Mestrovich, Stelvio28 Agosto 2009 Il caso Palinuro Il caso PalinuroAncora una volta Venezia è la cornice suggestiva di questo nuovo giallo di Stelvio Mestrovich, nato a Zara, ma ormai lucchese di adozione. Conosce Venezia al pari di Lucca, ed è lassù che forse è rimasto il suo cuore, tanto che ha voluto creare un personaggio indissolubilmente legato alla città , il commissario Giangiorgio Tartini, “alto, la fronte spaziosa, i capelli lunghi, il naso aquilino”, pronipote di quel Giuseppe Tartini, “violinista e compositore”, autore del “Trillo del diavolo”, dal quale ha evidentemente ereditato la sua passione per il violoncello. Si respira aria di seduzione, di adulteri e di eros sin dalle prime righe, quando, sotto gli sguardi del Dio della Cappella Sistina, s’incontrano Alberto Dodero, uno scrittore ai suoi primi successi, una specie di dongiovanni facile preda delle donne, e Valentina Lotto, una quarantenne, amica della moglie Maria Pia Angaran, spigliata, e soprattutto bella e disposta a tradire il manesco e rozzo marito, Ciro Panigalli. Ma Valentina è femmina scaltra e al primo appuntamento con Alberto, gli fa buca; non si lascia più vedere ed è Alberto che va a cercarla; così conosce il burbero Ciro che gli spiattella che la sua bella mogliettina ha il “vizio” di fargli le corna, e soprattutto riesce ad intravedere finalmente Valentina che sale sul peschereccio Palinuro, in compagnia del giovane proprietario, Vincenzo Chiaravalle, un calabrese trapiantato a Venezia che “aveva un che di mitologico, a cominciare dalla barba e dai capelli ricci. Completava il resto un fisico atletico, forte e ben proporzionato.” Questo giovane pescatore, “buono come il pane”, ha un mistero alle sue spalle, la morte del padre Antonio, assassinato in circostanze rimaste misteriose quando ancora vivevano in Calabria, e il cui caso è ancora irrisolto. Ma c’è un’altra inquietante coincidenza, che Valentina è amica di Chiara Melegari, una giovane infermiera divenuta la convivente del commissario Tartini, anche lui “buono di cuore”, dopo che questi, lasciata un’altra amante di nome Camilletta Franco, era rimasto a vivere solo con il suo gatto Annibale. La tessitura comincia ad avere ora una propria fisionomia e ci consente di seguire meglio i passi dei protagonisti, che si dirigono tutti, prima o poi, alla volta del Palinuro, il peschereccio di Vincenzo. Ed è lì che una mattina viene trovata uccisa Valentina, con un colpo sparato alla fronte da una Beretta calibro 9. Comincia la caccia all’assassino ed entra in scena Giangiorgio Tartini, ma ad un attento lettore non sfugge che Mestrovich sta già seminando alcune piccole, minutissime tracce apposta per noi. Fuorvianti o vere? Le indagini del commissario filano veloci ed incalzanti, e così pure la nostra lettura, facilitata da una scrittura limpida e da dialoghi asciutti ed efficaci, che non attende altro che il momento di veder confermata l’ipotesi che ciascuno di noi si è fatta sulla base di quelle labilissime tracce. Non c’è dubbio che l’autore sta orientando vistosamente i sospetti su Alberto; perfino sua moglie Maria Pia ha paura di lui e crede che sia colpevole. Ma è davvero Alberto, l’assassino? O ci sarà una sorpresa proprio sul più bello, e Mestrovich si è un po’ divertito con noi? Delitto in casa GoldoniNato a Zara nel 1948, l’autore vive a Lucca da molti anni, ma “mi sento viennese. Mio nonno paterno lo era veramente. Infatti, la mia famiglia, nonostante il cognome slavo, discende dalla Stiria, precisamente da Graz. Dal mio nonno Giovanni ho ereditato l’amore per Vienna, per l’Austria, per la storia dell’Impero Austro-Ungarico.”S’interessa anche di musica, soprattutto quella dei secoli XVIII