PD. Ma i vertici temono il crollo finale e chiedono al segretario di restare22 Aprile 2013 di Maria Teresa Meli ROMA – C’è un fotogramma da conservare nel film del Pd in ansia da Quirinale. È venerdì sera, Pier Luigi Bersani ha parlato all’assemblea dei gruppi parlamentari del suo partito, al Capranica, e poi se n’è andato, senza aspettare repliche, domande, interventi. È una scena, e non farà l’insieme, ma la dice lunga su quello che sta accadendo nel Partito democratico. Bersani è già sepolto nei pensieri di tutti e viene riesumato solo quando la paura di fare la sua stessa fine attanaglia il gruppo dirigente. Franceschini, Fioroni ed Epifani, tanto per fare tre nomi, chiedono a Bersani di rimangiarsi le dimissioni, o, quanto meno, di congelarle fino al Congresso che verrà . Renzi guarda da Firenze quel che accade a Roma e fa mostra di disinteressarsene, ma non è così. Il sindaco è disposto ad aspettare ancora. Non oltre una certa data però. Renzi immagina un «governo che duri un anno al massimo, non di più e che poi riporti il Paese alle elezioni ». Ma anche gli altri leader del Pd non riescono a immaginare un futuro che scavalchi governo, partiti, e timori. La dirigenza del partito su questo è stata chiara, pure con Napolitano: «Noi siamo pronti anche a fare un governo del presidente, ma non può essere uno del Pd a presiederlo ». No, niente Enrico Letta, piuttosto meglio il presidente dell’Istat Giovannini: più il governo è politicamente scolorito più è facile portare l’intero gruppo parlamentare a votare la fiducia. I vertici del Partito democratico sono preoccupatissimi dell’incidenza che avranno il nuovo presidente e il nuovo governo: «Andiamo avanti, ma con grande cautela perché non possiamo dare vita a un governo a cui Berlusconi può staccare la spina quando vuole », è stato l’ammonimento di Letta. E nessuno ha avuto da ridire, nemmeno quel Matteo Renzi che si immagina un Pd diverso: «Andiamo pure avanti, tanto il governo dura un anno al massimo ». Quel che basta per preparare il centrosinistra alla sfida elettorale che verrà , quella con il Pdl. Nel frattempo Renzi aspetta di capire se gli conviene tentare la sfida congressuale o se, piuttosto, deve tenersi lontano dalle beghe del partito e pensare solo alla candidatura a premier del centrosinistra. In questo caso potrebbe essere l’attuale presidente dell’Anci Graziano Delrio a guidare il partito. Ma ciò non vuol dire che il sindaco si defilerà : «Matteo, sei l’ultima carta che abbiamo », gli ha detto Dario Franceschini. E la pensano nello stesso modo anche Veltroni, D’Alema e i Giovani turchi che puntano su di lui per il ricambio generazionale del gruppo dirigente. Il partito comunque regge. A fatica ma regge. Ci sarà una fuga di qualcuno verso Sel benedetta da Fabrizio Barca, ma non è all’orizzonte una scissione vera e propria. Tutti hanno capito che alla fine dovranno trattare, litigare o accordarsi con Renzi. È quello il futuro del Pd. E c’è chi pensa già di facilitare la strada al sindaco rottamatore, mettendo nel governo Rodotà . Offrirgli un ministero importante, come quello delle Riforme, potrebbe essere il modo per tenere buoni i filogrillini del Pd e costringere il Movimento 5 stelle a misurarsi con la politica reale. Ma queste sono solo elucubrazioni e idee buttate lì: il futuro immediato del Partito democratico prevede una direzione per domani e un’assemblea nazionale tra una decina di giorni, dopodiché si veleggerà in mare aperto. Ma il partito senza leader boccia ogni larga intesa SARÀ difficile succedere a Giorgio Napolitano. L’avevo pre-detto una settimana fa. Anche se, francamente, non pre-vedevo che Napolitano sarebbe succeduto a se stesso. Tuttavia, si tratta di una soluzione coerente con il singolare modello della nostra democrazia. Un Presidenzialismo preterintenzionale. Che si è affermato senza riforme. Per inerzia e