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MUSICA: I MAESTRI: Hello, Satchmo!

22 Giugno 2011

di Girolamo Modesti
[da “La Nazione”, venerdì 10 luglio 1970]

C’era naturalmente una jazz band allo Shrine auditorium di Los Angeles l’altro giorno (era il quattro luglio, festa del ­l’indipendenza americana e com ­pleanno, il settantesimo, di Louis Armstrong) che suona ­va a tutta birra una « dixieland serenade ». C’era â— si capisce â— una torta quasi nuziale a cinque piani con due bandiere in cima, e un cartello che dice ­va a caratteri di mezzo metro, « hello, bocca da sporta! » Satchelmouth, o, per risparmiar tempo, Satchmo o anche Satch.

C’era anche Satch, arrivato dall’aeroporto e da una lunga malattia di reni che continuerà a tenerlo lontano dalla tromba per altri due o tre mesi. Ma tutto quello che ci vuole è solo un po’ di riposo. Satchmo non molla per un paio di reni che ogni tanto si guastano come la bobina di un’automobile; basta farla freddare e la scintilla tor ­na a scoccare. Dopo cinquan ­tanove anni sulla breccia non si può mollare così per certe sciocchezze.

A che età aveva intenzione di abbandonare la tromba? chiese un cronista del Los An ­geles Times.

« Segnati, per ora, cento anni; e quando ci sarò arrivato torna a domandarmelo e ne riparleremo ». Dalla lontanissima steppa sovietica la Sovetskaia kultura salutava quel gior ­no « bocca da sporta » come « il re del jazz dalla tromba d’oro ». Un comitato di ono ­ranze annunciava il progetto di un monumento a Lou, un monumento di bronzo, nella nativa New Orleans, e i giornali citavano Teddy Wilson « Louis è il più grande jazzi ­sta di tutti i tempi, il musici ­sta senza punti deboli ».

Era stata lunga la strada che dalla New Orleans del 1900 esatto, da quel vicolo di Brick Row dove era nato, lo aveva portato, attraverso Chicago e New York, alle luci della ri ­balta del mondo intero; anche oltre cortina, anche a Berlino Est, dove â— raccontarono sba ­lorditi i cronisti di Pankow â— « bocca di sporta » aveva rice ­vuto la più trionfale, gloriosa clamorosa accoglienza che mai la capitale tedesca avesse riser ­vato ai grandi di ogni tempo.

L’ambasciatore  

Questo autentico genio ame ­ricano, unico nella storia del ­l’unica musica che sia stata interamente creata da questo paese, il jazz, era divenuto il più efficace, universale ambasciatore che gli Stati Uniti ab ­biano avuto nei duecento anni non ancora compiuti della loro storia. La sua immagine, la grande bocca con le labbra ferite dallo strumento, i roton ­di occhi che roteano intelligen ­ti e burleschi nelle orbite, la sua voce che parte con un tim ­bro da tenore e raggiunge quel ­lo di una lima da ferro, l’acu ­tezza delle sue osservazioni im ­provvisate intercalate nei pezzi, sulla vita e la musica, appar ­tengono ormai al mondo. Il suo ultimo successo, che si chiama Hello Dolly, ha stampato in due mesi un milione e mezzo di dischi e continua ad essere un « best seller ». Il suo conto in banca ha più zeri dei tasti della sua tromba.

Satchmo, il genio che ha fat ­to la quinta elementare e igno ­ra a settant’anni le regole fon ­damentali della grammatica, è oggi uno dei grandi della terra. « Non ho mai voluto diventa ­re un grande » racconta ogni tanto, su un altro autobus che lo porta ancora una volta verso un altro aeroporto. « La gente dice: guarda quel tipo, vuol essere un pezzo grosso e alla gente non piacciono i pezzi grossi. La gente dice che sono un ” ambasciatore di buona vo ­lontà “, e chissà mai cosa in ­tende dire. Ma in ogni posto dove uno va, anche dietro la cortina di ferro, tutti gli alber ­ghi sono uguali â— un letto, un bagno, due cuscini â—, e tutto questo viaggiare intorno al mondo, alto sulla sella, in tono grandioso, va bene; ma io non l’ho mai voluto. Non ho mai voluto viaggiare per nove ­mila ore su aerei e autobus, ar ­rivare tutte le sere così stanco da non aver la forza di alzare un ciglio ».