e XIX e a lui si deve la rivalutazione del genio di Antonio Salieri, a ricordo del quale, nel 2000, fece porre, a spese del comune viennese, una lapide sulla facciata della casa in cui visse, situata al numero 1 di Goettweihergasse, nella capitale austriaca. In occasione di un concerto dedicato a Salieri, tenutosi nel 2004 nel celebre teatro Konzerthaus dove si svolge l’altrettanto famoso Concerto di capodanno, a Mestrovich fu affidata la presentazione delle tre opere in programma scritte dal compositore di Legnago. La sala era gremitissima. “Anton Diabelli – un genio tranquillo” (2000), “Appunti di archeologia musicale” (2002), “Wolfang Amadeus Mozart – IL Cagliostro della musica” (2006) sono alcuni titoli esemplificativi del suo interesse per la musica.Ma è soprattutto al genere noir che l’autore si è dedicato da qualche anno: “L’assassino del confessionale” (1998), “Il filo della sinopia” (1999), “Il caso Palinuro” (2003), “Venezia rosso sangue” (2004), sono solo alcuni titoli. Venezia è la città che fa da cornice alle sue storie che hanno come protagonista l’ispettore capo Giangiorgio Tartini, “un uomo sulla cinquantina, alto, con la sigaretta in bocca, la fronte spaziosa, il naso adunco, i capelli lunghi e bianchi”, che l’autore fa discendere dall’illustre antenato Giuseppe Tartini (1692-1770), autore della celebre sonata per violino in sol minore “Il trillo del diavolo”.” Dario Farsetti, agente scelto, è il suo braccio destro, obbediente come un fedele servitore, un uomo brutto, “più largo che lungo”, ma con “due occhi meravigliosi, due vere perle azzurre”. A casa, a tenere compagnia a Tartini, essendo questi scapolo (mantiene una relazione altalenante con Camilletta Franco), è il gatto Annibale, che viene però accudito dalla vicina di casa, la signora Rebetz. Nel suo ufficio tiene sulla scrivania “il piccolo busto in gesso di Antonio Salieri. Era l’unica nota bianca e linda in quel grigiore polveroso.” Ma non ha peli sulla lingua, quando il suo personaggio incontra i guasti causati dal cosiddetto progresso: “L’acqua del canale che scorreva nei pressi della corte Malibran era verde e sudicia. Tra i riflessi delle case galleggiavano cassette di legno, lattine di birra, cartaccia, varie scovazze. Il caldo e i gatti la facevano da padroni.”; “Sul lungo budello d’acqua stantia e verdastra del piccolo canale c’erano capi ad asciugare, stesi a macchia di leopardo, e stanche imbarcazioni a ridosso di muri screpolati e rósi dal salmastro.” Allorché si trova ad indagare in Sicilia, insieme con il maresciallo Carmelo Celso, il fascino dell’isola lo conquista a tal punto da suscitare in lui molta simpatia per la sua gente. A Camilletta, che ancora considera la Sicilia una terra “dell’Africa del Sud”, risponde arrabbiato che la Sicilia è: “Terra ospitale e bellissima. Noi del Nord-Est dovremmo imparare l’Abc da loro!” La sindrome di JaeleMestrovich è uno degli scrittori che seguo con molto piacere. Intanto perché vive a Lucca e ne è ormai cittadino a pieno titolo, anche se è nato a Zara nel 1948, e poi perché scrive bene e sa accompagnare con dolcezza ed eleganza il lettore lungo il percorso accidentato delle sue storie. Appassionato di musica e autore di testi al riguardo, Mestrovich ha trasmesso questo suo sviscerato amore al suo personaggio, l’ispettore capo di Polizia Giangiorgio Tartini, discendente di quel Giuseppe Tartini (Pirano, 12 aprile 1692 – Padova, 26 febbraio 1770) autore della celebre sonata “Il trillo del diavoloâ€. Addirittura sulla scrivania, l’ispettore tiene una statuetta in gesso di Antonio Salieri (di cui Mestrovich è grande ammiratore). Ha un fratello di nome Mirko, “che era stato un celebre pianista jazzâ€, un