LETTERATURA: Un viaggio nella steppa17 Agosto 2008 di Bartolomeo Di Monaco I Dovevo affrettarmi, altrimenti mi avrebbe sorpreso la bufera di neve. Ero partito da Sakinovo due ore prima, e il tempo sembrava volto al meglio; poi ero giunto alla posta di Kordarst, mi avevano dato tre ottimi cavalli ed ero partito senza neppure ristorarmi. La steppa di Daikonova si estende per oltre tremila verste, e puoi avere i migliori cavalli del mondo e farli correre all’impazzata; ma per percorrerla tutta ti ci vogliono sempre dieci, dodici, e anche quindici giorni. La tormenta mi sorprese proprio nel mezzo della steppa. I cavalli hanno uno scatto rabbioso e poi si mettono a correre come matti. «Ehilà, » urlo «fate piano, bestiacce. Non sono venuto fin quassù per farmi rompere l’osso del collo da voi. Buoni, state buoni. » Dicendo così, o meglio urlando così giacché il vento e le raffiche della tormenta coprivano la mia voce, tiravo le briglie con quanta forza avessi, tentando di calmarli. Quando ero partito da Sakinovo avevo guardato il cielo e mi era parso sereno e bello come non mai; ed io avevo detto a me stesso: «Forza, Ivan PetroviÄ, se hai voglia di partire, questo è il momento che fa per te. Prendi i tuoi cavalli, attaccali alla slitta, e via di corsa verso Bagaligorsk. Se non parti stanotte, caro mio, non rivedrai tanto presto la tua cara città. » Bagaligorsk mi ha visto nascere e strillare. Mia madre mi racconta che non riuscivo a trovare poso nella culla; mi agitavo e facevo di tutto per non farla dormire; e anche mio padre non riusciva a dormire. Però quando mio padre si arrabbiava e mi guardava con i suoi baffoni rigidi e quel viso rude da ufficiale dei cosacchi, mi quietavo subito, dice mia madre. Vado orgoglioso di mio padre, e anche di mia madre. È una santa donna mia madre e quando era giovane era la più bella donna di Bagaligorsk. Mio padre è un uomo orgoglioso e tutto d’un pezzo. Lo hanno fatto ufficiale dei cosacchi che era ancora molto giovane; è un uomo alto e grosso, dalle sopracciglia foltissime; i suoi soldati, quando lo odono alzare la voce, pregano dentro di loro perché non accada una disgrazia. Un giorno, raccontano, mio padre teneva un discorso ai suoi cosacchi. Diceva: «… i cosacchi che vi hanno preceduto ora riposano nelle loro case e sono pieni di gloria. Qualcuno di voi tra i più anziani ricorda certo la battaglia di ***. Ebbene, quel giorno le nostre divise e la nostra bandiera si coprirono del sangue dei ribelli. Intorno a me vedevo combattere ufficiali e soldati con pari valore, e ogni cosacco teneva testa e aveva ragione di dieci di quei barbari. Fatevi raccontare da coloro che erano al mio fianco, cosa feci io stesso. Makaciuk, era il capo di quei maledetti; un uomo alto e grosso quanto un gigante. Lo avevo visto con i miei occhi uccidere tre dei miei cosacchi più valorosi. La sua sciabola falciava morte, ed era rossa come il sangue dei miei soldati. Dico allora a Alessej KoproviÄ, un uomo valoroso che oggi vive a Korkursk insieme con la famiglia, onorato e stimato da tutta la città: “Alessej, lascia a me Makaciuk. Di persona voglio occuparmi di lui”. Egli ubbidì; e i miei cosacchi videro allora un duello senza pari e che la storia del nostro popolo non dimenticherà mai. Makaciuk mi scorse e mi venne incontro. Avevo in mano la mia sciabola ed era rossa di sangue come quella del ribelle. Non mi impressionò la sua faccia coperta di cicatrici… » Mio padre, si dice, fu lui ad uccidere il terribile Makaciuk, ma qualcuno non ci crede; e quando mio padre arriva a questo punto, c’è ancora chi si lascia scappare una risatina di troppo; così accadde anche quella volta. Fu il povero Fëdor