« Non fraintendetemi: non sono un pigro, sono grato di tutto, ma ero più contento, più felice, da ragazzo a New Or ­leans. Niente di straordinario: giusto gironzolare intorno, fare quattro chiacchiere con i vecchi amici. Eravamo poveri, come tutti altri, ma c’era sempre, intorno a noi, musica, da tutte le parti, a tutte le ore, e la musica ci faceva muovere, ruzzolare ».

Vecchi tempi della vecchia New Orleans, di Brick Row, Perdido Street, con la Funky Butt Hall, e cento honky-tonks tutto intorno. C’era un honky-tonk ad ogni angolo di strada â— Spano, Kid Brown, Matranga, Henry Ponce â— e la sera si ballava la quadriglia, bellis ­sima, tutti in file che si muo ­vevano come reggimenti agli or ­dini del direttore del ballo; e gli uomini, quando volevano mostrar rispetto per le loro dame, (il che accadeva di ra ­do), si toglievano il cappello e lo appoggiavano sul braccio sinistro, tenuto alto, piegato

a elle, la mano appoggiata de ­licatamente sulla spalla della compagna di danza. Erano cappelli di John B. Stetson come quasi non si vedono più oggi; ed erano cappelli, vi dico: ci volevano sei mesi di risparmi per comprarne uno.

Birra per il morto

Una volta all’anno i club so ­ciali â— i « Broadway Swells », « I Tori », « Le Tartarughe » â— tenevano la grande parata per le strade della vecchia città, e quella sì che era una parata. I « moneywasters », gli « spen ­daccioni », arrivavano con ca ­micie di seta, cappelli a cilin ­dro bianchi, calzoni neri e ca ­voli vuotati delle foglie e riem ­piti di grossi sigari e biglietti verdi, dollari di carta: una cosa che si vedeva di rado a quei tempi, e quelli erano dollari sul serio, non i dollari d’oggi.

E i funerali. Per tutta la not ­te, prima del funerale, si riu ­nivano tutti intorno al morto, e cantavano fino all’arrivo del carro. Uno arrivava, attaccava un « inno », e poi, mentre gli altri continuavano, se ne anda ­va in cucina, e c’era formaggio, biscotti, whisky e birra, e nel ­l’altra stanza quelli continuava ­no a cantare. Oooooh, boy! Il fratello cominciava anche lui ad agitarsi nella bara aperta. Qualche volta, il morto si al ­zava veramente, a sedere, nella bara, e rinviviva, e tutti allora a scappare come matti, mentre il morto allungava una mano e si beveva una birra fresca, con tutto il bicchiere sudato di fuo ­ri, freddo, ed era bello veder quelle gocciole di freddo sul vetro del bicchiere.

« Yea, c’era sempre musica intorno a voi » nella vecchia New Orleans. Di giorno a tutte le ore le Jazz Bands arrivavano sedute sui carri; si erano date appuntamento per un duello. I carri si affiancavano e ogni ban ­da suonava un suo pezzo cer ­cando di ridurre al silenzio tut ­te le altre, erano qualche volta sette e anche otto tutte insie ­me; e la gente, questi bastardi, legavano le ruote dei carri fra loro con catene, così nessuno poteva andarsene.

Fra le quattro e le cinque della mattina arrivavano in Bourbon e Canal Street le baga ­sce di Storyville. Erano bianche, creole, mulatte, negre, roba fi ­ne, per bianchi, e venivano all’honky-tonk per un momento di relax dopo il lavoro.

La fine dell’Orsa

Satch aveva allora 12 anni, i calzoni lunghi. Insieme a Little Mack, Nasone Sidney e Giorgetto Grey aveva messo su un quartetto. Ma era talmente piccolo che, negli intervalli, le bagasce se lo mettevano sulle ginocchia fra i bicchieri di birra gocciolanti sui tavoli e i seni prosperosi e profumati di cipria fatta col gesso rosa, sul quale erano state fatte cadere poche goccie (15 cents) di profumo.

Henry Matranga era il pro ­prietario dell’honky-tonk, e la ­sciava correre; i ragazzi di do ­ ­dici anni non avrebbero dovuto sedere sulle ginocchia delle don ­ne; ma Satch e i ragazzi pren ­devano quindici centesimi di dollaro per sera, meritavano qualche considerazione. Le ba ­gasce erano buone o cattive. Le buone arrivavano con le calze e i reggiseni pieni di dollari; le cattive, come Mary Jack « l’orsa », nelle calze e nel reg ­gipetto portavano soldi e col ­telli. Si battevano con quei coltelli come gamblers. E una notte Mary Jack affrontò, pro ­prio davanti a Gravier and Franklin, Alberta, che le aveva portato via il suo uomo. Alberta era una ragazza perbene, appena uscita da scuola, ed era venuta in Bourbon Street, ed era un vero peccato che una ragazza così perbene fosse finita fra le bagasce. Il duello fu lungo, e Mary Jack, « l’or ­sa », fu tagliata a pezzi da Alberta, e morì.

