LIBRI IN USCITA: Meridiano Zero – 17
1 Novembre 2009
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LE CENE
Mercoledi’ 4 novembre la cena al bistrot LA TABLE di Via Tiziano Aspetti n. 7, con la casa editrice Meridiano zero.
Prezzo indicativo 25,00 Euro.
Chi vuole partecipare e’ pregato di inviarci una mail per consentirci di prenotare i posti.
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LE RECENSIONI
Hugues Pagan – QUELLI CHE RESTANO – Euro 8,00
Valerio Evangelisti ha scritto su:
www.carmillaonline.com, 20.10.09
Hugues Pagan, ex militante sessantottino divenuto commissario di polizia (un po’ come il nostro Piergiorgio Di Cara, ex leader della Pantera), poi dimissionario dal Quai des Orfe’vres e affermatosi come scrittore, riassume un po’ tutte le caratteristiche del noir francese contemporaneo. Stile stringato, frasi brevissime, immagini vivide, taglio cinematografico. Scenari urbani (Parigi) desolati, malinconici, prevalentemente notturni e piovosi. Un poliziotto – o, nel nostro caso, un ex poliziotto – amaro e apparentemente cinico, ma in realta’ portatore di una sua morale, che si trascina stancamente tra i bistrot, con un sottofondo di musica jazz. E un caso di omicidio che, a furia di ramificazioni, ci dice che tutto il sistema e’ marcio, e in particolare lo e’ la polizia, che dovrebbe vegliare sulla sicurezza di noi tutti. Invece…
Si annusano Raymond Chandler, il Dashiell Hammett di “Piombo e sangue” e “La chiave di vetro”, il Jean-Patrick Manchette dei romanzi con protagonista il detective privato Tarpon (“Un mucchio di cadaveri”, “Piovono morti”). E inoltre i film di Jose’ Giovanni o quelli piu’ recenti di Olivier Marchal, ex poliziotto anche lui, con al centro degli sbirri che in francese si direbbero desabuses, si tratti del compianto Lino Ventura, di Ge’rard De’pardieu o di Daniel Auteuil, tutti gravati dall’ombra incombente dell’ultimo Jean Gabin (“La fredda alba del commissario Joss”). Duri tra i duri, sconfitti tra gli sconfitti, eppure ultimi cavalieri erranti in un mondo di merda.
Pagan e’ la sintesi di questo immaginario, anche per dati biografici dell’autore, e chi ama il contesto trova in lui completa soddisfazione. Il protagonista di “Quelli che restano” si chiama Chess, lo abbiamo gia’ visto in “Dead End Blues”: “Un uomo magro, piu’ vicino ai cinquanta che ai quaranta, un uomo con un soprabito blu che poteva permettersi solo un pezzo grosso, con stivaletti Gucci e vestito a doppio petto blu polvere”. Chi lo contempla e’ un poliziotto, e infatti segue subito il commento al vetriolo: “Gli sbirri fiutano i soldi, come certi cani bene addestrati fiutano la droga. E’ per questo che vengono utilizzati entrambi.”
Chess si e’ lasciato convincere da un pappone a indagare sull’assassinio infame di una delle sue donne. C’e’ da calarsi nella malavita parigina e seguirne i meandri, organizzati secondo suddivisioni spesso etniche. Contattare prostitute, battere quartieri insalubri, confrontarsi con i boss grandi e piccoli della periferia. Da ex uomo dell’Usine (“l’officina”, cioe’ la polizia; la “Factory” in Derek Raymond), Chess ricorre – tra una bottiglia di rhum, una jam session di jazz e un amorazzo frettoloso – agli espedienti del vecchio mestiere. Fino a scoprire che tra la Parigi sotterranea e quella emersa scorrono catene di complicita’ vergognose. Il marcio e’ ovunque: persino nella donna di cui il detective cominciava a innamorarsi. Non c’e’ amore per gente come lui. Una realta’ spietata non gli concede nemmeno quel sollievo.
C’e’ molto Derek Raymond (l’autore di punta di Meridiano zero) in tutto cio’: la prostituta uccisa era la migliore del mazzo. E ci sono tutti gli autori che ho citato, piu’ molti altri. In Pagan fa la differenza la sua esperienza personale. Quella che lo spinge a far dire a Chess (ma probabilmente chi parla e’ Pagan stesso), nelle ultime pagine, di avere lasciato l’Usine dopo che questa era diventata il braccio della Confindustria francese e dei suoi servi.
Una peculiarita’ della Francia? In Italia chi macello’ a Genova e’ promosso, chi uccise Aldrovandi, Rasman e Bianzino subisce pene platoniche. E guai a mettere in scena, in un nostro romanzo, uno sbirro corrotto. Le forze dell’ordine sono, per definizione, sante e immacolate. Il poliziotto letterario-televisivo italiano e’ una specie di icona, al massimo un simpatico pasticcione, piu’ spesso un eroe purissimo. E se emerge che un generale dei carabinieri patteggio’ con la mafia, nella letteratura della penisola detta impropriamente noir non ne restera’ traccia.
Ben venga, allora, la prosa cinica e sincopata di Hugues Pagan. Appartiene a un sottofilone, ma dice la verita’. Cosa che da noi, salvo poche eccezioni, non usa.
