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L’Europa federale tra il sogno e la realtà + il caso Napolitano

26 Agosto 2012

di Eugenio Scalfari
(da “la Repubblica”, 26 agosto 2012)

MARIO Monti sarà ancora operativo fino a gennaio, poi la campagna elettorale inevitabilmente lo congelerà. Quattro o cinque mesi, ma ricchi di eventi e di decisioni che possono avere effetti notevoli su quanto ne seguirà nella prossima legislatura.

La prima decisione da prendere riguarda il rapporto tra il governo, il mercato e la Banca centrale europea. Finora Monti ha battuto e ribattuto sul tasto che l’Italia ce la farà da sola a rimettersi in piedi, restando fedele al programma di rigore già in atto, procedendo con le riforme soprattutto per quanto riguarda la rapidità dei tempi della giustizia civile, la riqualificazione della spesa, l’evasione e infine il rifinanziamento, per quel che è possibile, dell’economia reale.

Questo orgoglio nazionale è stato un buon “incipit” per avviare il negoziato con la Bce e ottenere il suo intervento sul mercato dei titoli. Parliamoci chiaro: quell’intervento è indispensabile per difendere la moneta unica e garantire l’efficacia della politica monetaria, ma Draghi non darà mai inizio all’operazione da lui battezzata “non convenzionale” senza il via libera del fondo “salva Stati”, cioè della Ue e del governo tedesco.

Si tratta dunque d’un passaggio obbligato. Il disegno di Monti sembra questo: formulare lui le condizioni del “memorandum” e sottoporlo al “salva Stati” per l’approvazione. Monti conosce benissimo quale sia la condizionalità che la Ue e la Bce ci chiedono in aggiunta a quanto già fatto. Non si tratta di ulteriori dosi di rigore ma di ulteriori riforme che stabilizzino il quadro finanziario e consentano perfino un inizio di ripresa produttiva (di cui nel “seminario” del Consiglio dei ministri di venerdì).

La partita è assai complicata e i giocatori al tavolo sono a dir poco quattro: Monti, Draghi, la Bundesbank, la cancelliera Merkel. Ciascuno di loro ha una sua strategia e le alleanze nel corso della partita saranno variabili. Se il risultato sarà positivo ci sarà un alleggerimento degli spread di Italia e Spagna, un costo minore dei rispettivi debiti sovrani e soprattutto un vincolo che il governo Monti trasmetterà ai governi che verranno dopo le elezioni; questo vincolo risulterà di altissimo valore per i mercati e di rafforzamento sia di Draghi sia della Merkel nella complessa partita che essi stanno giocando con i falchi della Bundesbank e con le forze politiche che li appoggiano.

Il 6 settembre il Consiglio direttivo della Bce prenderà le sue decisioni. Monti dal canto suo dovrà uscire allo scoperto nei giorni successivi. Entro settembre questo problema dovrà dunque essere definitivamente risolto.

* * *

Ma ce n’è un altro, di problema, ancora più grosso ed è quello dello sfondo politico e istituzionale in cui l’intervento “non convenzionale” della Bce si colloca: l’eventuale passaggio dalla confederazione dei governi europei alla nascita d’una Europa federata. Si chiama, con parole concrete, “cessione di sovranità” dei governi nazionali agli organi federali dell’Unione europea, sia quelli già esistenti che andrebbero comunque riformati, sia organi nuovi da creare se necessario a completamento delle strutture della Ue.

Ne abbiamo già parlato qualche settimana fa. Allora sembrava che la Merkel avesse puntato sulla nascita dell’Unione federale tutte le sue carte. Non era ancora chiara la posizione di Hollande ma si sperava che anche la Francia alla fine riconoscesse la necessità di questa soluzione in un mondo ormai globalizzato.

Ne riparliamo oggi perché nel frattempo si è verificato un fatto nuovo: il tema dell’Europa federale è uscito di scena, la Merkel non ne parla più, la questione della cessione di sovranità si limita ormai al fiscal compact e si attende la sentenza imminente della Corte costituzionale tedesca sui fondi “salva Stati”, si dubita perfino della fattibilità di un’Unione bancaria e d’una vigilanza unica affidata non più alle Banche centrali nazionali ma alla Bce. Insomma una ritirata vera e propria da un progetto certamente assai complesso da realizzare in un continente diviso da lingue diverse e da secoli di guerre e di diverse etnie e tradizioni, ma assolutamente necessario per non far precipitare l’Europa in una totale irrilevanza politica. Come si spiega questa ritirata? E che cosa si può fare per rimettere in moto quel progetto?