StephanoviÄ il malcapitato di turno; e mio padre quel giorno non era proprio in vena di concessioni. Prese quella risatina per ciò che era. Ci fu un silenzio di due o tre minuti, in cui mio padre si lasciò montare l’ira ben bene; poi scoppiò il fragore del tuono. Il povero Fëdor StephanoviÄ si sentì piovere addosso un sacco di paroloni così terribili che preferì rimpicciolirsi e andarsi a nascondere tra i compagni. Ma mio padre ce l’aveva proprio a morte con quella risatina impertinente, che gli faceva come la febbre del fieno: perciò scende dal piccolo palco, e s’incarica di persona di scovare il povero StephanoviÄ. Lo trova, lo afferra per il petto e lo solleva venti centimetri buoni buoni da terra: e il povero StephanoviÄ si mette a sgambettare e a balbettare parole che mio padre non gli lascia il tempo di finire. Poi, quando il poveretto si è rassegnato a subire la tempesta, e non ha il coraggio di proferire neppure un amen, mio padre, con tutta la forza che il suo corpo vigoroso gli concedeva, lo alza e lo abbassa da terra con violenti strattoni finché gli piace; mentre il povero StephanoviÄ cambia colore e diventa rosso, bianco, verde, giallo, e infine nero come il carbone. A questo punto mio padre lo solleva ben bene da terra, gli lancia una delle sue micidiali occhiate, e disinvoltamente e gustando il momento, lo lascia cadere. È il colpo di grazia per il povero StephanoviÄ, già mezzo morto per lo spavento. Mio padre, senza neppure guardarlo steso e immobile a terra com’è, gli volta le spalle e con solennità, come si conviene ad un ufficiale del suo rango, si dirige verso la scaletta del palco, che sale con maestà e lentamente; dà uno sguardo ai suoi cosacchi che se ne stanno buoni buoni come agnellini; tossisce un po’, e il racconto del duello fantastico tra lui e il fortissimo Makaciuk ricomincia. Mio padre è proprio tale e quale in tutte le cose. Ma io, per grazia di Dio, non ho preso da lui, salvo la sua statura (e di questo sono orgoglioso); ma ho ereditato il carattere quieto, dolce, misurato, riflessivo, di mia madre. A Bagaligorsk tutti gli anni per le feste di Natale mio padre e mia madre mi aspettano; è l’unico giorno dell’anno in cui ci ritroviamo insieme; perché io ormai vivo nel villaggio di Sakinovo da dieci anni, e faccio lo scrittore. Si dice che i miei romanzi siano conosciuti in tutta la Russia, fino ai confini con l’oceano Pacifico, e anche all’estero. Non so se sia vero; inoltre io leggo i miei romanzi una volta sola, quando li scrivo; e presto li dimentico. Ogni anno lo Zar mi invita a corte e questo può essere il segno che io abbia raggiunto davvero un po’ di fama nel mio Paese. Esige la mia presenza, e non posso proprio rifiutarmi, sebbene ogni volta ne abbia tanta voglia. Ma potrei disobbedire allo zar in questo modo? Se lo zar fosse mio padre, saprei già quale orribile punizione mi toccherebbe. A corte, al gran ballo, accorrono da tutte le parti della Russia le più belle donne che abbia mai visto. Quando faccio il mio ingresso, alcune di loro mi segnano a dito: «Guardate, » dicono «è entrato Ivan PetroviÄ. La baronessa Natalia Ivanovna come lo guarda! » Tutti questi complimenti che ogni volta sento intorno a me, confesso che mi procurano un immenso piacere. II Quella maledetta tormenta sembrava non volesse darmi pace. I miei poveri cavalli erano stremati. Avrei dovuto lasciarli riposare un po’, ma come? Se mi fossi fermato anche per un attimo, avrei rischiato di essere sepolto dalla neve. Questo, perbacco, non mi piaceva proprio. Frustavo i cavalli e facevo i miei calcoli. Se non mi sbagliavo, avevo percorso quasi duemila verste; me ne restavano ancora duecento e avrei scorto