Valerio Evangelisti
(recensioni QUELLI CHE RESTANO)
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LE RECENSIONI
L.R. Carrino – POZZOROMOLO – Euro 15,00
il Salvagente
Milano, Roma, Baiano, Ospedaletto d’Alpinolo e un ospedale psichiatrico giudiziario. Gennaio 2008-gennaio 2009. Gioia e’ li’ e scrive di se’. Non giurerei su niente. Lui e’ nato il 28 aprile 1968, padre povero proletario artigiano, madre bella casalinga bionda con amanti (che talora variamente lo amano). Ha traversie scolastiche e soprattutto familiari: la madre Marta lo picchia e lo punisce con agate sulle mani, il padre e’ assente anaffettivo e ignaro dei tradimenti. Lui a otto anni, durante un’assenza sessuale di Marta, resta con il fratellino Luca (quattro) e di fatto lo uccide senza che ne sia considerato colpevole, i genitori si separano, va a vivere con i nonni paterni in campagna vicino Avellino, uno zio lo insidia e violenta, si vendica, il padre si trasferisce con la nuova donna e fa un altro figlio. Lui lentamente capisce di voler essere donna, gioia! E’ biondo, grandi orecchie, bella voce. Dopo altre violenze finisce in manicomio criminale (il primo italiano, piu’ di cento anni fa) e ci resta venticinque anni. Fino ad ora. Fra infermieri piu’ (Anna) o meno (Samuele) buoni, dottori piu’ o meno, altri malati (segnalo Romeo di Macerata), mesi in letto di costrizione e tentativi di suicidio, droghe e psicofarmaci, impazzimenti e registrazioni, cure e torture. Leggetelo se ne siete capaci. E’ duro, terribile, poetico, ghiacciante. Lascia poche illusioni e poche speranze. Ci sono criminali ma non e’ un noir, c’e’ una investigazione ma non e’ gialla, c’e’ letteratura ma non e’ di genere. E’ il secondo romanzo di Luigi Romolo Carrino (“Pozzoromolo”, Meridiano zero 2009) in prima, piu’ che a ritroso nel tempo (come il precedente), altalenante ciclica diacronica contraddittoria in ogni riferimento temporale (segnalo il 34/1, 41/2, 51/3, ecc.), doppia (almeno doppia) in ogni sentimento e in ogni riferimento personale (due sessi in fieri, due fratelli in fiaba, due identita’ su carta). Scriverlo e’ stata una sfida riuscita, pubblicarlo un’impresa stra-ordinaria, leggerlo una sfida da tentare, sia per noi che per altri. Una sfida meritoria soprattutto della piccola periferica coraggiosa casa editrice che aiuta a uscire grandi esordienti italiani (poi accolti in imponenti lidi) e grandi nomi stranieri (niente o poco tradotti). Il titolo non e’ un secondo nome, fa riferimento al pozzo dei desideri sotto la casa in cui fu concepito, dove c’e’ il diavolo che custodisce un tesoro, nessuno vi e’ risalito, eccetto uno che e’ tornato folle. Segnalo che a volta la gente ama senza voler bene e che nella vita potrebbe essere un onore venir divorati da chi ti ama, a pag. 56, 186. Sottofondo con Mina, Nomadi, Daniele. Coniglio alla cacciatora.
Valerio Calzolaio
(recensioni POZZOROMOLO)
L.R. Carrino – POZZOROMOLO – Euro 15,00
olmo splinder com, 24.10.09
“Sotto le fondamenta della vecchia casa. La casa dove sei stato concepito, c’e’ un pozzo che chiamano Pozzoromolo. Nel pozzo c’e’ un diavolo. Il diavolo custodisce un tesoro immenso. Molti uomini tentano di prendere il tesoro, scendono giu’, sul fondo, si perdono nei mille cunicoli, non risalgono piu’. Nessuno e’ riuscito mai, nessuno ha mai preso quel tesoro. Uno solo, uno soltanto e’ tornato. Il prezzo che ha pagato, il prezzo del ritorno, e’ stata la follia.
Sotto le fondamenta della vecchia casa, la casa dove sei stato concepito, c’e’ un pozzo che purifica ogni malore. Nel pozzo c’e’ un diavolo con le ali dell’angelo custode. Il diavolo custodisce un ricordo immenso che non vuoi ricordare. Nessuno e’ riuscito mai, nessuno mai ha preso quel tesoro da custodire. Uno solo, uno soltanto e’ tornato. Uno soltanto si e’ calato senza una luce, ad occhi chiusi ha trovato il suo desiderio avverato ma, il prezzo che ha pagato, il prezzo che hai pagato per tornare, e’ stato averlo dimenticato.”
Gioia e’ rinchiusa in un ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) da diversi anni e non ricorda piu’ perche’ e’ finita li’.
L’OPG e’ popolato da diverse persone, e ci sono dottori, infermieri, e poi c’e’ una grande quercia nel parco, sotto la quale Gioia spesso scrive di tutte le ombre che dal passato la rincorrono, di tutti i ricordi confusi che non si lasciano ricordare e flash della sua infanzia, dei suoi genitori, di suo fratello Luca, di Milano, di Mario e della gatta Rusinella…
Di queste pagine e’ fatto il libro di L. R. Carrino, un diario confuso, un calendario senza tempo di analisi e ricordi spesso devastati dal Remeron, dalla Doxepina, dalla Quetiapina, che accompagna il lettore nel cuore di Gioia e nella sua storia, nel suo sconfinato bisogno di essere amata, di essere voluta.
Pozzoromolo e’ un romanzo straordinario, e’ prosa che si fa poesia pura, poesia che nasce dalla carne, impastata di sangue e desiderio, di emozioni che nascono dal profondo e che ti costringono a sentire quel nido di vespe nello stomaco.
Bentornato Carrino, ma quanto ci sei mancato!
(recensioni POZZOROMOLO)
L.R. Carrino – POZZOROMOLO – Euro 15,00
viadellebelledonne wordpress com, 20.10.09
“Se nell’OPG tu fai qualcosa di troppo, un grido di troppo, un pensiero di troppo, un movimento di troppo, un bacio di troppo, un respiro di troppo, allora ti mettono a dormire, ti mettono sulla panchina piena di grazia e di immobilita’, con la bava che ti cola dalla bocca”. E Gioia, che nella sua vita si e’ sempre sentita “troppo”, in quel corpo nato uomo e non riconosciuto neanche a se stessa, e si e’ sentita “di troppo” – mai la persona giusta, mai la persona desiderata e amata -, si chiude in un silenzio che trova parole solo nella scrittura. E con la sua scrittura, raccolta in forma di diario, tra i pensieri della sua vita, in un salto continuo tra presente e passato, scopriamo la sua terribile storia.
L’uscita del secondo romanzo puo’ generare ansia nello scrittore e aspettative deluse nei lettori, soprattutto se il primo e’ stato un successo (“Acqua Storta”, Meridiano zero, 2008), ma L.R. Carrino con questo libro, “Pozzoromolo”, uscito in ottobre 2009, non delude e si conferma scrittore di classe. Il suo linguaggio e’ denso e avvolgente, vera poesia travestita da prosa: “questo pomeriggio mi ha fatto le ore come asole dell’attesa”, “nel buio incandescente che ci mangia la vita a scintille, a piccoli sorsi di fuoco, un fondo del mio corpo si mette nel letto e cova l’ombra del tuo profilo”, “certe volte, nel pomeriggio, la malinconia sotto la quercia, tutta quanta nel palmo della mano, me la metto in tasca e mi alzo”. Ed e’ con questo linguaggio che Carrino ci racconta la storia di Gioia, “l’amore dalle unghie laccate, i capelli biondi, l’ombretto verde, mentre la notte proietta luci bugiarde sulla parete” e ci accompagna in un viaggio della mente, nei ricordi e nelle ossessioni che popolano l’anima della protagonista. Lei non sa perche’ e’ rinchiusa nel’OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), non rammenta quali colpe ha commesso.