necessità . Napolitano. Non avrebbe mai voluto essere rieletto  –  primo caso nella nostra storia repubblicana. Ma ha dovuto arrendersi a questo stato – o meglio, Stato – di emergenza. Perché è l’unica soluzione possibile di fronte all’impossibilità di trovare altre soluzioni. In un Parlamento che riflette e moltiplica la rappresentazione di un Paese dove si confrontano tre “grandi minoranze” politiche  –  e non comunicanti. Ritratto esemplare del tumultuoso declino della Seconda Repubblica. Dove, non a caso, Berlusconi ri-emerge, nonostante tutto e tutti. Perché la conosce e la controlla meglio degli altri. La Seconda Repubblica: ispirata al maggioritario e alla personalizzazione dei partiti  –  anzi, dai partiti personali. Oggi è senza ancore e senza timoni. Come una nave che non tiene la rotta, perché l’equipaggio è diviso in squadre che remano in direzioni diverse. Il PDL, nonostante abbia dimezzato la sua base elettorale, perdendo oltre 6 milioni di voti, rispetto alle elezioni del 2008, è riemerso dalla crisi. Perché il leader, Berlusconi, ha svolto con abilità un ruolo di “interdizione”. Ha, cioè, impedito agli altri di intraprendere percorsi sgraditi. Gli è bastato imporre se stesso come riferimento negoziale, al tempo stesso necessario e insostenibile per gli altri. Perché, per quanto indebolito, costituisce la principale linea di frattura che attraversa la Seconda Repubblica. Grillo e il M5S: hanno selezionato candidati molto vicini al Centrosinistra. In particolare Stefano Rodotà e lo stesso Romano Prodi. E in questo modo hanno creato serio imbarazzo al PD. Come avrebbe potuto convergere sui candidati “imposti” dal M5S, dopo la lunga e inutile ricerca di dialogo, tentata da Bersani, nelle settimane successive al voto? D’altronde, al M5S non interessa partecipare a una stabile maggioranza di governo. Semmai, impedirla. Accelerare la decomposizione della democrazia parlamentare e rappresentativa che, sempre più fragile e incerta, regola l’Italia. Il PD, infine, si è sgranato. Per paradosso, la crisi del berlusconismo ha travolto l’opposizione alternativa prima ancora del protagonista. Un po’ come la DC e i partiti di governo, dopo la caduta del muro. Scomparsi in fretta, mentre il PCI si ri-definiva, e, per una parte, si ri-fondava. La crisi del PD, peraltro, appare particolarmente insidiosa, perché investe i principali modelli e soggetti genetici del partito. Insieme alla candidatura di Marini è stata bocciata l’idea del compromesso fra i gruppi dirigenti e le identità dei partiti di massa della Prima Repubblica: PCI e DC. L’Ulivo dei Partiti, postcomunisti e post-democristiani, perseguito, in particolare, da Massimo D’Alema, dopo il 1994, insieme a Marini. A cui si opponeva l’idea e il progetto del Partito dell’Ulivo. Concepito e sostenuto da Romano Prodi, insieme ad Arturo Parisi. Soggetto politico largo e inclusivo. Ma nuovo. Che echeggiasse il modello americano, maggioritario e presidenzialista. “Organizzato” intorno alle Primarie. Un’alternativa mai risolta. Riprodotta, nel 2007, dal PD, sulla spinta di Walter Veltroni. In una settimana entrambi i modelli si sono dissolti. Sconfitti, insieme ai loro leader di riferimento. Mentre si è drammatizzato il contrasto tra vecchio e nuovo. Le Primarie, invece di riassorbire queste tensioni, le hanno alimentate. Accentuando il distacco tra base e vertice, fra gruppi dirigenti, militanti ed elettori. Tutte queste differenze sono divenute fratture nel percorso che ha condotto alla scelta e alla successiva bocciatura dei candidati. Anche per l’irruzione, nella comunicazione politica, della “rete” e dei social network. Che hanno moltiplicato ed enfatizzato il dissenso reale della “base”. Perché la democrazia “immediata” della Rete, per funzionare, va compresa e regolata. Non subìta. La base del PD, peraltro, oggi appare lacerata di fronte alle ipotesi che