi riconosciuti di volta in volta come il vero Shakespeare, vuoi per alcune vicende biografiche, vuoi per qualche peculiarità stilistica. Ma tutti inglesi. E poi ecco Iuvara che si imbatte quasi per caso in tal Michel Agnolo Florio, nativo di Messina, emigrato verso i vent’anni in Inghilterra. Molte vicende biografiche di Michel Agnolo Florio sembrano fatte apposta per spiegare con estrema naturalezza e semplicità quel che non sappiamo di Shakespeare, a cominciare proprio dal nome. La madre di Michel Agnolo si chiama Guglielma Crollalanza: Guglielma=William; Crolla, cioé Scrolla=Shake;
lanza, cioé lancia=Speare. Per motivi che non sappiamo, Michelangelo Florio adotta un nuovo nome, adattandosi quello della madre.
Non mi pare il caso di farla lunga: tutti gli indizi disponibili sono stati riportati nel romanzo, tranne due, che ho trovato dopo per la cortesia di un illustre studioso di storia del diritto, il prof. Manlio Bellomo.
Proprio nel Mercante di Venezia il Bardo rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene. C’è di più: il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il prof. Ottonello Discalzio.
Sempre a Padova risultano iscritti due studenti danesi che, strabiliante, hanno gli stessi identici cognomi dei due studenti danesi che compaiono nell’Amleto. E siamo sulle tracce di altri indizi, un tantinello più cogenti.
Capisco le perplessità: abituarsi a uno Shakespeare non inglese è difficile, veramente. per alcuni semplicemente impensabile. Come impensabile dovette apparire a molti la tesi che la terra girava attorno al sole e non viceversa, come pure attestavano i sensi e tutte le scritture precedenti, sacre e non. Tant’è. Il cammino della conoscenza e della verità riserva di questi scherzi.
Postato Mercoledì, 29 Aprile 2009 alle 12:47 am da domenico seminerio ”
E ancora:
“Dimenticavo una cosa. Su La Repubblica del 19 aprile ho letto quanto riferito dal Wall Street Journal circa la “sentenza” della Corte Suprema USA. In effetti chi studia la questione non può che giungere a una e una sola conclusione: William di Stratford non può in nessun caso essere l’autore delle opere a lui attribuite. Per quanto riguarda lord De Vere, identificato col vero autore delle opere, non molti indizi e di poca consistenza, mi pare: sappiamo che fece un viaggio in Italia del Nord, che aveva molti libri ed era molto colto, a differenza di William Stratfordiano che lasciò per sempre la scuola a undici anni, non si mosse mai dalla sua isola, non lascio un solo libro né una sola pagina manoscritta. A occhio e croce, mi pare che gli indizi a favore di Michel Agnolo Florio siano molti di più e più stringenti. Ma certo i giudici della suprema corte nulla sanno di Florio e dell’ipotesi siciliana.
Postato Mercoledì, 29 Aprile 2009 alle 9:55 am da domenico seminerio ”
Qui 3 video interessanti:
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/27/shakespeare-il-misterioso-incontro-con-domenico-seminerio/#comments