la posta di Athalinov. «Via, miei belli. Non arrendetevi proprio ora che ce l’abbiamo fatta! Tremila verste, che sono tremila verste per voi? Lo conoscete, vero, il nostro bravo Athalinov; è vecchio e malandato; ma non ci farà mancare né birra e vodka, né fieno e zollette di zucchero. » Quando parlavo, i cavalli sembrava che mi capissero. Rizzavano gli orecchi, drizzavano avanti il loro muso perfetto e cominciavano a dare di gambe e a correre che era un piacere. La steppa quando ci si mette è terribile. Il vento soffiava tanto forte che dovevo nascondere tutto il viso, e a volte anche gli occhi, dentro il cappotto di pelliccia. La neve che riusciva ad entrarmi nel collo o a bagnarmi gli occhi mi faceva venire i brividi. Le raffiche sembravano avere gola per urlare e i loro gemiti parevano di streghe in vena di malefici. Vuuuh, vuuuh, vuuuh…, fischiava il vento, e lo udivi venire da lontano e se guardavi avanti non scorgevi altro che neve e il muro bianco della tormenta. «Maledetta bufera, » dico «mi fai accapponare la pelle! » I cavalli, poveretti, che avevano più paura di me, mi tenevano compagnia. Li sentivo vivi e vicini, come se fossero uomini. Incitarli era come mettermi a parlare con loro; il loro galoppo, il loro scrollare la criniera piena di neve, i loro nitriti rari e appena accennati, erano le loro risposte. La solitudine nella steppa, e specialmente nel pieno di una tormenta come quella, che non ti lascia nemmeno il tempo di respirare, è un’amara esperienza. Vedo una lanterna là in fondo. Mio Dio, se non è uno scherzo del diavolo, è proprio quella benedetta taverna di Athalinov, che il Signore l’abbia in gloria. I miei cavalli sentivano già l’odore del fieno e dello zucchero. «Athalinov, » grido «che il diavolo ti porti, vienmi incontro! » Ma come poteva sentirmi Athalinov se ero ancora così distante da lui! La luce della locanda era ancora piccola piccola e lontana. La bufera e il nevischio fitto fitto, la rendevano velata e opaca, «Athalinov maledetto » impreco, ma ero contento di lui, che avesse messo proprio lì la sua tavernaccia. Quando giungo sotto la lanterna, il vecchio Athalinov è già lì ad aspettarmi ed ha in mano una bella bottiglia di vodka. Benedetto Athalinov! «Metti al riparo queste bestie, Athalinov » gli dico «e governale bene, poverette. » Afferro la bottiglia e tracanno un po’ di vodka. «Sono mezze morte, Ivan PetroviÄ; le avete fatte correre, eh? » «Hai pronto qualcosa da mettere sotto i denti? » «Pesce, carne secca, pane, vino di Mosca, e se non vi basta andrò a rovistare nella dispensa; ma solo per voi, Ivan PetroviÄ, s’intende. » Mi giunse un suono di musica dall’interno, e Athalinov fu pronto a rispondermi prima ancora che aprissi bocca. «È una compagnia di musicanti, Ivan PetroviÄ. Vengono da Pietroburgo. Sono giunti stamattina e partiranno domani, se il tempo lo permetterà. Ma ora venite dentro, Ivan PetroviÄ, e toglietevi quella pelliccia tutta inzuppata di neve. » Quella musica mi aveva messo addosso un po’ di buon umore. Entrai dentro la taverna. Eh, che confusione! C’erano dieci o undici musicanti, chi steso a terra, chi seduto sulla scala che conduceva alle camere del piano di sopra, chi sugli sgabelli, o sulla tavola; e tutti suonavano e cantavano allegramente. Vidi sulla tavola e per terra parecchie bottiglie di vodka e molte erano vuote. Tra loro c’erano anche quattro donne, tre delle quali molto giovani, assai graziose e ben fatte. Una di loro era in piedi in mezzo alla stanza e ballava deliziosamente e cantava questa canzone: La mamma mi colse nella steppa, così mi hanno detto; c’era il sole e una capra mi stava mangiando. Ehilà, nacqui nella steppa e il