ispirano non solo la scelta del Presidente, ma anche la conseguente, futura maggioranza di governo. In particolare: le “larghe intese”, tra PD, PdL e Monti. Fra gli elettori del PD, infatti, solo il 7% si sente (molto o abbastanza) vicino al PdL (Sondaggio LaPolis-Università di Urbino). Meno di uno su dieci. Mentre il peso di coloro che si sentono vicini a Scelta Civica sale al 22%. Ma, soprattutto, nel PD appare molto elevata la prossimità al M5S (29%) e a SEL (33%). In altri termini, gli elettori del PD guardano a Sinistra e, in misura minore, al Centro. Mostrano grande attenzione per il M5S. Mentre appaiono lontani  –  per non dire opposti – (più del 90%) rispetto alla Destra. Anzi: a Berlusconi. Un sentimento ricambiato, simmetricamente, dagli elettori del PdL. Lontanissimi dal PD e dalla Sinistra. Cioè: dai “comunisti”. Per questo diventa difficile imporre “larghe intese”. Soprattutto nel PD. Perché è “radicalmente” diviso. E perché nella “democrazia del pubblico” occorrono leader forti, capaci di comunicare. Con partiti al loro servizio  –  se non alle loro dipendenze. Ma il PD è l’unico partito “impersonale”. Privo di una leadership carismatica. Il leader più popolare, Renzi, è stato sin qui osteggiato dal gruppo dirigente. E se riuscisse effettivamente a imporsi, non è detto che manterrebbe lo stesso livello di consensi. Perché il ruolo di outsider gli ha permesso di attrarre componenti esterne al partito. Soprattutto nell’area moderata. Mentre all’interno si sono aperte nuove sfide, come quella lanciata da Fabrizio Barca. Che guarda a sinistra. Come molti elettori del PD. Attuali, delusi e potenziali. Così, la rielezione di Napolitano alla Presidenza della Repubblica ha offerto al PD un rimedio alla debolezza della propria leadership. Perché il Presidente, presso gli elettori del PD, è il leader maggiormente riconosciuto (con un indice di popolarità oltre l’85%). Tuttavia, Napolitano è il Presidente della Repubblica, non del PD. Non potrà rimediare al deficit di leadership e di identità del partito. D’altronde, intese, per quanto larghe, intorno a governi “presidenziali”, difficilmente potranno compensare il deficit di politica che asfissia il Paese. Neppure in un presidenzialismo preterintenzionale come il nostro. La sfida di Renzi: “Rifondare il Pd. Un anno di governo e poi al voto” “Cambiare il Partito Democratico per cambiare l’Italia”. Il giorno dopo l’elezione di Giorgio Napolitano e le dimissioni in blocco del gruppo dirigente del Pd, Matteo Renzi lancia la sua sfida. E’ pronto a candidare il suo progetto a favore di un “nuovo riformismo”. Vuole un partito rinnovato, capace di interpretare il Paese e che non si paralizzi nella difesa delle “sue correnti”. Il sindaco di Firenze sprona i democratici ad accettare la sfida di un “infingardo” come Beppe Grillo dettando l’agenda del governo che sta per nascere. “Mettiamoci la faccia anche con un nostro premier” ma indicando le priorità a cominciare dall’emergenza lavoro e senza aver paura del popolo del web. Un esecutivo che duri non più di un anno per poi tornare al voto con una nuova legge elettorale e dopo aver approvato un pacchetto di provvedimenti che diano una boccata d’ossigeno ai cittadini. E magari dopo aver introdotto l’elezione diretta del capo dello Stato. “A questo punto il Pd è in un angolo. O ne esce oppure salta in aria”. E come ne può uscire? Intende dire per la formazione del governo? Vuole misure più liberiste? Ma il nodo non è come creare posti lavoro ma come si licenzia. È l’articolo 18. I cittadini veramente chiedono anche di condividere i sacrifici. E tutto questo lo si può fare con un governo insieme a Berlusconi? Quanto tempo può durare questo esecutivo? Chi dovrebbe presiederlo? Ma il suo partito ora è decapitato. Come può riuscire a imporre uno sforzo di questo tipo? Perché non fa lei il premier? In che senso? Insomma