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LETTERATURA: Una gita a Croisset

4 Dicembre 2007

di Alfio Squillaci

[L’ultimo libro di Alfio Squillaci: “Mare Jonio”, Sedizioni, 2007]

Il treno fila via liscio sulla dolce pianura normanna costeggiando per alcuni tratti la Senna che qui s’allarga e si distende nell’ultima corsa verso l’Atlantico.

Ci lasciamo alle spalle Parigi ed abbiamo per meta Croisset, sobborgo di Rouen, dove Flaubert visse la maggior parte della sua vita, scrisse i suoi capolavori narrativi e quelle stupende Lettere che non finiscono mai di sorprendere.
Il paesaggio è dolce e pervaso da quella malinconia che nei viaggi non sai mai se attribuire alle cose o all’occhio che le scorge, benché la giornata risplenda di piena luce primaverile. « È soprattutto quando si viaggia che si sente profondamente la malinconia della materia, che altro non è che la nostra anima proiettata sugli oggetti » dice Flaubert in una lettera. Ecco, questo è uno scrittore, grande o piccolo non sappiamo dire, ma nostro: colui che ricostruisce con nitida esattezza ciò che è un nostro confuso pensiero. Ed è proprio a partire da questo muto dialogo fra i nostri e i suoi pensieri che si stabilisce il primo riconoscimento, e, in seguito, al ripetersi dell’esperienza, l’attaccamento affettivo e il travaso da una sensibilità all’altra.

Andiamo in pellegrinaggio a Croisset ad omaggiare la Letteratura come si va alla Coní§iergerie per la Politica, a Gerusalemme per la Religione, ad Atene per la Filosofia. Abbiamo capito cos’è la Letteratura, se davvero l’abbiamo capita, attraverso i libri di Flaubert. Siamo stati toccati dai suoi libri, gliene siamo riconoscenti, sentiamo il bisogno di visitare i luoghi dove aleggia il suo spirito, per sentircene ancora compenetrati. Scriveva Gustave sulla forza dei libri: « Ogni voce trova la sua eco. Penso spesso con tenerezza agli esseri sconosciuti, a quelli che nasceranno, stranieri etc, che si commuovono o si commuoveranno delle mie stesse cose. Un libro vi crea una famiglia eterna nell’umanità. Tutti quelli che vivranno dei vostri stessi pensieri sono come dei figli seduti alla vostra tavola ». Davvero, si finisce col pensare ad un autore che ha scritto queste cose come ad un amico morto.

Il paradosso vuole che destinatario di tanta affettività sia uno scrittore per nulla incline alle smancerie romantiche, che affermava «l’uomo è nulla e l’opera tutto » che predicava l’impassibilità e l’impersonalità, ovvero l’eclissi dell’autore nella pagina. Il narratore, secondo lui, non deve narrarsi: deus absconditus, sarà nella sua opera « come Dio nell’universo, presente in tutto ma invisibile ». «L’artista deve operare in modo da far credere alla posterità che egli non sia vissuto. Il primo venuto è più interessante di Monsieur Flaubert perché è più generale e per conseguenza più tipico ».

Eppure, se la Letteratura è « una sezione di realtà attraversata da un temperamento » come credeva Zola, alla lunga, ciò che ci resta di un’opera – il libro letto e dimenticato – è proprio questo temperamento, ossia un modo di percepire   il mondo, uno sguardo attraverso il quale il mondo ci viene restituito e attraverso il quale impariamo a vederlo anche noi, e che da ora in poi ci appare come prima non ci era mai parso. C’è perciò lo sguardo di Tolstoj, quello di Joyce, di Leopardi, di Flaubert, ed è per questo che nasce attorno agli scrittori e ai luoghi dove essi hanno deposto il loro sguardo questa forma di sacra venerazione e di santuarizzazione. Recanati, Dublino, Jasnaja Poljana, Croisset divengono le Lourdes dello spirito, di chi ha “visto la Madonna”, di chi è stato protagonista di un evento estetico forte e toccante. Ma   come tutte le Lourdes di questo mondo anche queste soggiacciono ai pericoli del kitsch, dal quale peraltro noi sinceri credenti non sappiamo come difenderci, perché ne siamo le vittime e i propagatori.

Eccoci, stranieri, in terra di Francia, a Croisset.
L’autobus di linea urbano ci lascia a un chilometro dalla casa dello scrittore. Si procede a piedi, come vuole un autentico pellegrinaggio, costeggiando la Senna che scorre tranquilla come un naviglio lombardo sotto l’argine su cui camminiamo. Non ci sono più, nel fiume, i paquebots che Flaubert vi vedeva navigare, né tanto meno i robusti vogatori con la maglietta a righe e i baffi a manubrio di Maupassant. In lontananza, verso Rouen si scorgono gigantesche gru portuali: l’oltraggio permanente della modernità.

Della casa di Flaubert, una grande costruzione di tipo inglese, non è rimasto che un pavillon che dà sulla strada, presumibilmente quello dove veniva ospitato l’amico Bouhilet. Al posto della grande casa, andata demolita agli inizi del secolo, è stata edificata una papeterie che sarebbe un dignitoso omaggio per un artista se non fosse che la carta che vi si produce non è solo destinata alla stampa dei libri ma anche… ai W.C.

