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PITTURA: I MAESTRI: Chardin: Il pittore del silenzio

27 Marzo 2010

di Pierre Rosenberg
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1983]

L’approccio allo studio del XVIII secolo implica la rapida presa di coscienza di un immenso malinteso. I giudizi che si dan ­no da più di cent’anni su questo secolo, brutalmente chiuso dalla rivoluzione francese del 1789, restano contraddittori, sia in mate ­ria politica che economica. E se il XVIII secolo passa per quello della douceur de vivre esso è anche quello delle masse contadine che vivono al margine della miseria, di larghi strati urbani che so ­pravvivono in condizioni igieniche deplorevoli alla mercé delle stagioni, delle guerre, di un’industria balbettante e di un commer ­cio assai fragile. Questi malintesi riguardano anche il settore dell’arte.

Per molti, Chardin è il simbolo del suo secolo più di Boucher o di Fragonard. La sua dolcezza, la tenerezza, la delicatezza e la raffinatezza sono i riflessi di quel “momento di perfezione dell’ar ­te francese” tanto vantato in questi ultimi anni. Chardin sembra essere il riflesso perfetto del suo tempo, l’illustrazione per eccel ­lenza del suo secolo. Ma quando ci si sofferma sulla sua vita o sulla sua opera, ci si accorge ben presto che sia l’una che l’altra non sono affatto esemplari in questo senso.

Chardin nasce nel 1699. Negli stessi anni nascono Natoire e Subleyras, Boucher e Carle Vanloo, Trémolières e Dandré-Bardon. Di tutti questi artisti, alcuni dei quali furono ben più famosi di Chardin nel XVIII secolo, egli è il solo a non essere stato for ­mato dall’Accademia, il solo a non essere stato in Italia, il solo a non aver dipinto quadri di soggetto storico o mitologico.

Chardin sarebbe dunque un artista rimasto ai margini, un in ­compreso, un precursore dei ‘maledetti’ del XIX secolo? Assolu ­tamente no. L’Accademia saprà ‘recuperarlo’, come si direbbe og ­gi, e tanto più facilmente in quanto troverà in lui non un rivolto ­so, ma uno dei suoi difensori più zelanti. Quanto ai collezionisti e ai critici più accaniti nel difendere la gerarchia dei “generi” e la pittura di storia, il “grand genre” â— e il nome di Diderot viene immediatamente alle labbra â—, ammireranno senza condizione Chardin e si troveranno persine ad amare le sue nature morte e le scene di genere così contrarie ai princìpi da loro peraltro difesi con accanimento. A pensarci bene, soffermarsi su Chardin, stu ­diarlo dall’interno, dalla parte del XVIII secolo e non, come è stato fatto così spesso fino a oggi, con occhio moderno, vuoi di ­re capire perché è così difficile guardare con occhio sereno e obiettivo a un secolo che non ci ha ancora detto la sua ultima parola.

Oggi Chardin è un pittore amato. Le sue nature morte come le scene di genere, i pastelli, sono fra le opere più popolari di tutto il XVIII secolo. Non c’è libro di storia che non riproduca i Benedicite o la Madre laboriosa, e sono poche le storie dell’arte che non riportano la fotografia della Razza, o di uno dei suoi Autoritratti. Niente di più semplice in apparenza, di più “Settecento”, dei suoi quadri. Niente che appaia di approccio più facile, più immediato… A leggere gli autori che, dai Goncourt in poi, ripetono gli stessi elogi, utilizzano gli stessi aggettivi, niente è più rassicurante del mondo di Chardin.

Ma quest’analisi non va in qualche misura riveduta? Come conciliare il pittore ufficiale dell’Accademia e l’autodidatta, come ammirare in Chardin la perfetta espressione del genio francese e un artista le cui tele potevano essere confuse da Largillierre con dipinti fiamminghi, come vedere di volta in volta in lui un “fred ­do costruttore dello spazio” e il pittore del pudore, della tenerezza e del calore umano? Soffermandosi sulle sue nature morte, Gide voleva non “ammirare che la pittura”. Ma le sue scene di genere passano ancora oggi per le più perfette immagini della vita quoti ­diana di una borghesia laboriosa e onesta.