sole mi tenne a battesimo; per questo sono bella e irrequieta e gli uomini mi corrono dietro. Ti sei innamorato di me, si vede dagli occhi che ti piaccio. Ma bada, non avvicinarti, ho gli artigli dell’aquila. Hai gli occhi lucidi e rossi, segno che sei cotto di me; posso fare di te quel che voglio, se mi va. Mi piace la vodka come agli uomini e qualche volta ho bevuto e mi girava la testa. Ehilà, guardate come ballo e come sono agile. Prendimi tu, se sei capace. Ci hanno provato già tanti, ma son rimasti a bocca asciutta. La ragazza accompagnava la canzone con gesti graziosi e vivaci. I musicanti urlavano e facevano chiasso nell’accompagnarla coi loro strumenti. Rimasi con loro il tempo necessario perché Athalinov mi portasse la cena. «Venite di là, Ivan PetroviÄ, ho apparecchiato di là per farvi stare in pace. » «Grazie, mio buon Athalinov » gli dico. Athalinov mi condusse ad un tavolo bene apparecchiato e – ciò che mi procurò un immenso piacere – situato proprio accanto al fuoco. Mi siedo e incomincio subito a mangiare. Che piacere mangiare e udire lo scoppiettio vivace del fuoco! A ricordare la bufera fuori, mi veniva ancora da rabbrividire. Il pesce di Athalinov è ottimo. C’è qui vicino un piccolo lago e Athalinov ci va ogni mattina e riesce a portargli via sempre qualche pesce. Ci sono stato una volta. Mi ci condusse Athalinov e l’ho visto anche pescare. È un lago modesto, piatto e quasi non lo vedi; intorno crescono degli arbusti tanto mingherlini e sterili da farti venire compassione. Non ho sentito più la voglia di visitarlo e di fare cinque verste per gonfiarmi i piedi e le caviglie. Quando furono circa le tre di notte, i musicanti se ne andarono a letto; ed io rimasi solo con Athalinov. «Quando ve ne ripartite, Ivan PetroviÄ? » «Domani, se passerà la bufera. » «Nevica da cinque giorni. Da allora non si può uscire dalla locanda. Tutti gli anni, quando si arriva a Natale, la neve vien giù che è un piacere vederla. Mio caro Ivan PetroviÄ, fate bene voi a vivere a Sakinovo; là nevica, ma mai come qui. Voi sì che vi godete la vita; caro amico, anche da queste parti non si parla che di voi e del vostro ultimo libro; e quelli che passano di qui, istruiti o contadini, tutti vi conoscono e parlano di voi. Ve lo devo proprio dire, Ivan PetroviÄ, voi siete, dopo lo zar, che Dio lo mantenga sempre sotto la Sua protezione, l’uomo più conosciuto e stimato di Russia. » Tutti gli anni il povero Athalinov mi rinnova questi discorsi, ed io vi trovo tanta stima e tanto amore per me; per questo voglio bene a quella bestia di Athalinov. «Che ore sono, Athalinov? » «Le quattro, Ivan PetroviÄ. » «Forse è l’ora che me ne vada a letto. Hai preparato il mio letto, Athalinov? » «Andate a dormire tranquillo, amico mio. Domani a che ora volete che vi svegli? » «Domani? Di’ pure stamani, mio vecchio Athalinov. Dio mi concede solo poche ore di sonno. Se ne hai voglia, svegliami alle nove, non più tardi, però. » «Vi sveglierò alle nove in punto, Ivan PetroviÄ. » «Buona notte. » «Cercate di dormire, e lasciate in pace i vostri libri. » Salii la scala lentamente, perché il viaggio e la vodka mi avevano stordito un poco. Quando toccai il letto, mi lasciai cadere come morto, e subito mi addormentai. III La mattina alle nove ero già pronto per partire. Athalinov si era svegliato molto presto e mi aveva fatto trovare la slitta già pronta. La bufera si era placata e nevicava a fiocchi piccoli e radi. Faccio per partire, quando mi viene incontro una donna: «Posso chiedervi dove andate, signore? » «A Bagaligorsk. Volete forse un passaggio? » «Proprio questo volevo chiedervi, signore, se proprio non vi dispiace… » «Andate anche voi a