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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Una scappata a Sammarco

23 Febbraio 2009

di Dino La Selva  

Per uno strano caso stamani ho mezz’ora di tempo libero e sto girellando senza uno scopo preciso per le piazzette e per le vie animate della città che da quasi vent’anni mi ospita. Ad un tratto, un’idea come un’altra: voglio passare dalla Società dei Telefoni per cercare sull’elenco l’indirizzo di un certo amico di gioventù e mandargli gli auguri di Pasqua. Eravamo molto amici, ambedue da poco laureati in medicina e giovani scapoli, ed io avevo conservato a lungo il suo indirizzo in un’agendina; poi il taccuino era andato smarrito e l’esile filo che mi legava a lui ed a quel tempo si ers spezzato…Ma voglio cercare di riannodarlo.
    Eccomi arrivato; una porta a vetri, una sala piuttosto spoglia con le cabine da un lato, la scrivania con le telefoniste dall’altro e nel mezzo gli elenchi telefonici, tutti appesi come salami lungo il bordo di un grosso e girevole tavolo rotondo. E’ molto facile   in tal modo cercare un numero telefonico: si gira la ruota fino a trovare il nome della città. Si tira su l’elenco corrispondente e lo si consulta…Eccolo qui! Prendo l’agendina e trascrivo scrupolosamente l’indirizzo. La via è diversa da quella che mi pareva di ricordare, anche i titoli che seguono il nome sono cresciuti d’importanza; certo sta facendo carriera… Ecco fatto!
    Rimetto l’elenco a posto, poi comincio distrattamente a far girare il tavolo e a leggere i nomi di città che mi passano davanti agli occhi, scritti a fianco ai volumi…è tutta l’Italia che mi passa davanti! Torino, Aosta, Vercelli,… Milano… Bologna, Ravenna, Forlì… Sembra un viaggio in treno! Il viaggio che da bambino facevo tutti gli anni con la mia famiglia per andare a trascorrere le vacanze estive al paese di mio padre. E mentre leggo distrattamente quei nomi di città che mi portano lentamente verso il Sud, un pensiero improvviso mi percuote, e il cuore mi comincia a palpitare forte in maniera davvero irragionevole: “Voglio guardare l’elenco telefonico di Sammarco…voglio fare, per così dire, una scappate a Sammarco… Ma che fai, stupido! C’è bisogno di emozionarsi così?” Firenze… Siena… Roma,,, Ancona… Pescara… ormai le città corrono rapide sotto i miei occhi attenti, molto più rapide del treno sonnolento che mi portava bambino con i miei sogni e le mie apprensioni di piccolo milanese, e si fermava con un ultimo stridio di freni nella stazione di Foggia: “Foggia!!…Foggia!!…” Ed ecco infatti sull’elenco Foggia e provincia.
    A questo punto il tipo di viaggio, il paesaggio, le persone cambiano radicalmente. Non sono più sul treno, ma su di un vecchio e traballante “postale” che si inerpica prudentemente, faticosamente sui ripidi spalti rocciosi del Gargano, avvolto in una nuvola di polvere bianca. All’interno dell’autobus, una strana e varia umanità: signorotti di paese grassi e ridanciani dalle voci larghe e gutturali, donne silenziose ammantate di nero, uomini dai volti scarni in “coppola” e “zampetti che portano ceste consunte dai forti e inconsueti odori: pane pugliese, aglio, pecorino, caciocavallo, qualche pollastro… Sull’elenco, tanti nomi di paesi ormai familiari: Apricena, Carpino, Cagnano, Rodi, Vico, Vieste, Sannicandro…ed ecco San Marco in Lamis.. anzi la targa stradale di Sammarco in Lamis, di ferro smaltato bianco con le lettere blu, sbrecciate qua e là dalle sassate dei ragazzi! Dopo quell’ultima curva, lo so, apparirà all’improvviso il paese. Ed eccolo infatti!… Prefisso 0882.
 E dopo il prefisso, tutti in fila, uno dietro l’altro, i nomi della mia gente, i Confitto, i Ciavarella, i La Sala, i Massaro, i Nardella, i Soccio… tutti i nomi della mia infanzia! E mentre guardo la pagina dell’elenco uno strano prodigio accade davanti ai miei occhi: lr file di nomi si trasformano in file di case, piccole case imbiancate a calce con le finestrelle nere e con i vecchi tegoli bruni. Gli intervalli fra le righe divengono improvvisamente strade: strade più larghe, nere, di pietra lavica e vicoli più stretti di calcare bianco, a scalinata, che si arrampicano sul pendio del monte. E’ tutto il paese che improvvisamente sorge dalla pagina aperta piena di nomi e mi cresce intorno e mi avvolge.
    Non è più il neon con la sua luce fredda che brilla sulla mia testa china, ma un sole chiaro e caldo che si riflette sui muri bianchi e mi abbaglia; e l’aria non è acre fumo di sigarette, ma aria tersa e pura di montagna solcata da innumerevoli voli di rondini. Io leggo nomi, ma in realtà cammino per il paese, mi immergo nel paese con le sue facce amiche, le sue scalinate, i suoi vicoli, le sue piazzette, con i suoi odori, i suoi rumori, le sur grida, i suoi pianti. Con il ragliare degli asini, il concerto dei fabbri, i richiami delle mamme, le strida dei bambini che corrono, le urla gutturali dei carrettieri che altercano, -‘abbaiare dei cani, il canto strozzato dei galli… e poi l’odore di grano, di stalla, di terra e di pane che lo pervade tutto.
    Bonfitto… Centola… Ciavarella… Ecco la Strada del Purgatorio, larga scalinata in lieve salita, e sulla destra il vicolo con la casa di Michele; una scaletta esterna di pietra levigata dall’uso, una ringhiera di ferro di bastoni radi e sottili, ed in cima un portoncino sbilenco dal quale ora sta uscendo Michele, masticando tranquillamente una fetta di pane e pomodoro.
    Coco… Gualano… La Sala… eccomi su per quella ripida scalinata a San Berardino, davanti all’ingresso di un “basso” chiuso da una fitta rete da pescatore; ora le maglie della rete si allargano e attraverso di esse si affacciano gli occhi neri mobilissimi, il largo sorriso, il volto abbronzato di Peppino che mi dice: “Meh, trasce che non ce sta nisciune!” Ed io entro di nuovo nella penombra fresca della stanza, candida di calce, con la cappa del camino, la cisterna, le serte di pomodori r di agli appese al soffitto, e in fondo un lettone di metallo nichelato più alto di me; alle pareti grandi fotografie di contadini seri e baffuti, l’oleografia dell’Aurora del Reni e quella, di autore ignoto, di alcune donzelle in veli colorati adagiate dolcemente su di un orato primaverile. Il mio amico mi offre acqua di pozzo, fresca e un po’ sapida, poi scova in un cesto due melagrane.
    Massaro… Nardella… Palombo… ora sono nella piazza difronte alla Chiesa delle Grazie inondata di sole; c’è un portoncino marrone, una soglia consunta, una rampa di scale ripidissima… e in cima alla scalinata ecco spuntare il mio amico Raffaele col ciuffo color carota, gli occhi attenti un po’ sospettosi, le lunghe gambe secche infilate in calzamaglie di lana rustica, la sua solita voce risentita che chiede: “Chi è?” Ma mi ha riconosciuto, nonostante gli anni trascorsi… in un baleno scivola sul corrimano di legno lucidato dall’uso e piomba giù a un centimetro dai miei piedi. Mi sento arrivare fra le scapole una manata poderosa mentre egli s’inarca tutto in avanti, gli occhi come fessure luccicanti, la bocca che gli arriva alle orecchie in una risata saltellante, sghignazzante, contagiosa più dell’influenza.
    Scarano… Soccio… Tardio… eccomi al “Puzzuranne” con le sue scale esterne di legno, e quella è la buffa casetta di Matteo, semicircolare come una piccola torre bianca, con una vite annosa piantata a fianco alla porta in una specie di tubo alto due metri che sale fino ad un terrazzinodal parapetto irregolare.
    Tancredi… Tricarico… Villani… ed ecco il Corso Umberto I con i suoi palazzotti borbonici, ecco l’ampio portone di legno massiccio di mio cugino Elio. Entro nel vasto atrio pavimentato a lastre di calcare grezzo; in un angolo la cisterna chiusa da una piastra di ferro, in fondo quarto pilastri disposti in quadrato che sostengono le rampe delle scale sulle quali piove la luce smorta di un lucernaio. “Buonasera, c’è Elio?” Sto per entrare a trovare mio cugino, il capo della nostra banda, che sta certamente leggendo avventure di cow- boys o disegnando cavalli (è il più fanatico ammiratore di cavalli che io abbia conosciuto)…
    Ma avverto una presenza estranea che mi distrae. “Scusi, per favore!…”, una voce cortese ma un po’ impaziente mi giunge all’orecchio sinistro. Mi volto. Effettivamente sto ostacolando la ricerca di qualche altro numero telefonico. “Ah,sì! Mi scusi, ho finito.” E richiudo lentamente l’elenco. Tutto si appiattisce fra le due facciate dell’elenco che si chiude, come quei presepi di carta colorata che una volta si trovavano nelle letterine di Natale. Tutto il paese con le sue strade, le sue case, le sue piazze, i suoi alberi si schiaccia di nuovo fra le pagine dell’elenco e viene silenziosamente inghiottito. La scappata a Sammarco è finita. Credo che non ne farò altre per un bel po’ di tempo.  