A considerarla più da vicino, si sente che l’opera di Chardin ha sempre imbarazzato coloro che l’ammiravano e l’amavano. “Non si capisce niente di questa magìa”, confessava già Diderot. Chardin sarebbe forse un pittore segreto? Come è noto, non è sta ­to formato dall’Accademia. Dimenticando le lezioni di Cazes, di Noël-Nicolas Coypel, il ruolo svolto nella sua formazione dall’Ac ­cademia di San Luca, allora alquanto superata, si è voluto vedere in lui un autodidatta, un isolato, un incompreso, un indipendente, addirittura un ribelle. Ma tutto questo voleva dire non dare suffi ­ciente importanza alla sua entrata all’Accademia nel 1728, voleva dire dimenticare che Chardin assisteva con regolarità esemplare alle sedute dell’Accademia stessa, che esponeva con coscienza ai Salons; voleva dire trascurare la sua qualità di scrupoloso tesorie ­re. Voleva dire dimenticare il pittore che si sente lusingato d’aver ottenuto un alloggio al Louvre nel 1757, l’artista che riceve delle pensioni dal re, e che è sensibile ai successivi “benefici” accordati ­gli dal sovrano. Se Chardin non ha seguito l’insegnamento tradi ­zionale, se il suo mestiere ha sorpreso i contemporanei, è stato nondimeno uno dei creatori più disciplinati del suo secolo.

Un Fragonard, che a partire dal 1767 rinuncia ad esporre al Salon per dedicarsi alla clientela personale, voltando ostentatamente le spalle al mondo ufficiale, un Greuze, che col suo Cara-calla (1769) contava di essere considerato un pittore di storia e che, in conseguenza del suo fallimento, rifiutava ogni compromes ­so con l’Accademia, possono passare più a buon diritto per degli oppositori dell’organizzazione artistica del loro tempo.

Chardin ha creduto nell’Accademia, nell’eccellenza del suo ruolo educativo (per esserne convinti basti ricordare che volle fare di suo figlio un pittore ‘di storia’), nella promozione sociale e nell’agiatezza economica che l’Accademia procurava ai suoi mem ­bri, e che aveva procurato a lui stesso. Niente nella sua vita, in quello che sappiamo delle sue idee, niente nella sua opera che an ­nunci la Rivoluzione. Chardin ha voluto essere del suo tempo. C’è riuscito perfettamente? Chardin, pittore nordico o perfetta espressione del genio francese? Più sopra abbiamo sottolineato questa contraddizione che si trova già nella penna dei suoi con ­temporanei. Chardin, come Greuze e Watteau, è spesso conside ­rato nel XVIII secolo come il “Teniers francese”, talvolta come uno che gli è inferiore (Mariette), talvolta invece gli viene prefe ­rito (“Mercure de France”, novembre 1753). E il suo Filosof fa pronunciare il nome di Rembrandt (che Chardin copierà in un pastello del museo di Besaní§on, una delle ultime opere. L’origine delle scene di genere è anch’essa da ricercare nei pittori nordici. Snoep-Reitsma (1973) ha dimostrato che i temi delle composizioni di Chardin, quasi senza eccezioni, avevano un precedente olandese che il pittore aveva possibilità di conoscere perfettamente grazie alle incisioni che circolavano allora in ab ­bondanza a Parigi. Se Chardin sembra aver conservato nelle sue tele il significato simbolico dei pittori olandesi, ha però reinventa ­to delle composizioni assai lontane da quelle dei suoi predecessori. L’influsso nordico è avvertibile prima di tutto nell’esecuzione ed appare soprattutto nelle ultime scene di genere dall’aspetto liscio e porcellanato.