Bagaligorsk? » «Proprio a Bagaligorsk, signore. » «Allora salite; si parte subito e al gran galoppo. Vi piace correre? » «Oh sì che mi piace, signore. » La mia compagna di viaggio era una giovane e bella donna, a cui piaceva la conversazione. Quando ero io a parlare, muoveva i suoi grandi occhi neri e chinava il capo da una parte per ascoltarmi. Allegra e spigliata, non c’era argomento a cui non riuscisse di tenere testa, e, perbacco, quella donna non aveva proprio paura di andare per la steppa con uno sconosciuto! Dopo un centinaio di verste, vuole guidare lei. Lo domanda in un modo che non posso rifiutarmi, e appena le lascio le briglie, hop, hop! grida, e dà di piglio alla frusta. «Che fate, mio Dio! Ma siete proprio sicura di saper guidare? » «Certo che so guidare. » Passata la prima sfuriata, si proseguì a passo d’uomo. Eravamo vicini a Sudomora, un villaggio di appena cento anime, sperduto nella steppa. La bufera se ne era andata ed ora brillava un bel sole tiepido. Mi levo la pelliccia. La donna mi osserva, e poi, dando la frusta ai cavalli, mi dice: «Ho studiato a Mosca; ho frequentato la scuola di Jakov Kruscenko; lo conoscete? » «Chi non conosce Jakov Kruscenko, un uomo famoso in tutta la Russia. Dovete essere molto intelligente se avete saputo meritare la sua stima. » «Oh, davvero conoscete Jakov Kruscenko? È proprio un grand’uomo, non è vero? Ed è ancora molto bello. Raccontano che a Mosca gli fanno la corte le più belle donne della città. » Si giunge al villaggio di Sudomora; io vorrei passare oltre, ma la mia compagna di viaggio ha altre idee per la testa; e vuole entrare nella piccola chiesetta. Arresta la slitta proprio sul minuscolo sagrato. Entra e prosegue fino ai piedi dell’altare, si inginocchia, china il capo e rimane così per qualche minuto. Nel frattempo, io giro lo sguardo intorno e aspetto. Quando ha finito, le chiedo se possiamo andare. «Sembrate voi, ormai, la padrona della slitta. » Sorrido, anche se avevo proprio una gran voglia di dirglielo. Tanta sfacciataggine e tanta presunzione non le avevo proprio mai viste in nessun’altra donna! Si prosegue ancora. Facciamo qualche sosta per riposarci. Guido io questa volta. Lei se ne sta buona buona al mio fianco, forse un po’ stanca. «Come mai andate a Bagaligorsk? » domando. «Perché vado a Bagaligorsk!? Ma perché i miei genitori vivono là, grazie a Dio, e anch’io sono nata là. » «Nata a Bagaligorsk!? Ma se non vi ho mai visto! » «Sfido io, si può dire che vi manco da quando sono nata. Sono la figlia di Nikolaj Varoshin, lo conoscete? » «Voi la figlia di quel filibustiere! Ma non gli somigliate per niente. Siete così allegra e graziosa quanto lui è grosso e brontolone. » Diventò rossa, e non mi dispiacque. Le casupole di Bagaligorsk cominciarono ad apparire all’orizzonte. Diedi una frustata ai cavalli e quelli cominciarono a correre. «Vi accompagnerò a casa vostra. Conosco bene dove si trova la vostra casa; vi lascerò proprio sulla porta. » La casa di Nikolaj Varoshin è un po’ distante dalla casa dei miei; ma mi faceva piacere accompagnare personalmente quella ragazza dai Varoshin, dopo che vi mancava da una ventina di anni. Arrivo in paese; i miei cavalli hanno sentito le briglie e vanno a passo d’uomo. Là in fondo è la casa di Nikolaj Varoshin, quel bestione. «Ehilà Nikolaj, » grido «venite fuori. Guardate chi vi porto. Vostra figlia vi porto! » Nikolaj Varoshin è un elefante, tanto è grosso e robusto. Mi ha sentito e mi viene incontro correndo meglio che può, mentre la povera moglie non ha la forza di muoversi ed è rimasta sulla porta ad attendere. «Non ve lo aspettavate, eh, Nikolaj, che proprio io vi riportassi vostra figlia. » Ma