gatto che si chiama Annibale; è un gran fumatore di Memphis Lights, e ha un naso aquilino. Suzanne e altri raccontiSuzanne è il racconto principale (potrebbe essere definito un romanzo breve) di questa raccolta; è il più lungo (100 pagine su un totale di 133), ma anche il più significativo. Fu pubblicato per la prima volta vari anni fa, quando Mestrovich era praticamente agli esordi (vinse il Premio Viareggio Giovani-Farabolina, con il titolo di “Suor Franziska”) e già vi si riconosce quella gioia dello scrivere che contrassegna il marchio d’autore, confermato poi dalle opere successive. Ci prepariamo, dunque, a seguire la vita di suor Franziska (al secolo Suzanne von Ritter), ritiratasi nel convento di clausura delle Carmelitane Scalze seguaci di Santa Teresa d’Avila che sorge là dove si compì la tragedia di Mayerling, in cui morirono l’erede al trono d’Austria, Rodolfo d’Asburgo, e la sua amante Maria Vetsera. La loro presenza, con il proprio dramma d’amore, si fa sentire nel pensiero e nell’anima della suora. Prenderemo conoscenza del suo diario e dei sentimenti che hanno attraversato la sua esistenza, sin da prima che prendesse i voti. La struttura scelta è dunque semplice e ci consentirà di raccogliere a piene mani timori e gioie, rassegnazioni e speranze di questo personaggio che, oltre che suora, è anche donna. Si alterneranno pagine dedicate alla vita giovanile secolare, quando il suo nome era Suzanne, a pagine che ci consegneranno le sue giornate al convento. Lo stile dell’autore, che non tradisce mai le regole della semplicità e della chiarezza, esalta tali qualità in alcuni tratteggi di raffinata delicatezza e poesia. Qualche esempio: nel convento c’è suor Natalia, già anziana, badessa e discendente del fratello della madre di Maria Vetsera. Ecco come viene descritta: “I suoi occhi di un azzurro intenso, sembravano frammenti di luce divina. È impossibile descriverli. Non vi si leggeva né passato né presente, bensì un rilassamento di eternità , che oltrepassava i confini della comprensione. Da loro scaturiva il bagliore intermittente di quel faro che è la Fede.â€. Più avanti troveremo un’altra descrizione meritevole. Zlato e Suzanne sono nel cimitero dove è sepolta Maria Vetsera: “Il freddo era pungente e il tempo minacciava nuove nevicate. Ci guardammo attorno. Poche persone stavano chine sui loro cari come fiori viventi che il vento piegava in giù. File di statue, raffiguranti angeli, madonne e cristi, dominavano dall’alto il cimitero in un monito che la solitudine rendeva corale.â€. La madre superiora è perseguitata dall’idea di vedere apparire ogni tanto nella sua camera il fantasma del principe Rodolfo, e questi le ha perfino rivelato che entro breve una catastrofe si abbatterà sul convento: “Alla reverenda madre superiora apparve di nuovo il fantasma di Rudolf, questa volta in abito da viaggio, all’epoca in cui il Principe Ereditario soggiornò in Egitto e in Palestina. Sghignazzava in modo volgare, mentre faceva dondolare un crocifisso d’oro che gli pendeva dal collo.â€. Franziska non sa che pensare, è turbata. Già vive nei tormenti e la sta attraversando anche il pensiero del suicidio. Nella storia della letteratura diaristica, abbiamo già trovato vicende e riflessioni drammatiche; per citare una lucchese, ricordiamo quello di Gemma Galgani, che riceveva le visite del demonio, suo acerrimo nemico e persecutore. In questo diario i tormenti sono generati da crisi di Fede e da ricordi del passato e mostra due volti e due anime. Affronteremo, infatti, la Franziska vacillante nella Fede, e quella più intima e segreta che ci rimanderà ad una letteratura erotica e scandalistica che ebbe il suo apice nel XVIII secolo. Zlato è uno zingaro, conosciuto quando aveva circa 19 anni; se n’era innamorato e ci aveva fatto all’amore, ora è morto: “Nuda, stesa sul letto, il giovane disse che il mio corpo assomigliava a un famoso disegno di Klimt.