Raccontare il disagio non e’ facile. Il disagio mentale abita stanze diverse e indossa abiti mai uguali. Lo scrittore dovrebbe sempre parlare di cio’ che sa. Ma non e’ forse vero che in ogni storia, in ogni storia “vera” che racconti la vita, esistono i sentimenti? Ed e’ con i sentimenti che Carrino ci affascina e ci tieni legati alle sue parole.
Gioia ha sempre cercato l’amore, iniziando dal suo difficile rapporto con quella madre che usciva e non le diceva quando tornava, da quella madre che parlava di lei come di un peso, ma era sempre presente nei suoi pensieri e sbucava nelle foto con le sue unghie viola. E poi il padre, e dopo di lui, ogni uomo che ha conosciuto.
Gioia si sente “un’anima chiusa a chiave nella mia cella”, e da li’, da quella cella, inizia il suo cercarsi, il suo volere capire perche’ si trova li’ e cosa ha fatto.
Ma cosa ha fatto veramente Gioia, se non cercare di farsi amare? E gli altri cosa le hanno fatto?
Dai ricordi, che emergono in forma di frammenti incontrollati e spesso contraddittori, esce la storia di una vita che e’ stata ostile e malvagia nei suoi confronti, e che, nonostante questo, non riesce a demolire la sua estrema purezza, fino a farle dire: “Io non so perche’ sono qui, io non ne sento la ragione”.
E’ in un luogo che sente estraneo, tra gente con cui non vuole parlare. Riesce a sentirsi bene solo quando si trova nel parco che e’ all’interno dell’OPG: “Il parco e’ un luogo che mi appartiene, al quale sento di appartenere”. Ed e’ nel parco che Gioia trova la grande “mamma quercia” dove si reca per trovare sollievo dai troppi pensieri che la divorano, quelle “vespe” che le pungono lo stomaco e che “finiranno per fare un nido nella mia pancia”.
Un personaggio molto complesso, questo di Gioia, anche se di se’ afferma: “Non sono cosi’ complicata. Io sono semplice, tanto semplice da sembrare una tragedia del poco.”, ma anche un personaggio struggente che scrive, mostrando il conflitto che le cambia e le tormenta il corpo rendendolo “doppio” e diviso dalla sua stessa carne: “Non e’ ancora giorno, mi viene una paura che quasi mi voglio bene da solo”.
Un personaggio che Carrino ha raccontato in modo cosi’ coinvolgente e che consegna ai suoi lettori come un regalo prezioso. Se Gioia non e’ stata amata finora, da questo momento sara’ amata da ogni lettore che si addentrera’ nella sua anima.
Morena Fanti
(recensioni POZZOROMOLO)
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LE RECENSIONI
Laura Liberale – TANATOPARTY – Euro 10,00
inlungoeinlargo wordpress com, 1.10.09
“Resta il tuo corpo, che al disfarsi contrapporra’ il rifarsi come verbo, costringendo gli spettatori della morte fiction a ricontattare la morte vera, anche se spettacolarizzata in un’azione artistica. Restano le sue membra esposte, simbolo del fare poesia secondo Lucia Pezzi: uno strapparsi a morsi che, a carne viva, ti fa arrivare al cuore inesorabile delle cose”.
Come in una danza macabra, una ballata cadenzata da storie sotterranee e dalle frasi del “Libro Tibetano dei morti” che incorniciano le pagine, il lettore si trova in un mondo popolato da diversi personaggi: da Mina e Sergio, da Leo e Clotilde, ciascuno con un proprio mondo e ciascuno collegato con Lucilla Pezzi, protagonista del romanzo, eccentrica e misteriosa che come una sorta di Alice li condurra’ in un paese di visioni e liricita’.
Artista spregiudicata e seducente, dopo aver scoperto di avere un cancro, Lucilla decide di porre fine alla propria vita producendo la sua piu’ importante opera d’arte: il proprio corpo senza vita verra’ esposto per l’ultima performance della sua carriera a Tanatoexpo.
Con questo gesto amici, parenti e conoscenti saranno obbligati a contemplare la Morte tappando le orecchie per proteggersi da un urlo muto contro le lusinghe ultraterrene o le paure faustiane del limite da sorpassare, in una mostra itinerante che ha l’obiettivo di arrivare dritta al cuore.
E in quella fiera dove anche la dipartita e’ un affare da piazzare, la morte si fa lirica magnetica, un po’ grottesca e un po’ crudele, e gli spettatori sono i personaggi ma anche il lettore mosso a perdersi tra le parole dell’autrice, tra quei protagonisti intrisi di ricordi e malinconie, e quelle date da cui l’autrice cerca di trarre un filo che le colleghi, quasi a voler mantenere un contatto tangibile con chi non c’e’ piu’ e a voler rimettere a posto cio’ che l’ha fatta soffrire.
Il romanzo, scritto da Laura Liberale e pubblicato da Meridiano zero, e’ un piccolo gioiello, una favola nera in grado di ammaliare il lettore e di invitarlo a prendere il vizio di vivere, cosi che la morte quando arriva possa trasformarsi in impenitente poesia: “Verra’ la morte e avra’ i tuoi occhi”, recitava un famoso poeta!
Sono rimasta talmente colpita da questa opera che ho chiesto ed ottenuto di fare un’intervista a Laura che desidero ringraziare per la disponibilita’ e la gentilezza.
Ciao Laura, nella tua breve biografia leggo che suoni il basso in un gruppo rock composto da scrittori.
La dedica del libro cita i Bauhaus, gruppo dai testi lirici e dalle atmosfere gotiche:
– Quanto la musica influenza la tua scrittura? E come la definiresti?
“La influenza moltissimo. Ho una soundtrack per ogni cosa scritta, anche se non sempre scrivo ascoltando musica. Per Tanatoparty sono stati Bauhaus, Killing Joke, Joy Division, soprattutto.