ora devo tacere perché Varoshin ha stretto tra le braccia la sua figliola e tutti e due piangono di gioia. Poi è la volta della povera Natalia Grignienka; sua figlia le corre incontro e la povera mamma fa di tutto per muoversi, e vorrebbe avere le gambe sane come una volta per fare presto. Ora sono proprio tutti, i Varoshin. «Bene, » dico «ho voglia di correre anch’io dai miei vecchi. » Ma la figlia di Nikolaj Varoshin non mi vuole proprio dare pace. «Ehi, » dice «non vorrete mica andarvene senza promettermi di tornare a trovarmi e senza avermi detto neppure il vostro nome? Abbiamo viaggiato insieme e non mi avete detto neppure come vi chiamate. » «Ma come, MaÅ¡a » dice quella grossa bestia di Nikolaj rivolto a sua figlia «ma come, colombella mia, non conosci quest’uomo? » «Non so proprio perché dovrei conoscerlo, visto che manco da qui da una ventina di anni. » «Figliola mia, » dice quella bestia di Nikolaj Varoshin »ma tutta la Russia lo conosce. Il suo nome non solo è sulla bocca del popolo, ma lo stesso zar si vanta di essergli amico. E fuori della Russia, c’è il mondo intero che lo conosce! » «Voi esagerate come al solito, Nikolaj, e avete una lingua che uguale non ce n’è in tutta la Russia, proprio così. » «No, questo ve lo meritate, perché siete uno di noi, Ivan PetroviÄ. » «Ivan PetroviÄ, voi! » esclama la bella Mar’ja Nikolajevna. Come potevo più nascondermi? La poveretta aveva fatto un viaggio di quasi mille verste in compagnia nientemeno che di Ivan PetroviÄ, e non se n’era accorta. Che vergogna! Mi fece piacere vederla finalmente in grossa difficoltà. «Mia cara Mar’ja Nikolajevna, l’avete proprio fatta grossa » dissi. Ma poi scoppiai a ridere e così fece anche Mar’ja Nikolajevna. «Voglio vedervi tutti i giorni, » mi disse «voglio parlare tutti i giorni con voi, Ivan PetroviÄ. » «Ed io tutti i giorni verrò a prendervi con questa slitta e vi porterò in giro per la steppa, vi va? » Mar’ja Nikolajevna mi fissava con certi occhi! «Mi va. Accidenti se mi va. » Devo proprio dirglielo a quella benedetta ragazza, se no non posso dormire stanotte: «Sentite, Mar’ja Nikolajevna, lo volete un complimento da me, da Ivan PetroviÄ, voglio dire… » «Certo che lo voglio; perbacco, se lo voglio. » «Bene, » dico «siete una ragazza che non ce n’è al mondo, Mar’ja Nikolajevna. » «Ed io voglio dirvi che vi facevo più bello e anche più giovane. Però… » «Però? » «Insomma, voglio stare con voi ogni giorno qui a Bagaligorsk e parlare con voi ogni istante. Vi dispiace? » «No, credo proprio di no, Mar’ja Nikolajevna. » Mi viene in mente mio padre, che mi aspetta come sempre sulla porta e brontola se non arrivo subito da lui. Volto la slitta e me ne vado. Letto 1639 volte. | ![]() | ||||||||||
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 17 Agosto 2008 @ 15:51
Una piacevole sorpresa, questo racconto di Bartolomeo. Una narrazione di una storia intricante e, forse, diversa, a mio avviso, dalle tematiche frequentemente trattate dall’autore. Una narrazione affascinante e ricca di suspense, dove emergono in modo felice la puntuale descrizione degli ambienti e l’approfondita analisi psicologica dei personaggi, analisi precisa ed intelligente, tanto da farci coinvolgere nel loro mondo, nel loro modo di vivere. Su tutto veglia lo sguardo attento dell’autore, che narra con un tocco incalzante ed agile e ci fa assaporare pienamente atmosfere e luoghi, che riusciamo a vedere, a toccare, a ripercorrere, a godere.
Complimenti!
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 17 Agosto 2008 @ 16:41
Non ti sfugge proprio nulla, Gian Gabriele. Domani ti farò un’altra sorpresa. E (più avanti però) altre dello stesso genere.