â€. Poi commenta, con la grazia che può nascere da un piacevole ricordo: “Due lepidotteri nella magica fusione di nervi e di livree di giovanile splendore.â€. Franziska (che sta per compiere 22 anni) scrive in segreto, ha paura di essere scoperta, sa che nelle parole che si trasformano in scrittura c’è la lotta tra il Bene e il Male, quella ossia tra Dio e Satana. È il mistero che sta dentro l’uomo, e riesce a lacerare le anime più sensibili, come la sua. Franziska ne sarà , infatti, il simbolo tragico: “non voglio più rimanere prigioniera in questo lager di Dio.â€. Un giorno che riuscirà a giungere all’aria aperta, grazie ad un passaggio segreto (di cui approfitterà altre volte), riderà e piangerà : “Avevo la luna sopra di me, il chiarore delle stelle, il profumo della notte. E la libertà ! Mi mossi tra gli alberi come impazzita.â€. Il diario è lo specchio che le manca (“Sento la mancanza di uno specchio.â€), il suo confidente, che però non può darle risposte, è muto, e la lascerà sempre sola con se stessa. Il pensiero del suicidio diventa una costante da che si è data a Dio. E allora la domanda che viene sollecitata è questa: Ci si può dare a Dio e concepire il suicidio? E anche: Ci si può dare a Dio e persistere nel piacere della carne? Abbiamo conosciuto suore che non riuscirono mai a liberarsi dalla passione e dal peccato. La più celebre è Gertrude, la Monaca di Monza di manzoniana memoria, ma anche a Lucca, negli stessi anni del XVII secolo, abbiamo avuto un esempio di pari intensità nella figura di Lucrezia Buonvisi, peccatrice caparbia anche quando si ritirò in convento con il nome di suor Umilia, dopo che fu complice nell’assassinio del marito da parte del suo amante. Ma Franziska ha avuto un solo amore, non conosce il vizio; quando suor Eletta, una lesbica, le si avvicina con intenzione, lei “con uno strattone la respinsi malamente.â€. Eppure il suo cammino è un tragico percorso di morte (“tu sei sempre afflitta.â€, le dirà suor Ilaria). Il lettore sentirà avvicinarsi la morte nel mescolio di pensieri ed emozioni che metteranno a fuoco i tormenti e le inquietudini di una umanità che può in ogni momento della vita essere travolta: “Pretendere di trovare Dio e la Fede in questo Lager è come voler cercare giustizia nei campi di sterminio nazisti. Dio non c’è e questi luoghi sono abbandonati da tutti. Noi, monache di clausura, siamo anime aride, che abbiamo fatto della preghiera un sacrilegio. Della morale uno scempio. Dell’onestà , un vituperio. Dell’ipocrisia, una ragione di sopravvivenza.â€. Sembra di leggere pagine del marchese De Sade. Troveremo più avanti la seguente descrizione dello stato di privazione in cui è costretta suor Eletta, la suora lesbica, sorpresa a letto ad amoreggiare con una consorella. Aveva poi sputato in faccia alla nuova badessa, la severa e dispotica suor Ilaria (“Quell’essere sbilencoâ€), e perciò era stata rinchiusa nella cella di rigore: “La poveretta giaceva per terra mezza nuda e in preda ai fremiti. Singhiozzava e bestemmiava con trivialità . Vicinissimi a lei, una ciotola di nera brodaglia e un orinale. Il buio era quasi totale e l’umidità enorme.â€. L’amore per Zlato (“figlio del ventoâ€) è occasione per disegnare anche il mondo dei nomadi, con qualche illuminazione ogni qualvolta abbiamo a che fare con un gruppo che di sera sta attorno al fuoco e danza e canta: “I fuochi del campo sembrarono stelle in terra e i carrozzoni mi ricordarono le primitive caverne. Una zingara della stirpe di Salmanassar allattava uno dei suoi figli.