Come definirei la musica in generale o l’influenza della musica sulla mia scrittura? Se e’ buona la prima, mi stai chiedendo veramente troppo. Se lo e’ la seconda, allora ti rispondo che e’ un’influenza che vorrei condividere col mio lettore ideale, nel senso che mi piacerebbe che la mia soundtrack fosse anche il suo sottofondo musicale durante la lettura del testo.”
– La citazione iniziale di Dick, tratta da un suo famoso romanzo, vuole forse essere un monito per il lettore che si trovera’ di fronte ad una realta’ erosa?
“In realta’ voleva essere molto piu’ leggera, quasi una battuta. Quasi.”
– Questo e’ il tuo primo romanzo? Avevi provato a scrivere qualcosa prima d’ora?
“Ho scritto e scrivo racconti e poesie (ho pubblicato a luglio di quest’anno una raccolta poetica con la d’If di Napoli). Al momento sto lavorando al secondo romanzo e ad alcuni racconti sulla scia di “Tanatoparty” (ho raccolto molto materiale in corso d’opera, e intendo utilizzarlo tutto).”
– Ho letto che sei indologa e traduttrice. Non pensi che la spettacolarizzazione della morte sia un allontanarsi dall’ordine universale delle cose a causa di un eccessivo attaccamento alle cose “terrene”? In due parole, Dharma e Karma che rapporto hanno nel tuo romanzo?
“Non tutti credono all’esistenza di un ordine universale delle cose (non importa cosa penso io al riguardo). La spettacolarizzazione della morte e’ una realta’ mediatica di tutti i giorni e, allo stesso tempo, non si sa piu’ come approcciare la morte reale. Tu parli di ‘attaccamento alle cose terrene’ (e capisco cosa intendi, al di la’ di ogni possibile interpretazione metafisica), un altro potrebbe tirare in ballo la categoria dei valori (tanto spendibile quanto vaga), e un altro ancora gli esiti inevitabili della societa’ dei consumi… La faccenda e’ ben piu’ complessa.
Dharma e Karma? Sono due parole che l’Occidente ha ‘adottato’ e fatto sue, ma per una grande fetta d’umanita’ hanno un significato e un valore ben specifico. La mia buonafede di indologa mi impedisce di usarle alla leggera. Ti offendi se passiamo alla prossima?”
– I personaggi del tuo libro nascono dalla tua fantasia o da esperienze personali?
“Naturalmente da entrambe.”
– Trasgressione, creativita’, impegno e decadenza: con queste quattro parole mi sento di riassumere il personaggio di Lucilla. Ti sei ispirata a qualcuno nel tratteggiarla? E come la definiresti tu?
“Ho pensato a una versione piu’ “estrema” della poetessa americana Anne Sexton, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1967. Anche lei, come Lucilla, aveva un suo gruppo rock per le performance.
Lucilla usa il suo corpo come superficie di scrittura. Provoca il pubblico della postmodernita’, dicendogli, da morta: “Guardami. Sono qui a farmi beffe della tua paura, della tua ossessione per il tempo. La tecnica che mi ha prodotta e’ la stessa con cui aspiri a farti congelare in un’apparenza di eterna giovinezza.”
In un mondo d’improvvisatori in ogni campo, Lucilla incarna anche coraggio, impegno, coerenza e responsabilita’ delle proprie scelte. Di questi tempi non e’ poco.”
– Un capitolo e’ interamente e minuziosamente dedicato alla descrizione dell’inumazione e del conseguente aumento dell’inquinamento e impoverimento delle risorse naturali. Da dove provengono questi dati? Come mai ti sei interessata a questo argomento?
“Sono dati che provengono da Internet, a quanto sembra attendibili, ma non posso averne la certezza.
E comunque, anche se fossero gonfiati, inesatti, il problema si pone comunque, e ciascuno di noi puo’ decidere come agire in proposito. Da piu’ parti si sono gia’ levate voci a favore di funerali ecosostenibili, con ridotto impatto ambientale. E’ sufficiente documentarsi un po’.”
– Il tema della necrofilia e quello della spettacolarizzazione si intersecano: il messaggio che Lucilla vuole inviare e’ quello della purificazione, dell’immortalita’ dell’anima o della liberazione del proprio spirito attraverso la supremazia sul proprio corpo?
“C’e’ un passo del libro che dice: “Per GĂĽnther e Lucilla il corpo doveva essere un grido ininterrotto contro l’ideologia, e il grido andava prodotto col sangue. Il corpo doveva sanguinare, come in un’iniziazione, e attraverso il dolore riaffondare la cosiddetta anima nel molle, nell’umido, nel buio e nell’impermanente della materia da cui il pensiero l’aveva estratta a forza”.
Lucilla non afferma l’immortalita’ dell’anima, e la sua non e’ neanche una sorta di ascesi sui generis volta a ottenere il dominio sul corpo. Lucilla vorrebbe superare la dicotomia anima/corpo che, da lunga tradizione filosofica e religiosa, fa dell’anima il “bene” e del corpo il “male”.
C’e’ un’altro passo, o meglio, dei versi (sono settenari ed endecasillabi) in cui Lucilla dice:”Dov’e’ finito il mondo? / L’ha spento un tradimento. / Dov’e’ il suo richiamo? / Non so che l’alfabeto dei miei sintomi, / e oltre la curva del mio male il tempo / no, non tracima piu’.”
Morire e’ questo, per lei. Lo spegnersi del mondo, e non l’involarsi dell’anima. La perdita della soggettivita’ (quale corpo agente e senziente nel mondo) e la riduzione a cosa fra le cose.
Un giorno, in ospedale, vidi mio padre, malato terminale, fissarsi una mano con uno sguardo che non dimentichero’ piu’. Non c’era solo sgomento nei suoi occhi. C’era come un’attenzione assorta, quasi curiosa, uno stupore indagante. La sua mano era gia’ diventata un oggetto, osservabile da una prospettiva nuova, inedita. In quello sguardo c’era la comprensione che mai piu’ essa avrebbe fatto presa sul mondo.
Questo ho tentato di fare esprimere a Lucilla.
E poi c’e’ tutto il discorso dell’autodeterminazione. Lucilla sfida il suo medico a guardare il corpo non solo come entita’ biologica ma come volonta’ e progettualita’. Per bocca sua, ho espresso la mia posizione in tema di testamento biologico e trattamento medico a fine vita: pur nel riconoscimento dell’assoluto mistero della vita, sono fermamente convinta che le scelte individuali vadano rispettate, senza condizioni.”