* * *

La Merkel deve aver capito due cose che forse qualche mese fa aveva trascurato o sottovalutato. La prima: il grosso dell’opinione pubblica del suo Paese non vede affatto di buon occhio un’egemonia politica tedesca su un’Europa cui tutti gli Stati nazionali, Germania compresa, abbiano ceduto quote rilevanti di sovranità. I tedeschi preferiscono fare buoni affari e conservare una supremazia industriale e finanziaria sull’Europa, ma rifiutano di esercitare un’egemonia politica. Che implicherebbe notevoli responsabilità e cessioni di indipendenza nazionale.

La seconda questione è la resistenza al progetto federativo da parte di molti altri Paesi a cominciare dalla Francia e dai Paesi del Nord e dell’Est. Soprattutto quelli che sono fuori dall’Eurozona, Gran Bretagna e Polonia in testa.
Perciò, per dirla tutta, quel progetto sembra rientrato salvo alcune cessioni di sovranità che riguardano il bilancio europeo, la politica fiscale, la difesa della moneta comune. La quale tuttavia, se quello sfondo politico verrà a mancare, non avrà mai la forza d’una moneta di riserva.

Il venir meno di questo progetto allarga tuttavia probabili spazi di negoziato e consente iniziative altrimenti impensabili. Per esempio consentirebbe a Paesi interessati ad un’Europa federata di federarsi tra loro. Il “chi ci sta ci sta”, minacciato tempo fa dalla Germania quando si parlava di due velocità monetarie, potrebbe essere ora capovolto parlando di cessioni di sovranità politiche.

Se l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, l’Austria, ma anche soltanto i primi tre, fondassero anzi rilanciassero un Club mediterraneo con proprie regole e istituzioni comuni che mantenesse la sua presenza nell’Unione europea e nell’Eurozona non più come singoli Stati ma come Club, il contraccolpo sarebbe forte se non addirittura fortissimo.

Proseguo nell’esempio. Se i Paesi del Club stabilissero rapporti di consultazione e amicizia economica e politica con altri Paesi mediterranei, Algeria, Marocco, Libia Egitto, Israele, Turchia, rapporti che già esistono ma che cambierebbero titolare: non più i singoli Paesi ma il Club in quanto tale?

Se analoghi accordi fossero stipulati con tutta l’area di lingua latina nel Centro e Sud America, e principalmente con Argentina, Brasile, Uruguay, Messico? Argentina e Brasile hanno già dichiarato di essere molto propensi a studiare e concordare rapporti di questo genere. Un Club mediterraneo non potrebbe prendere un’iniziativa in tale direzione?

Se gli interessi e la fantasia suggeriscono nuovi orizzonti, non è affatto escluso che la stessa Europa federale possa rimettersi in moto. A volte bisogna saper sognare per affrontare le più dure realtà.

* * *

C’è un ultimo aspetto del quale voglio far cenno a proposito di Europa federale. Qualora prima o poi ci si arrivasse sarebbero necessarie alcune importanti modifiche istituzionali e cioè:
1. Il Parlamento europeo dovrebbe essere eletto su basi europee e non nazionali.
2. I referendum su questioni pertinenti l’Europa dovrebbero anch’essi esser votati dal popolo europeo e non dai popoli dei singoli Stati.
3. La struttura internazionale dell’Unione federale dovrebbe avere carattere presidenzialista del tipo degli Stati Uniti d’America: un presidente eletto che nomina il governo federale; un Parlamento che controlla l’operato del governo, la nomina dei funzionari di importanza federale, le leggi che incidono sul bilancio, le spese, le entrate. Una Corte costituzionale a tutela della costituzione federale.
Quando lo Stato ha le dimensioni di un continente e per di più in un mondo ormai globale, la democrazia deve assicurare al tempo stesso rapidità di decisioni, visualizzazione del leader che rappresenta quel continente e partecipazione dei cittadini. Il fondamento di queste strutture poggia sulla divisione dei poteri.
Si tratta, con tutta evidenza, di obiettivi lontani, ma spetta alla pubblica opinione averli presenti, dibatterli preparandone il possibile avvento.