â€. L’autore ritorna spesso a illustrarci con un delicato sentimento di affetto, la storia, la vita e le consuetudini di questo popolo: “Le zingare, con le loro tradizionali gonne lunghe, formarono un cerchio e due di loro iniziarono a danzare. Ogni ballo rappresentò la storia gitana di quel Paese. Cioè Spagna, Ungheria, Romania, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Polonia, India, Nepal. Ogni suono una nazione diversa, ma lo stesso popolo.â€; “Come si starà nel paradiso degli zingari? Zlato mi raccontava che è talmente vasto che vi scorrevano sei fiumi. Le praterie ospitavano migliaia di cavalli e dalle stelle scendevano note di musica gitana. C’erano olmi e faggi, pascoli abbondanti con pecore e buoi, ricche sorgenti e trote guizzanti.â€. Il convento di Mayerling (“Mayerling è il capolavoro del destino.â€) è anche un riflesso dei tormenti della protagonista. Un altro specchio, oltre al suo diario: “Forse il vento mi sussurrò che Mayerling mi apparteneva e che non potevo scappare. Dal mio annullamento, la sublimazione.â€. La tragedia che vi è racchiusa è diventata, dunque, ben più di un ectoplasma che gira nel convento, ma un esempio per il mondo, il quale è facile ad ogni contaminazione. Franziska ne è vittima e messaggera. La morte è libertà , è resurrezione. Quando muore l’anziana suor Giulia, leggiamo: “lei allontanò da sé il crocifisso e guardò fuori della grata di ferro. Fui l’unica a capire il suo pensiero. Immaginai i rami del pesco fiorito. E l’azzurro del cielo. Le labbra di suor Giulia si mossero impercettibilmente, forse fu un amen o una parola di gioia male articolata, dopodiché cessò di vivere.â€. Mayerling è il passaggio dalla felicità alla tribolazione, alla sofferenza come modello espiatorio e catartico: “A Zlato mancò il coraggio del Principe Ereditario. Perché non mi aveva proposto di morire con lui?â€. Dal diario emerge una parabola discendente e triste della vita. L’amore tra Suzanne e Zlato si fa sempre più scialbo e tragico. Non innalza, ma comprime, soffoca e crea incertezza e disperazione. Il legame tra Suzanne e ciò che dentro di lei l’ha spinta a diventare suor Franziska è rimasto intatto. Il suo, è stato un volo che, dopo i primi anni, quando era una spensierata ragazzina, non è riuscito più a staccarsi da terra (ricorda di aver visto nella cittadina di Rust un nido di cicogne: “I miei pensieri non posseggono il piumaggio bianco e nero di quegl’uccelli e non hanno voli leggeri.â€); il cielo, il suo azzurro, lo spazio infinito che può dare solo la speranza si sono trasformati in un cupio dissolvi, in un tormento in cui anche i ricordi dei momenti felici, ora sono diventati spine dolorose e sanguinanti. Il suicidio a cui pensa Franziska è, dunque, generato da un desiderio di riconquista, una riconquista più laica che mistica, con il pensiero rivolto più a Zlato, simbolo dell’amore terreno, che a Dio. Quello tra Zlato e Suzanne è un amore contorto, ostinato e tragico. La ragazza non riesce a privarsene. Si è concessa all’amico Hans, ma il sentimento che la pervade per Zlato è come una maniaca e diabolica ossessione. Lo zingaro è arrivato ad un livello di degrado inimmaginabile (è diventato un ubriacone incallito), e tuttavia Suzanne continua a cercarlo nel suo girovagare e a concedersi a lui: “Mi sentii salire dentro quella voglia incontrollabile di fare sesso.