– Quanto tempo hai impiegato per scrivere il tuo romanzo? Che tipo di scrittura pensi di avere: di getto o programmata?
“La versione edita di “Tanatoparty” e’, in realta’, la terza. Ce ne sono altre due: una del 2006 e una del 2007. Ho iniziato a documentarmi per il romanzo subito dopo la morte di mio padre, nel 2004. Una gestazione piuttosto lunga, come vedi. In tutto questo tempo sono stata seguita da Marco Vicentini, l’editore, il quale mi ha fatta scrivere e riscrivere, spremendomi fino all’osso.
Potresti definirmi un cesellatore. Non scrivo assolutamente di getto. Posso lavorare anche un’ora su una singola frase (ho un Super-Io letterario molto pretenzioso).”
– La domanda puo’ sembrarti scema, ma piu’ sono stupide e piu’ mi piacciono: cosa volevi trasmettere scrivendo questo romanzo? Qual e’ lo scopo o il messaggio intrinseco (se ce n’e’ uno)?
“Volevo anzitutto elaborare un lutto. Volevo capire delle cose, e capirle, per me, significa scriverne, finche’ non me le sono chiarite a me stessa. Volevo, potendo, aiutare anche gli altri a pensare queste cose, a interrogarsi sulla concezione della morte nella societa’ contemporanea e sul loro rapporto personale con la morte. Volevo provocare. Volevo non solo piangere mio padre, ma capire cos’era successo quando – lui appena morto – ero stata li’ con un tizio estraneo (uno delle pompe funebri, uno pagato per farlo) a vestirlo frettolosamente, di colpo mio padre trasformato in qualcos’altro, qualcosa che – mi si voleva far credere – non avrei piu’ potuto gestire da sola, vestire da sola, toccare da sola…
Quanto ai messaggi… ne abbiamo gia’ parlato, no?”
– Una cosa che mi e’ molto piaciuta e’ la trascrizione delle frasi tratte dal libro dei morti dei morti tibetano come cornice sul bordo delle pagine: c’e’ una correlazione tra le frasi scelte e i capitoli? E come mai questa “preziosita’”?
“Hai detto bene. Si tratta di una “preziosita’”. In origine avevo titolato solo alcuni capitoli iniziali con delle citazioni dal Libro. Poi, Marco Vicentini ha genialmente avuto questa pensata. Per me (in veste d’indologa) e’ stato, inoltre, un omaggio al grande maestro Giuseppe Tucci, il curatore dell’edizione italiana.
La correlazione (quando c’e’) e’ tra frasi e pagine. Puo’ essere un gioco per il lettore, nonche’ una sorta di interspazio “meditativo”.”
– Nella tua scrittura ti sei ispirata a qualcuno in particolare?
“Non consciamente. Fermo restando che non passa giorno senza che io legga qualcosa, e quindi le sollecitazioni e gli input possono essere stati molteplici.”
a cura di Rachele Baglieri
(recensioni TANATOPARTY)
Laura Liberale – TANATOPARTY – Euro 10,00
www.lankelot.eu, 6.10.09
Primo romanzo di Laura Liberale, indologa, scrittrice e traduttrice piemontese classe 1969, alle spalle una raccolta di poesie apparse per le eleganti Edizioni d’If di Napoli e due saggi, “Tanatoparty” nasconde, sulla cornice di ogni pagina, un omaggio al “Libro Tibetano dei Morti”. E’ un romanzo che possiamo leggere in tre strade; la prima, meditando semplicemente sulle antiche parole di saggezza nascoste nel libro della transizione tra la morte e la nuova reincarnazione; la seconda, affiancando con silenziosa e commossa empatia la ricerca autoriale dell’elaborazione d’un lutto, la morte paterna, rivelato sin nelle prime battute; la terza, sbuffando o sospirando per quel che nel romanzo si racconta – ossia, per le stravaganti, lugubri e grottesche tendenze al rifiuto della morte, alla sua spettacolarizzazione, alla negazione della sua normalita’.
La Liberale ridicolizza quella funebre fiera che ogni anno macchia l’Emilia Romagna, richiamando becchini, cassamortari e necromani da tutto lo stivale, ambientando in quei pressi l’ultima performance di un’artista provocatoria, Lucilla Pezzi, che ha deciso di servirsi della sua morte per stupire il pubblico per l’ultima volta; “un’azione artistica che comportera’ l’esibizione della salma” e’ la “atrocity exhibition” prevista e destinata a ferire la sensibilita’ degli spettatori. Una ex “dissacratrice performer in sessuogeno velluto carminio”, due anni piu’ vecchia della narratrice e dieci centimetri piu’ alta di lei, piu’ carismatica e piu’ seducente, chiude cosi’ la sua strategia di ricerca dell’immortalita’ – emulando l’antica sorte di Orfeo, mostrando le sue membra esposte, simbolo della sua concezione di poesia: “uno strapparsi a morsi che, a carne viva, ti fa arrivare al cuore inesorabile delle cose”.
Nel frattempo, la Liberale ha tempo per prendersi giustamente gioco delle scuole di “tanatoprassi”, dove si educa alla “estetica dell’aggiustabile”, per “riconsegnare al defunto una dignita’ corporale”, “riconsegnare ai dolenti un’identita’ del defunto riconoscibile e confortante”; attacca – con intelligenza, e quanto condivisibile umilta’ – la speculazione delle onoranze funebri, responsabile del disboscamento delle foreste, del depauperamento delle risorse di zinco, di un abnorme impiego di metano per le cremazioni, di tutta una serie di immissioni nell’ambiente di sostanze nocive nei trattamenti di tanatoprassi e necroestetica suggerendo – diciamo indirettamente – una saggia, francescana semplicita’ nella morte: che i cittadini vengano seppelliti in lenzuoli di lino, racchiusi in cofani di cartone biodegrabili, ai piedi di un nuovo albero, con una targa identificativa. Quanta civilta’. Magari fosse possibile. Purtroppo tutti sappiamo che gli sciacalli milionari si presentano, con allegra puntualita’, col loro fantastico catalogo di bare di ogni ordine e grado, interni e cuscino da scegliere, tutto ben zincato e via dicendo, domandandoti addirittura se preferisci una Mercedes a un’altra, per il trasporto. Qualche buon migliaio di euro e poi si puo’ piangere in pace. Naturalmente tutto questo spreco di denaro, di materie prime e di intelligenza spezza ancor di piu’ il cuore a quanti avrebbero diritto di meditare sulla morte di chi hanno perduto (non per sempre) in santa pace, e in selezionata compagnia, e nel pieno rispetto dell’ambiente e della semplicita’ di chi se ne e’ andato. E poi, piu’ grave ancora, proprio come nella catena alimentare, ogni morte ingrassa qualche avvoltoio dall’aria antropoide, ben incravattato (ci mancherebbe). E il clan osserva con l’atteggiamento di chi non poteva fare altrimenti, apprezzando quel povero mogano che imprigiona un corpo amato.