Si può trovare un origine francese all’arte di Chardin? Ma ­riette avanza, non senza condiscendenza, il nome dei Le Nain: “Mi contenterò di rilevare che, a considerarlo bene, il talento di Chardin non è che un rinnovamento di quello dei fratelli Le Nain. Come loro, egli sceglie i soggetti più semplici e i più inge ­nui, e per dire la verità la sua scelta è fatta ancor meglio”. Lo stesso Mariette, lo vedremo più avanti, fa i nomi di Desportes e di Oudry. Del primo, Chardin possedeva due copie nella sua col ­lezione (conservava anche “un piccolo schizzo di Watteau, dipinto su tavola, raffigurante una battaglia”). Quanto al secondo, mag ­giore di lui di tredici anni, Chardin sembra aver voluto prima di tutto evitarlo. Solo in due occasioni (l’abate Raynal nel 1750 e l’abate Garrigues de Froment nel 1753) la critica confronta il ta ­lento dei due pittori (senza d’altra parte dare la preferenza all’uno o all’altro, contrariamente a quello che farà l’autore della voce “illusion” nell’‘Encyclopédie méthodique, 1787, I, p. 443: “II dipinto di Chardin era tanto al di sopra di quello di Oudry che quest’ultimo risulta a sua volta al di sopra del mediocre”): l'”an ­tagonismo” tra i due artisti, osservato da Wildenstein (1963, p. 32), è pura fantasia. Vi fu certo, nel 1761, un attrito tra Chardin e Oudry a proposito del posto che il primo aveva assegnato al Salon ai dipinti del secondo. Ma la questione riguardava in realtà Jacques-Charles Oudry, figlio senza genio del grande Oudry, scomparso nel 1755.

Non fidandosi dei contemporanei, e volgendosi con prudenza ai suoi predecessori, Chardin si è reinventato uno stile per pro ­prio uso: “Bisogna che dimentichi tutto quello che ho visto, e persino la maniera con cui questi oggetti sono stati trattati da altri”, gli fa dire Cochin davanti alla prima lepre che si accinge a dipin ­gere. Il paradosso non è forse il fatto che questo stile sia diventato il simbolo dell’arte francese del XVIII secolo? Chardin, nato a Parigi, non ha per così dire mai lasciato la sua città: una città brillante, già scottante, sicura di sé, capitale di tutte le mode… Come ha potuto Chardin, pittore meditativo e raccolto, isolarsi e creare, nel silenzio, le tele meno ‘parigine’ di tutto il secolo? E uno dei misteri dell’artista: si vorrebbe vedere Chardin come un solitario, un provinciale. Niente di meno corrispondente alla real ­tà. Chardin aveva degli amici, artisti soprattutto, era al corrente di tutto quello che si faceva allora a Parigi in fatto di pittura, non doveva ignorare nulla delle grandi opere del passato, allora anco ­ra più numerose nella capitale francese di quanto lo siano oggi.

Ci siamo chiesti se Chardin ha voluto appartenere al suo tem ­po: del suo secolo ha l’eleganza, la grazia e la raffinatezza. Dissi ­mula la sofferenza per paura di mettere a disagio con un’esposi ­zione impudica. La sua arte, concepita per il piacere degli occhi, evita gli spettacoli spiacevoli di un quotidiano poco invitante non per pruderie, che gli è estranea, ma per buona educazione. Il sor ­prendente è che Chardin non si lascia racchiudere entro questi li ­miti e che è anche uno degli artisti di tutta la storia dell’arte che si abbandonano meno facilmente, uno dei più misteriosi e ambi ­ziosi. Lo sforzo si nasconde dunque sotto la disinvoltura?

I contemporanei di Chardin sono stati più sensibili di quanto lo siamo oggi a una contraddizione che l’opera dell’artista sem ­brava comportare. È nota, nel XVIII secolo, l’importanza della gerarchia dei generi che classificava i pittori secondo i soggetti trattati. Ripeteremo ancora una volta che tale gerarchia si basava sull’idea semplice e concordemente accolta che la raffigurazione dell’uomo meritava prima di ogni altra cosa l’attenzione del pitto ­re, la cui maggiore qualità era l’immaginazione. Ora, Chardin dipinge quello che vede.

