LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Gustave Flaubert. Dizionario dell’idiozia6 Ottobre 2016 di Giorgio Zampa Genova, dicembre Dovevano chiamarsi, prima, Dubolard et Bécuchet. Poi Bolard et Mani chet. Divennero Bouvard et Pécuchet. L’affinità tra Bouvard e Bovary è sta ta più volte rilevata; messa in luce an che la derivazione di Bovary da un co gnome noto, Bovaret. Si è detto dell’e sistenza di uno scrittore Bouvart, pas sato nel dossier des bíªtises: bouvart, vitellone. Quanto al compagno magro, Pécuchet-Bécuchet, evoca una figura secca, angolosa, non proprio simpati ca, opposta alle rotondità bovine, agli atteggiamenti accomodanti. La prima idea di Flaubert, era stata di intitolare il libro Mémoires de deux Cloportes. Un appunto successivo reca: Histoire de deux Cloportes; si insiste ancora sulla figura del porcellino di sant’An tonio, dell’insetto pavido, rifuggente la luce, senza carattere. In una fase ulte riore si arriva a: Histoire de deux bon shommes, Bouvard et Pécuchet. Su quello che Gustave Flaubert si proponeva raccontando le avventure di due parigini in provincia, conoscia mo anche troppo. La corrispondenza è zeppa di notizie; gli amici che racco glievano propositi, confidenze, ce le hanno riferite, la Sand, Maupassant, Du Camp, la nipote; i manoscritti depositati nella biblioteca di Rouen, i mucchi di cartelle con i ritagli per lo Sciocchezzaio, l’Album, i foglietti per il Dictionnaire, i piani corretti, ripresi, trasformati nel corso degli anni, sono pubblicati quasi per intero, confronta ti, discussi, interpretati. Che posto avrebbe avuto il Dictionnaire, non sappiamo con certezza: la morte colse lo scrittore mentre stava scrivendo le ultime righe del primo volume. A quel punto, il circolo era chiuso, la morale chiara: i due scritturali, per corso l’universo intellettuale del loro tempo, decidono che l’unico partito cui attenersi, è riprendere a copiare. Ma non, come all’inizio, pratiche di uf ficio, coatti, controllati. Trascrivono quello che vogliono, padroni di sé, senza obblighi verso nessuno: è l’iner zia beata, l’angolo riparato, coperto da ogni pericolo. Fuori rugge la Bíªtise, nell’infinità delle sue forme; nel loro buco, esonerati da iniziative, i porcelli ni terrestri grattano i loro fogli e rido no. Chimica, fisica, letteratura, astro nomia, geologia, agricoltura, pedagogia, medicina, storia, politica (oggi avreb bero aggiunto la sociologia e la lingui stica): che cumulo di sciocchezze, qua le presunzione, quanta goffaggine. Po co prima di morire, lo scrittore aveva dichiarato che il sottotitolo del roman zo sarebbe stato: « Sul difetto di meto do nelle scienze ». Invece di attenersi ai fatti, di descrivere con semplicità e con cura, cercando, di catalogare, di or dinare, i professionisti del sapere of frono precetti insensati, induzioni gra tuite, costruzioni senza fondamento, metafore ridicole. Ma neppure gli scrittori, i sacerdoti del verbo, sono da meno, quanto a sacrifizi alla Bíªtise: i due avrebbero infilato nel loro Scioc chezzaio anche campioni di prosa del signor Gustave Flaubert e dei suoi mi gliori amici. La letteratura contemporanea deve una parte considerevole dei suoi carat teri a questo testo inafferrabile, defini to nei modi più vari, ingrato, iname no, diciamo pure noioso (Flaubert era consapevole di tali effetti, anche del l’ultimo), macabro nella sua comicità. Nelle pagine di un’accorta prefazione, Raymond Queneau afferma che non si può parlare di Bouvard et Pécuchet senza cadere nel ridicolo, finire nel luogo comune, rischiare la Bíªtise. Tut to vero: i due falsi tonti andrebbero affrontati contropiede, esorcizzati con l’unico mezzo grazie al quale lo scrit tore d’oggi, Mann insegna, può soprav vivere: la parodia. Non prendiamoli sul serio, teniamoli alla larga, coi loro cataloghi, esperimenti, invenzioni, sco perte. Lasciamo stare la questione del l’atteggiamento di Flaubert verso di loro, se di simpatia o del suo opposto; il problema, come lo chiamano, dell’i dentificazione, di quanto lo scrittore ha messo di sé nelle due figure. Il quesito di fondo è un altro. Come, fino a che punto la coppia è frequenta bile? E’ possibile una sua fungibi lità? Si può, insomma, presentare de centemente, anzi rappresentare, senza il pericolo di bruciarla e di bruciarsi? Questo, mi pare, il punto centrale an che in sede drammaturgica, nel caso si volessero portare il Grasso e il Magro sulla scena. La risposta può essere po sitiva: il V-Effect è lì apposta, per ri solvere tutto. I protagonisti si guarda no agire, si ascoltano, indicano se stes si all’inclito. Via via si enunciano e si annullano: l’acido incide e corrode nel lo stesso tempo il loro segno. Non so fino a che punto Squarzina, nella riduzione del testo flaubertiano curata, insieme con Tullio Kezich, per lo Stabile di Genova, soprattutto nella regìa dello spettacolo, concordi con ta le interpretazione. Mentre Glauco Mauri, un Pécuchet perfetto dal punto di vista fisico, tende alla recitazione alienante, riducendo gli effetti, fred dando, stilizzando, e con lui un certo numero di personaggi minori (anche se questi si attengono più alla panto mima da cinema muto che al controllo tipo Ensemble), Tino Buazzelli traboc ca di continuo nel comico di marca realistica, facendo pensare con nostal gia, a volte, ad Aldo Fabrizi, agli oc chioni che si spalancano dopo ogni battuta, al piedino alato, al mignolo sollevato, alla pancia enorme, comica per il suo solo esistere. Anche le scene di Pier Luigi Pizzi risentono di tale incertezza; mentre al cune sono disegnate con secchezza, ar rivando al limite di un surrealismo ca salingo, altre concedono troppo a un Ottocento di Panoptikum. Ma come non indulgere a tutto questo; non con sentire all’iniziativa del Teatro genovese per il coraggio, la generosità, l’in telligenza che l’hanno alimentata. Letto 1564 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||