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Questo e’ un esordio promettente, espressione di una buona personalita’ autoriale, di una sensibilita’ poliedrica, di una intelligenza capace di passare dal grande respiro dei testi sacri del passato alla triste asma dei tempi cupi e tutta plastica che viviamo. La Liberale ci ricorda che dovremmo restituire la morte alla sua essenza: quella di un fenomeno naturale, porta per un mondo diverso; non certo evento mostruoso, definitivo, intollerabile e ingiusto. La morte puo’ sembrarci ingiusta, ma la fede – le religioni – ci insegnano ad apprezzarla e ad accettarla. Una bara da 2mila euro vale quanto imbellettare chi non puo’ piu’ respirare: niente, e’ una cosa da niente, e non serve che a ingrassare. Mercanti, vostri estranei. Questo pero’ nel Libro Tibetano dei Morti non c’era scritto. Andrebbe aggiunto.
Gianfranco Franchi
(recensioni TANATOPARTY)
Laura Liberale – TANATOPARTY – Euro 10,00
XL, ottobre 2009
“Corpi plastificati per il sogno di immortalita’ di una umanita’ che non crede piu’ a niente… Da una bassista di una rock band, un romanzo macabro e satirico ispirato a un evento reale: un’Expo della morte con portachiavi a forma di bara e urne con sorpresa…”
Filippo La Porta
(recensioni TANATOPARTY)
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LE RECENSIONI
Christian Lehmann – IL SEME DELLA COLPA – Euro 13,50
biogiannozzi.splinder.com, 18.10.09
L’eutanasia e i baroni della medicina – Il vero volto del medical thriller
Se si escludono Kathy Reichs, Patricia Cornwell, Robin Cook, autori anglofoni, il solo autore di un certo rilievo per l’Europa sarebbe David Khayat, che e’ soprattutto un oncologo, di fama mondiale. Fortuna nostra, in Italia il medical thriller ha conosciuto soltanto delle comparsate con Eraldo Baldini, Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi per un volume antologico edito da Einaudi qualche anno or sono: il solo racconto meritevole, “Una lunga quaresima di paura” – che avrebbe meritato una edizione a se’ – e’ quello di Eraldo Baldini, che mischia con comprovata sapienza leggende popolari, riti pagani ed elementi horror per un thriller all’ultimo spasimo. Insignificanti rimangono i lavori di Lucarelli e Rigosi, che tentando una strada, per certi verso meno specialistica, danno vita il primo al solito killer, il secondo a un commissario malato di premonizioni.
Christian Lehmann e’ autore che rifugge il sensazionalismo spicciolo, i cliche’ tipici degli hard-boiled, per soffermarsi soprattutto sul cotidiano, sul mal di vivere di ogni giorno che colpisce indistintamente tutti, da chi ha una salute da leone a chi invece conta i minuti che gli rimangono sulle lancette dell’orologio.
“Il seme della colpa” di Christian Lehmann e’ un romanzo che affonda il bisturi nel dolore di tutti i giorni, ma non tenta di esorcizzarlo o di estirparlo, semplicemente perche’ non e’ possibile, tranne nel caso si voglia credere alle impossibili promesse (e terapie) della New Age per andare incontro presto o tardi a una cocente delusione. Con Il seme della colpa Lehmann ci introduce in un tema piu’ che mai attuale, quello dell’eutanasia o “dolce morte”.
La storia e’ quella di Laurent Scheller e Thierry Salvaing, due medici. Con il passare degli anni il primo diventa famoso dopo aver scritto un bestseller, ma il suo e’ un successo effimero; Thierry invece non la prova neanche la carta della fama, si dedica invece anima e corpo ai suoi pazienti, e’ un bravo padre e marito e non chiede poi molto altro alla vita, forse solo di riuscire ad alleviare il dolore di chi muore. Un brutto giorno Thierry viene accusato di omicidio: una paziente terminale, che solo sotto morfina trova un minimo di sollievo, muore in circostanze poco precise. Il medico viene subito accusato d’aver dato mano libera alla “dolce morte”. In un men che non si dica e’ in prigione. La moglie di Thierry disperata, dopo anni che non sente piu’ Laurent, decide di chiamarlo per chiedergli il suo aiuto. E’ convinta che solo Laurent possa tirare fuori di prigione Thierry, perche’ adesso Scheller e’ un uomo di fama e poi e’ stato un grande amico di suo marito. Peccato che Scheller non sia piu’ quello d’una volta: e’ ancora famoso, ma ogni giorno che passa e’ un passo in piu’ incontro all’impietoso oblio. Tuttavia quando sente la voce di Beatrice Ferey, donna che e’ stata anche la sua amante, decide di aiutare Thierry, l’uomo che Beatrice alla fine ha deciso di sposare.
Ade’le Cellier, ricoverata nel reparto di oncologia del professor Grenier, curata dal medico generico Thierry Salvaing, muore. Grenier subito accusa Salvaing di aver praticato l’eutanasia su Ade’le. A nulla servono le rimostranze di Thierry: il giudice Silvia Rijic ha ascoltato il medico, ma preferisce credere a Grenier, gran barone della medicina. Laurent, una volta a casa dell’amico insieme a Beatrice, sua ex fiamma, ha il sospetto d’aver sbagliato tutto nella vita: forse avrebbe dovuto sposare Beatrice e accontentarsi d’una vita umile e semplice. Tra Beatrice e Laurent rinasce subito l’amicizia e Laurent si illude che la donna provi ancora qualche cosa per lui; ma soprattutto capisce che se riuscira’ a portare fuori di prigione il suo amico Salvaing per lui Laurent Scheller si spalancheranno ancora una volta le porte della fama. Perche’ si’, per riuscire a far scarcerare l’amico c’e’ una sola via praticabile: convincere l’opinione pubblica, con ogni mezzo possibile, che il medico di famiglia Thierry Salvaing e’ innocente mentre il gran barone della medicina Grenier potrebbe non essere quello che fa credere di essere. Coinvolgere giornali e televisione per dire ai francesi che Thierry e’ un bravo medico, un padre di famiglia e un uomo coscienzioso: di questo deve concedere l’opinione pubblica e soltanto lui puo’ farlo interpretando il ruolo di “regista assoluto”.