â€. Il sesso è una componente significativa della personalità di questa suora. Il suo diario ne è impregnato anche quando non è citato espressamente. Ci rendiamo conto, così, che Franziska resta una donna, non è mai diventata una suora. Nei giorni che precedono quello da lei stabilito per il suicidio il suo pensiero si rifugia talvolta negli unici momenti in cui la gioia di vivere era pura felicità : i giorni dell’infanzia. È una regressione che anela alle origini della vita, alla purezza che ha segnato l’avvio dell’esistenza umana; il tempo di un Eden troppo breve e fuggitivo: “per me c’erano sempre un sorriso, una carezza, una risposta alle mie domande da bambina.â€. Risposte che non trova più, e che la clausura ha trasformato in ferite: “Che bisogno ha Dio di simili spose? È tutto ciò un atto d’amore o un’offesa spudorata?â€. Nella lettera indirizzata al capo zingaro Jozsef prima di impiccarsi ad un albero del convento, un pesco, leggiamo: “morta lo fui già il giorno in cui Zlato mi lasciò. Poi la disperazione nata in convento ha reso maturo il suicidio e il farmi violenza altro non sarà che il ritorno al recente passato (…) Il pesco sarà maledetto e forse tagliato. Non sarà bello vedere il corpo nudo di una suora penzolare da uno dei suoi rami.†Jozsef, in una lettera indirizzata alla madre superiora del convento per trasmetterle il diario lasciato da Suzanne-Franziska, chiederà preghiere per “quella sventurata che, il sottoscritto ne è convinto, si trova adesso non tanto lontana dal soglio di Dio.â€. Il primo racconto finisce qui. La complessità psicologica della protagonista emerge via via con forza e con tratteggi perfino virulenti, e ne fa una lettura di intenso valore e significato. A “Suzanne†fanno seguito altri otto racconti brevi, in cui si confermano la bontà della scrittura e della capacità di rievocazione. Il primo, “Accadde a un camionistaâ€, ci ricorda Edgar Allan Poe: a un camionista appare, tra la nebbia, una ragazza, scoprirete chi fosse in realtà . “Emilio Bezziâ€, invece, un pittore, “morì pazzo in un’osteriaâ€; aveva un solo compratore che gli aveva consentito di accumulare molto denaro, però ad un caro prezzo. “Filobus 64 di Moscaâ€, uno strano racconto, era già presente in un’altra raccolta, “Janko e racconti russiâ€, del 2016, in cui apparve anche “Il danzatore di prisjadkaâ€, la storia di uno sfortunato ballerino, Kazimir Balaban: è un racconto brevissimo dalla scrittura veloce, ma tra i più belli, se non il più bello tra gli otto. “Guida di Moscaâ€, come lascia intendere il titolo, si condensa in una visita turistica ai maggiori monumenti e luoghi di Mosca, a partire dalla Piazza Rossa e dalla Cattedrale di San Basilio, fino al Mausoleo di Lenin, alla Collina dei Passeri (il più alto dei sette colli di Mosca), al Teatro Bol’soj, al Monastero di Novodevicij, e altro ancora. Ai turisti, tutti bavaresi, capita più di una disavventura, che un po’ si sono andati a cercare. Simpatico “L’uomo che non vedeva i mandariniâ€, ambientato a Astana, la capitale del Kazakistan. “L’uomo senza ombra†ci narra il dramma di un uomo a cui manca l’ombra e che viene evitato da tutti. Si sente solo e darà una conclusione drammatica alla sua vita. Trae ispirazione dal romanzo del tedesco Adalbert von Chamisso pubblicato nel 1814, “Storia straordinaria di Peter Schlemihl”. “Santino†ci racconta della sventura di un gatto nero che porta quel nome e della sua vendetta. Di nuovo pensiamo a Poe. Tutti i racconti che hanno come scenario la Russia sono suggestivi, e vi traspare l’amore di Mestrovich per questa terra ricca di storia, di bellezza e di arte. Caratteristica di questi racconti è la descrizione dei vari menù che si susseguono, tutti resi con il senso del gusto e del piacere. La sovracopertina è disegnata dal bravo pittore viareggino Lisandro Ramacciotti. La commedia nella leggenda e altre storieStelvio Mestrovich e Lucida Mansi Mestrovich ha scritto molto, spaziando in vari campi della