Ci riceve una giovane donna, poco più che ventenne, capelli neri divisi a bandeaux, occhi chiari, una carnagione d’alabastro, un seno polposo generosamente scoperto, ricamato da venuzze   e debordante sulla blusa costantemente slacciata che lei svogliatamente chiude. Sappiamo che è in agguato la più bieca letteratura, ma la rassomiglianza con Emma Bovary è impressionante. La ragazza però non è che la custode e… sorpresa! una napoletana disoccupata di nome Lucia assunta con contratto a termine presso l’ufficio del lavoro di Rouen. Lei dice di aver dimenticato l’italiano nonostante che abbia dei parenti a Napoli che tutti gli anni va a trovare, ma si capisce bene che si rifiuta di parlarlo. A noi va più che bene discorrere in francese. Si fa esercizio.

Entriamo nel pavillon e qui troviamo delicatamente esposte le reliquie del grande scrittore. Ci si commuove subito a deporre lo sguardo sulle sue cose. Benché sotto vetro e al riparo dalla polvere reale vi scorgi ugualmente su di esse la polvere del tempo, quella patina che col trascorrere dei decenni ha reso opaco e stinto un po’ tutto:
qualche dagherrotipo con Gustave in baffoni; lo schioppo da caccia custodito in una teca; in alto, poggiato su un mobile e sotto vetro, il pappagallo di Un cuore semplice; la sua penna d’oca; il ranocchio a bocca spalancata che fungeva da portainchiostro; il ritratto di Louise Colet; una ciocca di capelli biondi del bel giovane normanno che fu Gustave; pennini vari; qualche manoscritto che si esamina con attenzione nell’intento puerile di contarne le cancellature, vittime come siamo della concezione, dopotutto romantica, del genio che scrive “tutto di getto”; e infine un idolo cinese su cui s’è quasi del tutto estinta l’originale doratura.
Alla vista di tutti quegli oggetti ci assalgono le sue riflessioni sul fluire delle epoche, sulla tristezza dei secoli perenti, sul   frisson de l’histoire e sull’eternelle misère de tout
Lucia, adesso, alla vista del nostro rapimento sembra più interessata a noi. Dopotutto siamo degli italiani eccentrici. Noi siamo i primi che vede in quel luogo da quando è stata assunta, dice. Ci chiede da dove veniamo. Forse vuol sapere da quale regione italiana, ma presi alla sprovvista rispondiamo senza riflettere, da Parigi. Vediamo un enzima di piacere balenarle negli occhi: « il y a beaucoup de monde à Paris », sospira come se fossimo appena rientrati dal ballo della Vaubyessard. E parrebbe aggiungere: «Ed io qui a custodire un pappagallo impagliato, mentre la gente si diverte… » È una Emma dei nostri giorni che abbiamo davanti. Gustave che pure era cattivo con le sue creature letterarie, non avrebbe gradito, sicuramente, che una petite femme consumasse a Croisset una porzione della propria vita, a custodire le sue memorie. Inteneriti dalla sua sorte le   chiediamo se ama Flaubert. No, lo detesta. Perché? Tutte quelle descrizioni così inutili e lente. Ci irrigidiamo. Descrizioni lente? Può darsi, ma proprio per questo belle. «Vede signorina », la portiamo sulla finestra del   pavillon cha dà sulla strada, «la vede quella Renault rossa che è appena passata? Veloce eh! Adesso immagini di essere su una carrozza o su un paquebot che solca la Senna, come Frédéric all’inizio dell’Educazione Sentimentale. Vedrà sfilarsi davanti a sé lentamente tutto ciò che le passa davanti sulla riva. Esattamente come lo vedeva un artista dell’ottocento non ancora contagiato dal mito della velocità. È cambiata la nostra percezione, i nostri tempi interiori. Noi oggi vediamo le cose come cadendo dalla tromba delle scale, lui come un distinto signore appoggiato al parapetto di un balcone. (Ricordavo un paragone di Italo Calvino). In quanto all’inutilità, se intende dire che le sue descrizioni sono esornative, si sbaglia di grosso “Non c’è,   diceva lo stesso Flaubert,   nel mio libro[M me Bovary] alcuna descrizione isolata, gratuita; tutte servono ai miei personaggi ed hanno un’influenza lontana o immediata sull’azione”. Le ricordo, una per tutte, la celebre descrizione del berretto di Charles Bovary. Mezza pagina di descrizione di un berretto, per dirci semplicemente ma stupendamente che il suo Charles era uno stupido ». La ragazza ci guarda come istupidita, non si attendeva quella valanga di parole, quasi una supponente lezione, decisamente fuori luogo. Siamo reciprocamente imbarazzati.

Concludiamo la visita. Uscendo fuori gettiamo un ultimo sguardo sulla colonna smozzicata posta all’ingresso. Un reperto punico per Salambò. Ma sì: una stramberia di Flaubert…
La sera, in albergo, accendiamo il televisore. Il tema del Bouillon de culture di Bernard Pivot è dedicato a.. .”M.me Bovary et l’adultère”. Una bella ossessione. Basta così, í§a suffit.


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1 commento

  1. Commento by lucetta frisa — 5 Dicembre 2007 @ 21:19

    I miei complimenti per la sua scrittura che mi piace molto e tratta temi che sono tra i miei preferiti.
    lucetta frisa

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