I suoi contemporanei hanno tutti, e molto presto, ammirato le sue nature morte come le scene di genere. Se ne hanno gustato prima di tutto il virtuosismo tecnico, i migliori critici del tempo hanno capito che esse erano anche il frutto di lunghe ricerche e di dotte riflessioni. Ma sono stati trattenuti nella loro ammirazione dai soggetti che Chardin affrontava. Certo, si riconosceva l’artista ‘superiore’, ma unicamente nel suo ‘genere’: “I suoi quadri in ­gannano spesso l’occhio, e benché questo merito non sia il primo di tutti in pittura, non manca di essere grandissimo” (Mathon de la Cour, 1765). Anche Diderot accetta questa gerarchia. Rileggiamo le famose pagine dedicate al Salon del 1767: “Non ignoro che i modelli di Chardin, le nature inanimate che egli imita, non cambiano né di posto, né di colori, né di forme […] Il genere di pittura di Chardin è il più facile”. Partendo da questo presuppo ­sto acquista il suo pieno significato la lettera del nuovo Primo pit ­tore del re (d’altronde nemico giurato di Chardin), Pierre, che nel 1778 scriveva: “Dovete convenire che a parità di lavoro, i vostri studi non hanno mai comportato spese così forti né perdite di tempo così rilevanti come quelle dei signori vostri confratelli che hanno seguito i Grandi Generi”.

Questa frase era tanto più crudele per Chardin che era il pri ­mo ad accettare la gerarchia dei generi e a rimpiangere di non avere l’educazione che gli avrebbe permesso di dipingere soggetti ”più nobili”. Senza considerare ancora una volta che aveva voluto fare del figlio un pittore di storia, ci si ricorderà che nell’affronta-re la scena di genere l’artista aveva tentato di salire uno scalino di questa gerarchia e che presentando al Salon i suoi primi ritratti aveva anche rischiato in verità, senza successo. Ma c’è di più. Co ­me ha opportunamente fatto notare René Demoris (1969), Chardin affronta la natura morta come un pittore di storia: certo, di ­pinge quello che vede, ma sceglie gli oggetti che mostra per la lo ­ro forma o per i colori, li dispone a suo modo, ricompone quello che la natura gli offre, la ricerca, la ricostruisce, le impone la propria visione. Questo atteggiamento, di fronte a quello che rap ­presenta, trova in lui un’affermazione assai più marcata che nella maggior parte dei pittori di natura morta che l’hanno preceduto: pur accettando la gerarchia dei generi, egli tenta di applicarne le regole a soggetti più umili: “L’umiltà di Chardin implica una sottomissione al modello in misura minore che una segreta distru ­zione di esso a beneficio del dipinto” (Malraux, 1951). Ghardin rende agli oggetti i loro diritti, da alla natura morta le sue lettres de noblesse: è questo che capiranno e faranno a loro volta tutti i suoi emuli, da Cézanne a Matisse, da Braque a Morandi.

Tale atteggiamento è altrettanto manifesto nelle scene di ge ­nere. “Non c’è donna del Terzo Stato che venga [al Salon] senza credere che si tratti di un’immagine di quello che è il suo proprio aspetto, che non vi veda il suo tenore di vita domestico, i modi semplici, il contegno, le occupazioni quotidiane, la morale, l’umo ­re dei bambini, l’arredamento, il guardaroba”, scriveva un visita ­tore del Salon del 1741. Ma è proprio questo che cercava Char ­din? Niente di meno certo. In effetti, l’artista rifugge dall’aneddo ­tico, dal particolare pittoresco, dalla storia minuta che vorranno trovare a ogni costo nelle sue opere sia coloro che scrissero le légendes delle incisioni che resero popolari le sue composizioni, sia alcuni dei suoi imitatori della seconda metà del XIX secolo. L’ar ­tista fa il contrario dei suoi predecessori fiamminghi e sceglie le scene più banali, quelle che si lasciano raccontare, interpretare meno agevolmente, e toglie ogni riferimento preciso a questo o quell’avvenimento contemporaneo, a questa o a quella moda. Un atteggiamento che è tutto il contrario di quello di Greuze, l’altro grande oggetto di ammirazione di Diderot, che cerca di commuo ­vere scegliendo il momento più drammatico, quello della maggio ­re tensione. Chardin, al contrario, rifugge dagli attriti violenti, di ­spone le sue scene fuori del tempo dando loro, per questo stesso fatto, un valore di eternità. Chardin ci mostra il bambino nel mo ­mento del gioco, l’adulto nella più banale delle occupazioni, nell’attività più quotidiana e ripetitiva. I visi sono senza indivi ­dualità, persine senza espressione. Nessun movimento viene a turbare le sue composizioni. Il mondo che Chardin impone ai suoi personaggi â— un mondo chiuso, fermo, in una sosta priva di sorpresa, un mondo in riposo, un mondo dal tempo sospeso, dalla “durata indefinita” â— non è però, affatto, un mondo astratto. È con la fedele osservazione degli atteggiamenti, con la posizione di una mano in riposo, di un braccio che sostiene, di una nuca tesa nello sforzo, che l’artista racconta. Ma la mano è quella di un adolescente, il braccio quello di una domestica, la nuca quella di una madre che la vita ha già provato o di un disegnatore concentrato sul suo lavoro. Scegliendo nel mondo che lo circonda ciò che appare più banale, fermando quello che lo riassume e lo caratte ­rizza, Chardin riduce all’essenziale ciò che vede. Senza dimenti ­care mai di lasciar trasparire la comprensione, la compassione, la tenerezza che prova per il mondo dell’infanzia di cui sarebbe stato il più grande poeta.