narrativa e della saggistica. Per quest’ultima valgono i tanti lavori dedicati ai grandi musicisti, tra cui Mozart e Salieri e alla scoperta di altri che furono famosi un tempo ed oggi dimenticati, come Andrea Luchesi (Motta di Livenza, 23 maggio 1741 – Bonn, 21 marzo 1801). Per la narrativa ha scritto diversi gialli, tra questi “Venezia rosso sangueâ€, che hanno avuto come protagonista un discendente del famoso violinista Giuseppe Tartini (Pirano, 8 aprile 1692 – Padova, 26 febbraio 1770: “Il trillo del diavoloâ€), ossia l’ispettore Giangiorgio Tartini. Oggi desidero segnalare di nuovo questo autore, non solo per ricordare il suo racconto lungo, “Suzanneâ€, di cui ho già scritto e che è forse il migliore tra i suoi lavori, ma perché ne ha scritto un altro di altrettanta bellezza e originalità : “La commedia della leggenda†dedicata ad uno dei personaggi più conosciuti della città di Lucca: Lucida Mansi (Lucca, 1606 circa – Lucca, 12 febbraio 1649). Sposata in seconde nozze con Gaspare Mansi, molto più anziano di lei, ambasciatore della Repubblica di Lucca e frequentemente assente dalla città , Lucida è passata alla storia come una donna lussuriosa e insaziabile, i cui numerosi amanti venivano da lei uccisi, facendoli precipitare da una botola segreta. Per restare sempre giovane e bella, fece un patto col diavolo della durata di 30 anni, dopo i quali il diavolo l’avrebbe trascinata all’inferno. La leggenda vuole che il giorno della resa dei conti, la carrozza che la conduceva all’inferno passasse sopra le belle mura della città circondata di fiamme e precipitasse laddove oggi sorge, nell’Orto botanico, il laghetto della leggenda. Tobino le dedicò il bel romanzo “La bella degli specchiâ€. Nella realtà , le cose, però, non andarono così. Lucida morì, infatti, a 43 anni di peste, e la sua figura fu di una bellezza normale, limpida e quieta, nient’affatto sensuale come la leggenda la descrive. Il racconto di Mestrovich si immerge pienamente nella leggenda che la vuole sfrenata amante e dispettosa e sfrontata sposa nei confronti del marito, che, venuto a sapere dei suoi tradimenti, riceve da lei il rimprovero per la sua avanzata età e le sue continue assenze: “â€Che cosa pretendi da me? Che i miei vent’anni ti aspettino ogni volta sempre più verginali?â€. L’autore costruisce il racconto annullando le successioni temporali e ponendo sullo stesso piano passato, presente e futuro, come se la protagonista si ripiegasse con la testa all’indietro e all’improvviso, con una elasticità sorprendente, si raddrizzasse per arrivare con slancio ai giorni nostri e alla sua futura leggenda, per poi, infine, tornare a piegarsi all’indietro e ripetere, di scatto, e più volte, lo stesso movimento. Non esistendo più passato, presente e futuro, accade così che gli stessi personaggi non muoiono mai, aggiornandosi in un sequel di reincarnazioni. La Lucida di Mestrovich non ha mai cessato di vivere e anche oggi sta dietro le nostre spalle a osservarci e cattura ciò che le interessa e conviene, soprattutto quando si tratta di imprese d’amore. Le sue conquiste (non vittime, però) sono sempre ben scelte e sapienti, a volte anche più di lei, nei giochi erotici, dai quali entrambi escono sempre compiutamente felici. Il pittore Piero Beccafumi è il discendente di David Beccafumi che ritrasse Lucida e di cui fu focoso amante. Gli somiglia; sta restaurando un dipinto nella chiesa di san Francesco e quando la donna lo avvicina, avverte subito che si tratta della protagonista della leggenda. Fanno all’amore e Lucida rivive la lontana passione per l’antenato. Lucida assiste anche ad una commedia recitata da cinque attori girovaghi davanti all’antica e fatiscente villa di Catureglio: “Il tetto mezzo sventrato, le impalcature, i secchi intrisi di calcina, mattoni e pezzi di intonaco dappertutto. Soltanto la lapide sopra il portone è stata risparmiata.