«Il mio ragazzo »

« Le donne â— dice oggi Satchmo â— avevano a quei tempi un aspetto assai più invitante di quello delle polla ­stre di oggi in questi dannati attillatissimi calzoni ».

E c’era mama, Mary Hann che tutti a casa chiamavano Mayann, una donna « bruna con un’amabile espressione  e un’anima bella ». « Quello che non puoi avere â— diceva â— mandalo al diavolo ». Grande filosofia; uccideva l’invidia. Satch ci vive ancora, felice « Yea, mi manca la vecchia Mayann, e il giorno del suo funerale a Chicago, fu l’unico giorno in cui piansi ». Quando a diciotto anni Satchmo sposò Daisy e se ne andò da casa, tutti chiesero a mama cosa ne pensava del fatto che Satch aveva sposato una prostituta di ventuno. « Non posso vivere la sua vita â— rispose Mayann â— è il mio ragazzo e se questo è quello che vuole, così sia »

Ma il giorno della verità ar ­rivò. Daisy era gelosissima, por ­tava con sé giorno e notte un affilato rasoio di quelli col ma ­nico, e un giorno che vide Satch a passeggio con un’altra ragazza, lo assalì con quella lama baluginante. Il marito saltò, con un solo balzo, al di là del fosso lungo la strada, e il cappello gli volò per terra. Daisy con quel rasoio lo affet ­tò in sottilissime strisce, piena di rabbia, come una mortadella. Era un John B. Stetson, e ci erano voluti i soliti sei mesi di duri risparmi per comprarlo.

« Gente, vedere la fine dello Stetson mi colpì direttamente al cuore. Meglio perdere Daisy che quel cappello ». Così finì il matrimonio.

La tromba d’oro

Il tempo passava, i quindici cents diventarono un dollaro e venticinque a sera, e con altri settantacinque cents gua ­dagnati scaricando carbone e banane (era bello scaricare ba ­nane e carbone cantando) « il sapore nella pentola di mama aumentava », perché erano buo ­ni sani dollari degli anni venti. Poi vennero Chicago e New York, e ancora Chicago e an ­cora New York, le grandi lab ­bra di Satchmo sanguinavano sotto la tromba, la camicia bian ­ca diventava rossa di sangue, ma, come disse Joe Petiti, « questo corno non riuscirà mai ad uccidermi, sarò io a uccide ­re lui ».

E la tromba d’oro si arren ­deva tutte le sere davanti a Satch e a platee che diventa ­vano sempre più grandi, più clamorose, che applaudivano in lingue sempre diverse l’uomo che non apparteneva più a un paese, che riusciva ad abbattere i confini più insormontabili con la sua musica d’angelo di un paradiso perduto, e la sua voce da lima a ferro, e le smorfie che solo il suo viso e la sua bocca a sporta riuscivano a fare.

Poco a poco, dal vivere per la musica Satch passò a vivere per il pubblico, « loro si aspet ­tano da me non solo la musica, ma la partecipazione alla loro felicità, sanno che sono qui, con loro, in nome della causa della felicità; e se dopo aver suonato un milione di volte He-l-l-o Dolly il pubblico è fe ­lice, e grida yeeeeaaah! e la vuole ancora, non è stanco, neanche io sono stanco ».

« Non penso che la musica la si debba analizzare. Come i vecchi mi dissero un giorno: ” Non preoccuparti se dalla vac ­ca nera esce latte bianco: preoc ­cupati solo di bere il latte ” ». Come ai vecchi tempi di New Orleans, quando ad ogni ango ­lo di strada c’era un honky-tonk, i tempi di Spano, Kid Brown, Matranga, Henry Pon ­ce, Dirty Dog, Brother Ford, Johnny braccio di ferro, Mary Jack « l’orsa », Alberta la ba ­gascia perbene che la fece fuo ­ri, e Mayann, mama; e il mon ­do era musica, sempre musica nella vecchia New Orleans.


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Bart