lei si candida a guidare il suo partito. Il ministro ha ipotizzato di sdoppiare la guida del partito dalla premiership. Quali? Un partito di sinistra? Tenersi in contatto per provare a governare insieme? Nel frattempo il centrosinistra ha silurato prima Marini e poi Prodi. In che senso? Vuol dire l’elezione diretta? Farà arrabbiare molti dei suoi colleghi di partito. Nei prossimi dodici mesi forse va cambiata prima la legge elettorale. Il futuro di Vendola e Barca E’ durata poco la piccola grande alleanza messa in piedi da Bersani e Vendola. Il tempo di non vincere le elezioni e di spaccarsi verticalmente sull’elezione del presidente della Repubblica. E soprattutto sul governo che verrà . Sarà difficile a questo punto ricomporre quel «bene comune » che tanto aveva fatto sperare gli elettori del centrosinistra. Il bene non si sa più dove sia, e se per caso ci fosse ancora non sarebbe più comune. Il Pd, si è detto e scritto in questi giorni, non è più un partito, forse sono due, forse di più, certamente non ha un gruppo dirigente degno di questo nome. E adesso non ha neanche più un leader. Si andrà a un congresso ma forse neanche il congresso riuscirà a rimettere insieme i cocci. E’ evidente che al suo interno convivono ancora due grandi filoni politico-culturali. Uno è quello dei cosiddetti moderati, cattolici o meno cattolici, che guarda a Matteo Renzi come il suo futuro leader. L’altro, che proviene dalla storia del Pci ma non solo del Pci, potrebbe riconoscersi nel pensiero di Barca. Vendola, che dirige un’ altra formazione politica, ripete da anni che i partiti sono «semi » che servono a far nascere nuove piante, magari alberi. E l’albero a cui pensa il governatore della Puglia è un «nuovo soggetto politico della sinistra italiana ». Praticamente la stessa idea di Barca. Un’idea che avrà la sua prima prova concreta nell’assemblea dell’undici maggio convocata dallo stesso Vendola a Roma. Dunque sarà a questi due personaggi che si rivolgeranno i tanti (o pochi, si vedrà ), dentro e fuori il Pd, che considerano finita con Bersani quell’esperienza nata con Veltroni. Era una scommessa suggestiva e ambiziosa, un progetto che voleva tenere insieme culture diverse, storie diversissime ma che avevano in comune la stessa idea della democrazia e della società , ovviamente contrapposta a quella di Berlusconi. Ma il progetto è naufragato contro lo scoglio di una realtà fatta di divisioni, egoismi, correnti e correntine, attenzione spasmodica al proprio «particulare » e anche strategie politiche alla fine inconciliabili. Oltre quattro anni fa Massimo D’Alema parlò del suo partito come di un amalgama mal riuscito. Era stato ottimista: più che mal riuscito non c’era proprio l’amalgama. La sfida quasi impossibile per il futuro è dunque riuscire a amalgamare ciò che finora non si è lasciato impastare, magari affidandosi alla magica ricetta di un giovane cuoco come Matteo Renzi. Oppure prendere atto che quella storia è finita, come si fa quando una coppia non riesce più a stare insieme e magari continua a convivere per paura che i figli soffrano. Ma i figli del Pd stanno soffrendo da anni, adesso poi hanno superato la soglia della sopportazione. E forse, chissà , se Renzi da una parte e Barca e Vendola dall’altra dessero vita ai due partiti che sognano, i figli sarebbero più contenti. Quantomeno non dovrebbero assistere ai furibondi litigi dei genitori che mandano la loro casa in frantumi. Sono e resto un uomo di sinistra CARO direttore, non è mia abitudine replicare a chi critica le mie scelte o quel che scrivo. Ma l’articolo di ieri di Eugenio Scalfari esige alcune precisazioni, per ristabilire la verità dei fatti. E, soprattutto, per cogliere il senso di quel che è accaduto negli ultimi giorni. Si irride alla mia sottolineatura del fatto che nessuno del Pd mi abbia cercato in occasione della candidatura alla