â€. Anche in questa rappresentazione si rivela tutta l’abilità dello scrittore che, con un registro multiforme che va dalla commedia dell’arte alla commedia dell’assurdo, crea e vivifica perfino situazioni di coinvolgente comicità . È uno dei momenti che giudico eccezionale di questo bel racconto: “Leone X: ‘Ebbene, mangia-api, sciogli la lira sfilacciata della miseria umana e innalzala senza tossire dove tu solo puoi. E voi, cortigiani, accendete i fuochi, abbassate le tende, impugnate le forchette giudicatrici, immergetele nel divino intingolo e, con l’obbligo del silenzio, date libero sfogo alle mascelle parassite.’â€. Pare di essere seduti alla tavola di Trimalcione, il celebre personaggio del “Satyricon†di Petronio Arbitro. E ancora: “Cortigiano: ‘Giovanni Gazoldo e Girolamo Britonio, così si chiamano quei due che stanno là fuori, hanno la vescica cerebrale gonfia di liquame latino.’â€. Si va di nuovo a ritroso. Lucida ha fatto lo scatto e ora ha il capo rivolto verso l’inizio della sua storia: “Lucca, 8 ottobre La struttura narrativa ci presenta un altro colpo di genio. Lo si trova nell’ultima nota del diario, con la quale il racconto si conclude: “Il mio carteggio finisce qui. Il racconto termina con il suo inizio. Tutto il fiume di parole che è seguito nasce da qui, da questa ultima pagina. Il percorso è risalito alla sorgente. E la sorgente non è altro che il prodotto della morte, dalla quale risorge e scorre per diffondersi e manifestarsi fuori dal tempo, ossia nell’eternità . Seguono 12 racconti tutti ben scritti: 5 ambientati in una Venezia intima e misteriosa, tanto cara all’autore; 5 in una Russia da cui risalta il forte attaccamento a questa terra ancora magica e suggestiva, e 1 a Vienna e l’ultimo in Italia, il quale si conclude con queste parole: “L’onnipotente si era manifestato a Giulio lì, in quella chiesetta umile e silenziosa, abbandonata e depredata, nelle pareti umili e lisce. Pyramiden. Il diario del sovversivo Nikolaj Vladimirovic MelnikovMusicologo e narratore, la produzione di Stelvio Mestrovich è vastissima. Sempre accurato nelle sue ricerche, lo è anche nella scrittura: limpida. Letto 4410 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Maria — 8 Dicembre 2007 @ 19:22
Ho letto entrambi i libri tutto d’un fiato e debbo riconoscere che la figura dell’ispettore capo di Polizia Giangiorgio Tartini è affascinante e azzeccatissima.
“Delitto in Casa Goldoni” è un giallo ‘classico’, di quelli di cui si era persa la memoria.
Consiglio vivamente a tutti gli amanti del genere poliziesco entrambi i libri di Stelvio Mestrovich
Commento by Daniele — 8 Dicembre 2007 @ 19:28
Ottimi entrambi i romanzi gialli.
Il secondo, poi, “Delitto in Casa Goldoni” è un vero classico della narrativa noir.
Mestrovich ci porta da Venezia a Castelbuono di Palermo in un viaggio in treno assai avventuroso. Poi la Polizia di Stato, nella figura di Tartini, si abbina ai Carabinieri, nella figura del maresciallo Celso della stazione di Castelbuono. E nasce una amicizia molto fruttuosa anche nel campo delle indagini.
Libri da acquistare e da leggere!
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 8 Dicembre 2007 @ 21:08
Grazie Maria e Daniele per avere letto i due miei articoli.
Voglio segnalarvi che il sito ospita anche la Rivista d’Arte Parliamone: http://www.rivistaparliamone.it dove trovate il pezzo su Delitto in casa Goldoni, commentando lì, il vostro giudizio sui due romanzi potrà essere notato anche da Mestrovich.
Grazie di nuovo.
Bart