Ne “Il seme della colpa” non ci sono ne’ iperbolici inseguimenti lungo le strade parigine ne’ macabri cadaveri ogni cinque minuti, non c’e’ il serial killer ne’ il poliziotto incazzato e duro a morire: c’e’ invece la terribile realta’, la vita quotidiana di un semplice medico di famiglia che viene accusato d’aver dispensato la “dolce morte” a una sua paziente. C’e’ il dramma di chi muore e lo sa, senza che nessuno si preoccupi di alleviare le sue pene. C’e’ l’accanimento terapeutico finche’ fa comodo ai baroni della medicina, ma poi, dopo, c’e’ la dimenticanza totale e assoluta, un paziente in fin di vita con le sue piaghe da decubito immobilizzato a letto che solo gli infermieri di tanto in tanto passano a trovare. C’e’ l’arroganza e l’indifferenza dei baroni della medicina che fanno i loro interessi e quelli delle case farmaceutiche. C’e’ che la normalita’ da (quasi) tutti accettata e’ quella di salvaguardare gli interessi delle multinazionali farmaceutiche. Ne “Il seme della colpa” c’e’ tutto questo e c’e’ di piu’: la denuncia. Christian Lehmann non offre soluzioni contro lo strapotere dei baroni della medicina ma la denuncia c’e’; e fra le righe, ma neanche poi tanto, ci suggerisce che la “dolce morte” in alcuni casi e’ compassione e pietas.
Giuseppe Iannozzi
(recensioni IL SEME DELLA COLPA)
Christian Lehmann – IL SEME DELLA COLPA – Euro 13,50
licenziamentodelpoeta.splinder.com, 16.10.09
Braccati dalla legge, ma non piu’ innocenti
Su un blog che ha iniziato la sua storia poco meno di sei anni fa parlando di libri, ogni tanto tornare alle origini non puo’ che far bene.
Ho letto “Il seme della colpa” di Christian Lehmann, e la prima cosa che ho da dire su questo libro e’ che, anche se esce nella collana Meridianonero (collana, per chi lo ignorasse, di noir illustri e meno illustri) dell’editore Meridiano Zero, “Il seme della colpa” non e’ un noir, non ci si avvicina neanche. Non so perche’ Marco Vicentini, che di Meridiano Zero e’ il patron, abbia deciso di collocarlo li’; d’altronde occorre dire che per tale collana son passati gia’ diversi libri, talora assai apprezzabili, che del noir non avevano niente o quasi. “Scusate il disturbo” del geniale Christopher Brookmyre, ad esempio (se non l’avete ancora letto, a proposito, cosa aspettate?), romanzo parodistico quasi sovrabbondante d’ironia e di invenzioni, oppure “Lucidi corpi” di Harry Crews, incentrato sull’ossessione per la perfezione fisica abbinata all’ingombrante peso di un passato tutt’altro che perfetto. E cosi’, ne “Il seme della colpa” non troviamo neppure uno dei topoi convenzionali del noir, se non quello dell’uomo accusato di un delitto che non ha commesso, tanto caro ad autori come David Goodis (mi viene in mente lui perche’ ci costrui’ sopra “La ragazza di Cassidy”, romanzo non tanto memorabile per l’intreccio, di per se’ banale, quanto per le magistrali scene di fuga che seguono l’incidente dell’autobus). E sempre le scene di fuga e di inseguimento da cardiopalma (unitamente, va detto, a un perfetto Tommy Lee Jones nei panni del tutore della legge che insegue il terrorizzato Harrison Ford) forniscono ragione della bellezza de “Il fuggitivo”, narrazione cinematografica sul medesimo tema, rampollata da una celebre serie televisiva d’antan.
Ma anche il tema dell’innocente braccato dalla giustizia, ne “Il seme della colpa”, e’ piu’ sfumato e complesso che nelle narrazioni che ho citato, e in quelle a cui siamo abituati. Anzitutto, qui l’uomo che viene accusato di aver commesso un delitto non sta scappando, ma si trova gia’ in galera. Dopodiche’, noi non sappiamo – fino alla fine del romanzo – se egli abbia commesso il delitto oppure no. E non lo sappiamo perche’ la vicenda e’ narrata in prima persona da un amico dell’accusato, Laurent Scheller, che per buona parte della storia fatica a ottenere un colloquio con il prigioniero, il dottor Thierry Salvaing: il quale, quando finalmente si ritrova a parlare con Scheller, e’ riluttante a parlare dell’episodio che e’ all’origine all’accusa. Scheller dunque dispone, allo scopo di scagionare l’amico, solo di testimonianze indirette: perlopiu’ di colleghi e pazienti, nonche’ della moglie, di Thierry. E alla gran parte di costoro sembra impossibile che Thierry abbia fatto quello che lo accusano di aver fatto: ovvero aver ucciso una delle persone che aveva in cura.
La moglie di Thierry Salvaing si e’ rivolta a Laurent Scheller affinche’ la aiuti a far scagionare il marito, che secondo lei e’ vittima di una macchinazione. Sullo sviluppo del romanzo non vi dico altro, anche perche’ e’ un libro che si legge d’un fiato. Io l’ho cominciato mentre aspettavo di prendere un aereo, e l’ho finito che mi trovavo ancora in volo (trattavasi di un volo abbastanza breve). Mi viene da dire, pero’, alcune cose sulle idee che, di questo libro, rappresentano la forza e che ne segnano il margine di unicita’, rispetto ad altre narrazioni.