presidenza della Repubblica (non ho parlato di amici che, insieme a tanti altri, mi stanno sommergendo con migliaia di messaggi). E allora: perché avrebbe dovuto chiamarmi Bersani? Per la stessa ragione per cui, con grande sensibilità , mi ha chiamato dal Mali Romano Prodi, al quale voglio qui confermare tutta la mia stima. Quando si determinano conflitti personali o politici all’interno del suo mondo, un vero dirigente politico non scappa, non dice “non c’è problema “, non gira la testa dall’altra parte. Affronta il problema, altrimenti è lui a venir travolto dalla sua inconsapevolezza o pavidità . E sappiamo com’è andata concretamente a finire. La mia candidatura era inaccettabile perché proposta da Grillo? E allora bisogna parlare seriamente di molte cose, che qui posso solo accennare. È infantile, in primo luogo, adottare questo criterio, che denota in un partito l’esistenza di un soggetto fragile, insicuro, timoroso di perdere una identità peraltro mai conquistata. Nella drammatica giornata seguita all’assassinio di Giovanni Falcone, l’esigenza di una risposta istituzionale rapida chiedeva l’immediata elezione del presidente della Repubblica, che si trascinava da una quindicina di votazioni. Di fronte alla candidatura di Oscar Luigi Scalfaro, più d’uno nel Pds osservava che non si poteva votare il candidato “imposto da Pannella”. Mi adoperai con successo, insieme ad altri, per mostrare l’infantilismo politico di quella reazione, sì che poi il Pds votò compatto e senza esitazioni, contribuendo a legittimare sé e il Parlamento di fronte al Paese. Incostituzionale il Movimento 5Stelle? Ma, se vogliamo fare l’esame del sangue di costituzionalità , dobbiamo partire dai partiti che saranno nell’imminente governo o maggioranza. Che dire della Lega, con le minacce di secessione, di valligiani armati, di usi impropri della bandiera, con il rifiuto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con le sue concrete politiche razziste e omofobe? È folklore o agire in sé incostituzionale? E tutto quello che ha documentato Repubblica nel corso di tanti anni sull’intrinseca e istituzionale incostituzionalità dell’agire dei diversi partiti berlusconiani? Di chi è la responsabilità del nostro andare a votare con una legge elettorale viziata di incostituzionalità , come ci ha appena ricordato lo stesso presidente della Corte costituzionale? Le dichiarazioni di appartenenti al Movimento 5Stelle non si sono mai tradotte in atti che possano essere ritenuti incostituzionali, e il loro essere nel luogo costituzionale per eccellenza, il Parlamento, e il confronto e la dialettica che ciò comporta, dovrebbero essere da tutti considerati con serietà nella ardua fase di transizione politica e istituzionale che stiamo vivendo. Peraltro, una analisi seria del modo in cui si è arrivati alla mia candidatura, che poteva essere anche quella di Gustavo Zagrebelsky o di Gian Carlo Caselli o di Emma Bonino o di Romano Prodi, smentisce la tesi di una candidatura studiata a tavolino e usata strumentalmente da Grillo, se appena si ha nozione dell’iter che l’ha preceduta e del fatto che da mesi, e non soltanto in rete, vi erano appelli per una mia candidatura. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere come mai persone storicamente appartenenti all’area della sinistra italiana siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5Stelle. L’analisi politica dovrebbe essere sempre questa, lontana da malumori o anatemi. Aggiungo che proprio questa vicenda ha smentito l’immagine di un Movimento tutto autoreferenziale, arroccato. Ha pubblicamente e ripetutamente dichiarato che non ero il candidato del Movimento, ma una personalità (bontà loro) nella quale si riconoscevano per la sua vita e la sua storia, mostrando così di voler aprire un dialogo con una società più larga. La prova è nel fatto che, con sempre maggiore