TEATRO: I MAESTRI: Il fanciullo onnipotente12 Settembre 2012 di Giorgio Celli Alfred Jarry, «Opere », 3 voll., Adelphi, 1969, pp. 720 L- 8.000. La trasformazione del «caso Rimbaud » in un ac corato paradigmatico episodio della ricerca di Dio, vissuta fino alle soglie dell’autoannientamento dall’artista moderno, oppure la rilettura globale del fenomeno surrealista in chiave mistico-cattolica, o, alla fine, con una applicazione (apparentemente funambolica, ma in realtà abba stanza ingenua) di una legge che potremmo chiamare di «virtuale identità degli opposti », la sco perta dell’oscuro tormento di un’anima «naturaliter » religiosa sotto il ghigno sardonico di Sade, sembrano non escludere più, a priori, alcuna fu tura assunzione nel pantheon di quegli scrittori che la critica francese «beatifica » di quando in quan ti. » come problematici cercatori di Dio. Ci stupi remmo molto, tuttavia, benché il passato ci abbia così bene ammaestrati, se, come suggerisce Solmi nella sua lunga introduzione, i cattolici, ricor dando «magari a proposito dell‘Amour absolu, i traslati deliranti di certi mistici cristiani », tentas sero di ricondurre l’opera di Jarry sul loro ver sante, e non credo assolutamente che, Solmi per mettendo, avrebbero altrettante ragioni dei sur realisti che da tempo considerano lo scrittore di Ubu uno dei loro più cospicui esponenti. In effetti, l’opera di Jarry, nella sua tormentata compattezza, sembra offrire ben pochi appigli alle sottili alchimie che trasformano la bestemmia in una pre ghiera vertiginosa, e benché nel labirinto di segni in cui viviamo sia alla fine possibile qualsiasi manipolazione ideologica, sarà sempre estrema mente difficile mediare in sotterranea salvazione non tanto il pugno alzato di Capaneo-Sade, ché in fondo il tragico è sempre una secrezione del metafisico, ma, per esempio, cose comela Passione di Cristo descritta da Jarry nei termini di una appassionante gara podistica che si svolge allegra mente verso il traguardo del Golgota. La frigidità emozionale di Jarry, così assoluta, simile soltanto per coerenza alla parete di cri stallo intangibile che ci presenta l’opera di Swift, un altro geometrico, ellittico creatore di asside rati sillogismi, congela ogni tentativo di recu perare sotto la rablesiana cialtroneria di Ubu, l’invocazione rivelatrice di Baudelaire al suo ipocrita lettore, la ferita, insomma, originaria, cui tutto possa essere ricondotto e in cui tutto, anche l’imprecazione più sanguinosa, possa trovare motivo di salvazione e di speranza. Se la letteratura è, in termini psicologici e forse ancor più biologici, un modo per opporsi alla duplice minaccia della follia e della morte, una sorta di muro protettivo edificato con le parole per eludere l’atroce urto diretto del mondo, la più alta garan zia di efficacia per l’artista, oltre a una totale giustificazione estetica del reale (che vede, per restare nell’ambito della letteratura francese dell’Ottocento, in Heredia l’esempio forse più significa tivo) potrà essere trovata in una assunzione pro grammatica del grottesco. Ed è a questa dimen sione che l’opera di Jarry, con maggiore e minore evidenza, può venire agevolmente ricondotta. Il «riso » di Bergson, il suo élan che calato a forza nel meccanico diviene una parodia della vita, ci sembra più che altro una definizione adeguata del la goffaggine, mentre il grottesco aspira sempre all’epifania cosmica, la sua natura è quella di una perversa assolutamente tendenziosa beffa gno seologica. Tutto il grottesco, in ultimissima ana lisi, scaturisce da un uso perverso e rigoroso dell’immaginazione. Se la patafisica di Jarry è, allora, la «scienza delle soluzioni immaginarie », possiamo dedurne che sia anche la scienza delle non-soluzioni, o, per meglio dire, il luogo pri vilegiato ove tutte le soluzioni divengono equiva lenti, una sorta di «punto supremo » bretoniano ante litteram in cui tutti i contrari rivelano â— per fidamente â— la loro indefinita permutabilità. Mutare il sacrilego Jarry in un cercatore «ma ledetto » di Dio, sarà, quindi, una operazione possi bile soltanto a livello della patafisica, governata da un sistematico arbitrio analogico. L’arbitrio analogico, in tal senso, la legge che governa il criptocosmo delle manifestazioni alchimiche e magiche. è impiegato da Jarry con implacabile determinazione. È sufficiente, per esempio, porre una tendenziosa e inizialmente assurda «affinità » tra una belva e un omnibus, perché «scatti », ellitticamente, una reazione a catena di metafore, un processo che culmina nell’organizzazione di un mondo