Abbiamo detto, poc’anzi, che il tema dell’uomo perseguitato dalla legge e’ un tema classico del noir e della narrativa in genere. Esso contiene in se’ un conflitto gia’ bello e pronto a stimolare la nostra attenzione: quello tra la legge (che ha la funzione di proteggerci, e dunque crediamo tendenzialmente buona) e l’applicazione che della legge puo’ esser fatta dagli esseri umani, ch’e’ immancabilmente imperfetta. Tuttavia, questo tema e’ svolto, nella gran parte delle narrazioni, secondo uno sviluppo molto lineare: l’innocente ingiustamente accusato e’ braccato da ogni parte, e scappa (o, piu’ di rado, langue in prigione). Frattanto, qualcuno (lui stesso, se ha liberta’ di azione, o un altro personaggio all’esterno) va in cerca della verita’ che potra’ scagionarlo: dando la caccia, solitamente, al vero colpevole. Esistono su questo tema numerose varianti, inclusa quella – vista in opera nel gia’ citato “Il fuggitivo” – in cui il poliziotto che da’ la caccia al fuggiasco si convince man mano della sua innocenza, e collabora con lui per scoprire la verita’.
Ne “Il seme della colpa”, questo tema e’ visto da un’altra angolazione. Anzitutto, noi – come ho detto – non sappiamo se Thierry Salvaing sia colpevole oppure no. In seconda battuta, la colpevolezza o innocenza del dottor Salvaing sono meno importanti, per Laurent Scheller, di quanto non lo siano convenzionalmente nelle narrazioni di questo tipo. Cio’ che Scheller si impegna a fare, di fronte alla moglie di Thierry Salvaing e poi a lui stesso, e’ scagionare l’amico, con ogni mezzo. Non a caso la donna si rivolge a lui, onde riguadagnare la liberta’ del marito: e non a un investigatore privato, o a un poliziotto. Scheller non e’, come da tradizione, un personaggio il cui mestiere sia quello di scoprire la verita’: ma e’ uno scrittore e presentatore televisivo (sia pure di programmi di divulgazione medica), bello e carismatico, che ha il potere di creare un can can mediatico attorno al caso di Salvaing, producendo un clima sfavorevole all’accusa. Un simile stravolgimento dei canoni classici e’ interessante di per se’: ci rende testimonianza di un cambiamento nelle nostre convinzioni. Una volta i personaggi braccati dalla legge credevano che la verita’ li avrebbe fatti liberi, e si adoperavano affinche’ essa fosse scoperta: ora credono, consapevolmente o meno, che per essere liberi occorra produrre una versione plausibile della propria innocenza. Non contano i fatti, ma conta il modo in cui li raccontiamo nel corso del grande show mediatico quotidiano. Possiamo dire, in conseguenza di cio’, che perfino l’eterno personaggio dell’Innocente Braccato Dalla Legge abbia perso la propria innocenza, almeno quella piu’ intima.
Un’altra cosa interessante de “Il seme della colpa”, su cui mi soffermo piu’ brevemente, e’ la complessita’ delle finalita’ umane, cosi’ come Lehmann la racconta. Quando Laurent Scheller comincia a muoversi sulla scena per salvare la liberta’ di Thierry Salvaing, e’ un personaggio televisivo completamente bollito, in declino da tempo. Il can can mediatico che si produce attorno all’accusa di omicidio gli offre l’occasione di tornare sulla ribalta dei mezzi di comunicazione. E qui l’autore e’ bravissimo a non farci mai capire, fino alla fine, quanto Scheller abbia accettato di farsi coinvolgere nella faccenda per salvare l’amico, e quanto invece perche’ il suo ruolo in essa puo’ rilanciare la sua carriera. Solo al termine del romanzo, quando arriva il colpo di scena finale, le motivazioni di Scheller diventano palesi. E sul colpo di scena finale non posso dirvi niente, come e’ logico.
L’ultima cosa, su cui mi soffermo ancor piu’ brevemente, e’ il contenuto di denuncia sociale del libro, che l’autore e’ bravissimo a far passare tra le pieghe del racconto senza mettere pistolotti in bocca ai personaggi: ovvero il fatto che la privatizzazione della sanita’ sia una porcata delle piu’ immonde. Argomento sul quale io gia’ non avevo dubbi, ma la lettura de “Il seme della colpa” mi ha dato materiale ulteriore, e di prima qualita’, a conferma delle mie convinzioni.
Davide L. Malesi
(recensioni IL SEME DELLA COLPA)
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LE RECENSIONI
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Ennio Kitterlegnosky – CHRISTMAS PULP – Euro 12,00
il Trentino, 26.9.09
Storie degli ultimi
Continuano le scoperte di Meridiano zero. Ecco tredici racconti fuori da ogni schema, firmati da un autore nato a Ferrara ed oggi, ci si dice, in Svizzera. Fuochi d’artificio quelli di questo libello corrosivo e senza punti di riferimento, a partire dalla copertina. Un Babbo Natale in bermuda, accaldato. Per non dire di alcune delle trame. Un finto-falso-padre babbonatale, un uomo che approfitta della situazione per portarsi a casa una maestrina; o il furto di un bambino-vero dal presepe-finto. Queste sono storie degli ultimi, amare eppure capaci di provocare situazioni inverosimili e comiche. Vedremo se questo autore – come altri scoperti da Meridiano Zero – ci stupira’ ancora. Le premesse ci sono.
Carlo Martinelli
(recensioni CHRISTMAS PULP)
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Carl Hiaasen – CROCODILE ROCK – Euro 17,50
www.milanoweb.com,
“Crocodile Rock”: la rivincita di Jack Tagger
Edito da Meridiano Zero, un libro ricco di humour e colpi di scena. Bravo l’autore Carl Hiaasen
E’ la storia di un giornalista “sfigato”, Jack Tagger, che finisce per redigere la pagina dei necrologi sull’Union Register, finche’ non muore annegato Jimmy Stoma, leggendario leader della band Slut Puppies.
Secondo Jack c’e’ qualcosa che non quadra. L’autopsia sul corpo del cantante non viene fatta regolarmente e ci sono troppe ombre nei racconti della fidanzata Cleo. Il giornalista indaga e infine scopre la verita’, finendo in prima pagina.
E’ il riscatto di una carriera mai decollata.
Questa, in sintesi, la trama di un bellissimo romanzo edito da Meridiano Zero e intitolato “Crocodile Rock”.
Fresca, ironica, accattivante, sono questi i requisiti della storia narrata da Carl Hiaasen, scrittore americano, originario della Florida. Hiaasen e’ anche giornalista. Scrive regolarmente sul Miami Herald. Recentemente ha vinto il “Damon Runyon Award”, importante premio giornalistico.
(recensioni CROCODILE ROCK)
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