chiarezza, i responsabili parlamentari e lo stesso Grillo hanno esplicitamente detto che la mia elezione li avrebbe resi pienamente disponibili per un via libera a un governo. Questo fatto politico, nuovo rispetto alle posizioni di qualche settimana fa, è stato ignorato, perché disturbava la strategia rovinosa, per sé e per la democrazia italiana, scelta dal Pd. E ora, libero della mia ingombrante presenza, forse il Pd dovrebbe seriamente interrogarsi su che cosa sia successo in questi giorni nella società italiana, senza giustificare la sua distrazione con l’alibi del Movimento 5Stelle e con il fantasma della Rete. Non contesto il diritto di Scalfari di dire che mai avrebbe pensato a me di fronte a Napolitano. Forse poteva dirlo in modo meno sprezzante. E può darsi che, scrivendo di non trovare alcun altro nome al posto di Napolitano, non abbia considerato che, così facendo, poneva una pietra tombale sull’intero Pd, ritenuto incapace di esprimere qualsiasi nome per la presidenza della Repubblica. I 5Stelle fuori dall’Europa RINGRAZIO Rodotà delle precisazioni che ci ha mandato. Rispondo quanto segue. 1. Gli errori da lui rilevati e compiuti da parte del Pd nei suoi confronti, io stesso li ho rilevati in due modi.Consigliando a Bersani per il tramite dell’amico Luigi Zanda di prendere contatto con Rodotà affinché ricordasse pubblicamente la sua biografia politica strettamente legata alla sinistra democratica; questo a mio avviso sarebbe stato sufficiente a far convergere i voti del partito su di lui. Evidentemente questo mio suggerimento non fu accolto. Per quanto riguarda la situazione attuale di quel partito, l’ho descritta come Rodotà e i nostri lettori hanno potuto leggerla: divisa in correnti che antepongono il loro interesse a quello del partito e soprattutto del Paese segando non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sostiene. Il Pd – ho ancora aggiunto – non deve essere soltanto riformato ma rifondato. Come è chiaro questo va molto ad di là del fatto di non aver votato per Rodotà . 2. Grillo negli ultimi giorni più convulsi ha detto che se il Pd avesse votato per Rodotà , lui avrebbe appoggiato un governo fatto da quel partito ma a distanza di qualche ora ha aggiunto mai per un partito guidato da Bersani. Voleva cioè scegliere lui anche il presidente del Consiglio? 3. Un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto applicare la politica delle Cinque stelle che ho riassunto brevemente nel mio articolo di domenica anche per chiedere a Rodotà se condivide quei punti; ma lui a quella mia domanda non ha dato alcuna risposta nella sua lettera. Che tipo di governo sarebbe dunque nato con l’appoggio di Grillo? Un governo col quale la speculazione avrebbe giocato a palla e l’Europa avrebbe severamente sanzionato. 4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano “convergenze parallele” e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011. 5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell’uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un’Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo – sempre che i risultati corrispondano alle aspettative – dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l’ha reso possibile ma, per l’esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla. Ho già detto che mantengo stima e affetto per Rodotà ma penso che, prima che avvenisse l’ultima votazione a Montecitorio, avrebbe dovuto annunciare il suo ritiro come pure penso che i suoi elettori di Cinque stelle avrebbero dovuto almeno alzarsi in piedi invece di restare seduti sui loro scranni. Anche l’educazione fa parte della cultura che evidentemente non c’è. Napolitano bis, Funeral Party La scena supera la più allucinata fantasia dei maestri dell’horror, roba da far impallidire Stephen King e Dario Argento. Il cadavere putrefatto e maleodorante di un sistema marcio e