Post scriptum. L’articolo di venerdì scorso 1 del nostro direttore Ezio Mauro sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica tratta un tema che è stato ampiamente e liberamente esaminato con ricchezza di argomenti. Aderisco a quanto scritto da Mauro. Del resto lo ha detto lui stesso e lo ringrazio per questo: noi ci siamo scelti reciprocamente diciassette anni fa ed è stata una scelta della vita che quotidianamente si rinnova. Sul tema in questione null’altro c’è da dire salvo le notizie di cronaca e il verdetto di merito della Corte che commenteremo con libertà e rispetto verso quell’istituzione che garantisce la costituzionalità delle leggi e dei comportamenti.


L’aggressione di Repubblica
di Antonio Padellaro
(da “il Fatto Quotidiano”, 26 Agosto 2012)

Così fai il gioco della destra” era l’anatema scagliato nelle vecchie sezioni del Pci contro chi osava mettere in discussione  la linea ufficiale del partito, l’unica autorizzata a difendere le masse lavoratrici dai “provocatori” (sempre appostati nell’ombra) e dunque da una visione dei problemi “oggettivamente fascista”.

Pensavamo che la parodia di quei dirigenti, un po’ sedotti dal mito dell’Urss e un po’ furbacchioni, immortalata dal sindaco Peppone di Gino Cervi, fosse ormai un reperto da cineforum. Invece,  venerdì su la Repubblica, il direttore  Ezio Mauro  ce ne ha fornita una  nuova versione rap: “Il fatto è che l’onda anomala del berlusconismo ha spinto nella nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra) forze, linguaggi, comportamenti e pulsioni che sono oggettivamente di destra”.  Di questa prosa anni Cinquanta si è già occupato Marco Travaglio  e, sull’ingenuo tentativo di mettere d’accordo capra e cavoli a proposito dello scontro  su Napolitano tra Scalfari e Zagrebelsky, non aggiungeremo altro. Qualcosa invece ci preme dire a proposito dell’attacco  ai limiti della diffamazione  che il direttore di quel giornale ha voluto sferrare contro il Fatto e i suoi lettori.

Certo, non siamo mai nominati, ma è l’abitudine della casa: ammantarsi di spocchiosa superiorità per meglio insultare l’avversario e poi nascondere la mano. È il giornalismo “de sinistra” che per quindici anni si è giovato dell’alibi Berlusconi per alzare le barricate e scendere nelle piazze con roboanti proclami e che adesso, soddisfatto, torna finalmente a riposarsi all’ombra del  potere costituito.  Notare il linguaggio da proprietari terrieri: “La nostra metà del campo”. Nostra di chi? Chi ve l’ha regalata? Cos’è, un lascito di Napolitano?

E in nome di cosa pensate di rappresentare “ciò che noi chiamiamo sinistra?” (Danno perfino il nome alle cose come la Bibbia).

Un fenomeno davvero bizzarro quello di un direttore e di un fondatore che si credono dei padre eterni. Verrebbe da chiedere  in nome di quale autorità morale, di quale cattedra superiore  decidono essi  chi è di destra e chi di sinistra? E poi, visto che si parla di giornali esistono notizie di sinistra e notizie di destra? Di grazia, questa scelta per così dire salvifica avviene sulla base delle telefonate del Quirinale? Del gradimento dei vertici Pd (non a caso ieri Bersani scimmiottava Mauro contro Grillo e Di Pietro)? O degli interessi  del padrone? E se per caso a Savona c’è una centrale con tassi di inquinamento tipo Ilva, a cui la proprietà del giornale tiene assai, non se ne parla perché trattasi di notizia “oggettivamente” di destra?

Noi rispettiamo i giornalisti e i lettori di  Repubblica  e non ci permetteremmo mai di scrivere che per loro “cultura è già una brutta parola”, come abbiamo letto nell’editoriale  in puro stile  Comintern. Comprendiamo  anche l’irritazione che si respira in quelle stanze da quando  Il Fatto  esiste e prospera, e se alcune tra le migliori firme di quel gruppo hanno scelto di lavorare con noi se ne facciano una ragione. La polemica giornalistica anche quando è sopra le righe va accettata. Le aggressioni no.