stravolto, ma rigorosamente causale, che mima con persuasiva concretezza, la realtà. Il grottesco è, in questi termini, una sorta di ipertrofia logica che si sviluppa, come una tarma mostruo sa, erodendo i margini del razionale. Tuttavia, se la patafisica è una delle più brillanti creazioni di Jarry, Ubu rappresenta senz’ombra di dubbio il nodo centrale, direi quasi il baricentro della sua opera apparentemente così varia e dise guale. Con Ubu ci troviamo di fronte a uno di quei personaggi che, identificandosi a poco a poco con il loro autore, in una specie di imprevedibile sim biosi parassitaria, finiscono per acquistare una inquietante concretezza anagrafica. Sarebbe fin troppo facile, impiegando parametri antropologici o junghiani, proporre Ubu in forma di demone ctonio o vegetale, oppure considerarlo un archetipo collettivo, per esempio l’archetipo meyrinkiano del «mago onnipotente ». Il processo di identificazione Jarry-Ubu, dall’autore stesso largamente alimen tato in vita, ci permette di sospettare, invece, delle curiose radici autobiografiche del personaggio, radici che vanno ben oltre il modello fornito a Jarry dal suo famigerato professore di liceo. Pensiamo, cioè, che Ubu sia il prodotto di una indagine di na tura precisamente autoanalitica e, come tale, il dramma è una delle più convincenti e clamorose de scrizioni dei sogni e dei desideri infantili riferibili a quello stadio di sviluppo che Freud ha definito come la «fase orale ». Per le sue macroscopiche im plicazioni edipiche, L’Amour absolu si delinea, al lora, abbastanza imprevedibilmente, come l’opera di Jarry più affine al ciclo di Ubu. L’azione serrata dell’Ubu roi rappresenta, a mio parere, il paradigma perfetto di azione «infantile », nel senso che esprime la sfrenata tellurica espansione del «prin cipio del piacere », in tutta la sua egocentrica esplo siva distruttività. Ubu è l’uomo «assolutamente li bero » di cui ci ha parlato Hegel, il Satrapo che realizza questa sovrumana metafisica condizione a prezzo della libertà di tutti gli altri Mentre da un lato, Camus scopre nello «stato satrapico » la pos sibilità di una vita autentica e tragica, di cui Caligola è la conclusa esemplificazione. Jarrv, sulla linea della definizione freudiana del bambino come «mostro polimorfo », scopre nell’assoluta li bertà la totale regressione, e quindi la nevrosi, nel l’atroce Satrapo la grottesca parodia di un «fan ciullo onnipotente » (diagnosi che ci ricorda il Dit tatore di Chaplin che gioca a palla con il mappa mondo), per cui mentre Caligola paga con la vita la sua vertiginosa libertà, Ubu finisce per pagare ogni suo capriccio con delle busse e delle umilia zioni. In realtà, per Ubu la vera morte sarebbe crescere. Caligola perisce di spada, Ubu viene scon fitto dal battipanni. Ubu roi è, in ultima analisi, un invito a una confessione collettiva dei propri desideri infantili, soltanto da pochi, forse, e faticosamente, superati del tutto e mi sembra, quindi, piuttosto manicheo intendere il personaggio di Ubu come la prefigura zione dei tiranni che hanno infestato il secolo ven tesimo, a meno che ciascuno di noi, con limpida coerenza, non voglia, al pari di Mann in un suo celebre articolo californiano, riconoscere in Hitler una propria possibilità. In conclusione, mentre il «tragico » è sempre gene rato da un conflitto tra il Super-io e il «principio del piacere », il grottesco di Jarry, del tutto apparentabile in tal senso all’«humor noir » dei surrealisti, scaturisce dall’urto tra il «principio del piacere », con le sue istanze demiurgiche e onnidistruttive, e la realtà, che trasforma l’onnipotenza, infantile o nevrotica che sia, nell’impotenza generalizzata della condizione umana. Ed è inevitabile, d’altra parte, che il tragico preveda uno spazio teatrale chiuso, rigidamente formalizzato, ove sia possibile mediare l’evento in atto esemplare, mentre è del pari inevitabile che il grottesco debba esprimersi in uno spazio rappresentativo aperto e imprevedi bile, ove alla causa si sostituisca la sorpresa, e la realtà venga non data ma rivissuta collettivamente in un’azione bruciata sempre sul nascere, senza svi luppo, se non nell’avventura, nell’arbitrio, nel ca priccio delirante, nella totale disinibizione degli istinti. Scritto negli ultimi anni dell’Ottocento, Ubu roi ci appare sempre più non come un’opera pre corritrice del teatro moderno, ma come un dramma in cui il teatro moderno ancora sul nascere aveva già trovato la sua più compiuta e stimolante espres sione. Letto 4766 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||