schiacciato dal peso di cricche e mafie, tangenti e ricatti, si barrica nel sarcofago inchiodando il coperchio dall’interno per non far uscire la puzza e i vermi. Tenta la mission impossible di ricomporre la decomposizione. E sceglie un becchino a sua immagine e somiglianza: un presidente coetaneo di Mugabe, voltagabbana (fino all’altroieri giurava che mai si sarebbe ricandidato) e potenzialmente ricattabile (le telefonate con Mancino, anche quando verranno distrutte, saranno comunque note a poliziotti, magistrati, tecnici e soprattutto a Mancino), che da sempre lavora per l’inciucio (prima con Craxi, poi con B.) e finalmente l’ha ottenuto. E con una votazione dal sapore vagamente mafioso (ogni scheda rigorosamente segnata e firmata, nella miglior tradizione corleonese). Pur di non mandare al Quirinale un uomo onesto, progressista, libero, non ricattabile e non controllabile, il Pd che giurava agli elettori “mai al governo con B.†va al governo con B., ufficializzando l’inciucio che dura sottobanco da vent’anni. Per non darla vinta ai 5Stelle, s’infila nelle fauci del Caimano e si condanna all’estinzione, regalando proprio a Grillo l’esclusiva  del cambiamento e la bandiera di quel che resta della sinistra (con tanti saluti ai “rottamatori†più decrepiti di chi volevano rottamare). La cosa potrebbe non essere un dramma, se non fosse che trasforma la Repubblica italiana in una monarchia assoluta e la consegna a un governo di mummie, con i dieci saggi promossi ministri e il loro programma Ancien Régime a completare la Restaurazione. Viene in mente il ritorno dei codini nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, con la differenza che qui non c’è stata rivoluzione né s’è visto un Napoleone. Ma il richiamo storico più appropriato è Weimar, con i vecchi partiti di centrosinistra che nel 1932 riconfermano il vecchio e rincoglionito generale von Hindenburg, 85 anni, spianando la strada a Hitler. Qui per fortuna non c’è alcun Hitler all’orizzonte. Però c’è B., che fino all’altroieri tremava dinanzi al Parlamento più antiberlusconiano del ventennio e ora si prepara a stravincere le prossime elezioni e salire al Colle appena Re Giorgio abdicherà . A meno che non resti abbarbicato al trono fino a 95 anni, imbalsamato e impagliato come certi autocrati, dagli iberici Salazar e Franco ai sovietici Andropov e Cernenko, tenuti in vita artificialmente con raffinate tecniche di ibernazione e ostesi in pubblico con marchingegni alle braccia per simulare un qualche stato motorio. Ieri, dall’unione dei necrofili di sinistra e del pedofilo  di destra, è nato un regime ancor più plumbeo di quello berlusconiano e più blindato di quello montiano, perché è l’ultima trincea della banda larga che comanda e saccheggia l’Italia da decenni, prima della Caporetto finale. Prepariamoci al pensiero unico di stampa e tv, alla canzone mononota a reti ed edicole unificate. Ne abbiamo avuto i primi assaggi nelle dirette tv, con la staffetta dei signorini grandi firme che magnificavano l’estremo sacrificio dell’Uomo della Provvidenza e del Salvatore della Patria, con lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati delle solite cariatidi. Le famose pompe funebri. Ps. Da oggi Grillo ha una responsabilità infinitamente superiore a quella di ieri. Non è più solo il leader del suo movimento, ma il punto di riferimento di quei milioni di cittadini (di centrosinistra, ma non solo) che non si rassegnano al ritorno dei morti morenti e rappresentano un quarto del Parlamento. A costo di far violenza a se stesso, dovrà parlare a tutti con un linguaggio nuovo. Senza rinunciare a chiamare le cose col loro nome. Ma senza prestare il fianco alle provocazioni di un regime fondato sulla disperazione, quindi capace di tutto. Letto 2179 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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