Zagrebelsky chi? L’Italietta dei club dei tromboni
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 26 agosto 2012)

L’Italia salottiera e intellettuale, a dif ­ferenza di quella reale che ha ben al ­tri problemi, si sta appassionando e avvitando attorno alla presunta trattativa tra Stato e mafia che sarebbe avvenuta agli inizi degli anni Novanta, quando Cosa no ­stra compiva stragi praticamente a giorni alter ­ni. Delle indagini su questo presunto misfatto si sarebbe occupato anche il presidente Napolita ­no, che ignaro di essere intercettato, pare abbia rassicurato l’ex ministro Mancino, uno dei tanti coinvolti, e indagati, nella vicenda. Apriti cielo.

A differenza di quanto accadde sulle intercetta ­zioni illegali di Berlusconi, mezza sinistra si è schierata a difesa del diritto di Napolitano a non essere spiato, mentre il solito clubbino di forca ­ioli (Di Pietro, Procure varie, Travaglio e altri) non vede l’ora di mettere Napolitano alla gogna. Sulla vicenda stanno litigando anche dentro il quotidiano La Repubblica: da una parte il fonda ­tore Scalfari, che difende il Colle sperando di avere in cambio il seggio di senatore a vita anco ­ra vacante, dall’altra tale Zagrebelsky, ex presi ­dente della Corte Costituzionale, noto più per le sue comparsate tv da Gad Lerner che per altro.

Ieri, su questa fondamentale questione, è in ­tervenuto anche il direttore di La Repubblica , Ezio Mauro, con un articolo di una pagina inte ­ra, manco fosse la ricetta risolutiva della crisi economica. Verrebbe da dire chi se ne frega di quello che pensano questi tre vecchi arnesi che si sentono gli dei del Paese quando sono invece retorici tromboni autoreferenziali. È che tra le ri ­ghe della lenzuolata di Mauro emerge finalmen ­te la verità: dietro questa ridicola sceneggiata non c’è la voglia di capire cosa successe. Anche perché la faccenda è indicibile ma chiara: lo Sta ­to giustamente trattò con la mafia- come si fa abi ­tualmente con i rapinatori barricati in banca o in caso di sequestri di persona- per bloccare le stra ­gi e chi lo fece meriterebbe un encomio (in breve tempo tutti i boss, a partire da Riina, vennero ar ­restati, la violenza finì e il carcere duro venne ad ­dirittura potenziato). No, a Mauro interessa tira ­re dentro nella questione Berlusconi, nonostan ­te quattro sentenze abbiano sancito che con la mafia l’ex premier non ha mai avuto a che fare. Hanno paura che ancora una volta il loro dise ­gno di portare la sinistra al governo si inceppi sul ritorno in campo di Berlusconi o sulla testardag ­gine di Napolitano a insistere coi tecnici.

Per questo, e non per sete di verità, il capo del ­lo Stato è finito sotto schiaffo. Ha intralciato i so ­gni della banda Zagrebelsky & C. Altro che ma ­fia, mafiosi sono i salotti e i giornali che stanno tritando lui oltre che Berlusconi.

_____

L’articolo di Sallusti, a mio avviso, non coglie il problema vero che è il tentativo di Napolitano di interferire nelle indagini in corso. Fermarsi sul disquisire se la trattativa Stato-mafia fosse lecita è fuorviante (infatti, la si pensò diversamente per il caso Moro, in cui non si volle trattare con le Br per la salvezza dell’importante uomo politico, ed era addirittura il 1978, quattordici anni prima del 1992! Perché nel 1978 no, e nel 1992 sì? Eppure le Br ferivano e uccidevano gangli vitali della società civile e dello Stato). La mia impressione è che, in questa vicenda, molti hanno portato il cervello all’ammasso e si rifiutano di essere obiettivi, quando, com’è il caso, gli avversari combattuti per molto tempo – gli stessi che anch’io ho combattuto – stanno svolgendo un’inchiesta che somiglia molto a quella del Watergate. Si vuol salvare Napolitano? E perché? Che cosa ha di speciale Napolitano per non soggiacere alle leggi e alla Costituzione, art. 90 compreso?


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Bart