(Da “Lo specchietto retrovisore”)


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4 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 23 Febbraio 2009 @ 16:38

    Da un’idea originalissima scaturisce questo viaggio indietro nel tempo e nella giovinezza. Uno scritto interessante, impreziosito da un lessico asciutto che sa come descrivere oggetti e sensazioni.

  2. Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: Una scappata a Sammarco — 23 Febbraio 2009 @ 17:53

    […] Guarda Articolo Originale: Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: Una scappata a Sammarco […]

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 23 Febbraio 2009 @ 21:55

    Sì, Carlo, Dino La Selva, che nella vita ha fatto il medico (ora è in pensione), scrive molto bene.

  4. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 23 Febbraio 2009 @ 22:44

    Un dolce viaggio a ritroso (quasi fuga dal reale?) riporta in ampi spazi emozionali il segno, la forza, la suggestione di luoghi, di persone, di cose, di atmosfere, di pensieri, di voci, la cui traccia è avvolta in una temporalità non perenta, tesa a disvelarsi, quasi magicamente, attraverso vive sensazioni ed uno stupore nostalgico e tenero. Quel mondo fittamente intrecciato, man mano che affiora, si fa sempre più testimone di una stagione che non conosce eclissi di sentimenti.
    E la parola si rifà all’antica misura, illuminando un tesoro che diviene canto appagante nel tratto del rigo umano. L’animo ritrova in quello spazio approdo e incontro, desiderio e sogno, chiarore e scrigno smaltati di vita.
    Ed anche se si richiudono appiattite le pagine del tempo, è sempre lì che l’animo può trovare rifugio, può ricostruire il suo vero battito
    Gian Gabriele Benedetti

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