Come nel dipingere le nature morte, privilegiando la composi ­zione e utilizzazione dello spazio, aveva evitato di fare semplice ­mente delle nature morte, così nelle scene di vita familiare, rani ­sta si tiene ostentatamente al di fuori delle leggi della scena di ge ­nere. Sia nelle nature morte che nelle scene di genere non rappre ­senta che un numero ristretto di oggetti o di figure. Niente pae ­saggi, rari animali viventi e Mariette ce ne ha fornito il motivo. niente farfalle per esempio, pochi uccelli, pochi fiori, ortaggi scelti per le forme e per i colori. Per i dipinti con figure, Chardin pre ­ferisce le donne agli uomini, gli adolescenti e i bambini agli adul ­ti. La grandezza del pittore è di aver saputo, con questo reperto ­rio votatamente limitato di oggetti e di personaggi, evitare la mo ­notonia.

Indubbiamente, non si è insistito abbastanza, a tutt’oggi, sulla considerevole evoluzione stilistica di Chardin, sulle modificazioni dei colori, della stesura e della composizione nel corso dei cin ­quantacinque anni della sua carriera; queste trasformazioni per ­mettono oggi di costruire una cronologia coerente dell’opera di Chardin, che conferma il suo bisogno di innovare, la sua preoccu ­pazione e la sua volontà di trovare nuove soluzioni ai problemi della costruzione dello spazio e dell’armonia dei colori. Chardin ha amato particolarmente, durante la sua lunga attività, determi ­nati colori, come i caldi bruni sui quali si stagliano quasi tutte le sue composizioni. Ma ai primi fondi a velature, tutti in sfumature e gradazioni che evocano, più che descriverle, nicchie o muri di pietra, succedono fondi uniti, astratti, talvolta divisi dalla diago ­nale di una linea di luce. Fin dalle prime tele, i colori, raramente impiegati allo stato puro, sono fusi tra loro, ma con gli anni Chardin darà un’importanza crescente alla luce che bagna la composizione, ai riflessi degli oggetti gli uni sugli altri: il tocco grumoso, rozzo, sarà sostituito da una stesura più liscia in cui la pennellata sparirà in favore di un “metodo” unico nel suo secolo. che suscitava già l’ammirazione dei contemporanei: “Ridipingeva [i suoi quadri] fino a giungere a quella rottura dei toni che pro ­voca l’allontanamento dell’oggetto e il distacco da tutti quelli che lo circondano, fino ad ottenere quell’accordo magico che l’ha di ­stinto con tanta superiorità”. “Aveva come principio (…) che le ombre erano una sola e che in qualche modo lo stesso tono doveva servire a romperle tutte” (Cochin).

Le composizioni di Chardin si modificheranno nel corso degli anni in modo non meno sensibile. Alle prime tele dall’equilibrio precario, dove le leggi della prospettiva non sono ancora perfetta ­mente dominate, succedono i solidi esercizi di virtuosismo, le va ­riazioni sul tema degli strumenti di cucina degli anni 1730-L’evoluzione andrà via via accentuandosi in direzione di composi ­zioni sempre più complesse, e a un tempo più raffinate.

Ma l’evoluzione di Chardin sarà particolarmente sensibile nell’impiego dello spazio. Con gli anni, andrà riducendo la scala della cacciagione, della frutta, degli utensili, delle figure che rappresenta, dando un’importanza (un significato?) crescente al vuo ­to che domina le sue composizioni. Allontanerà sempre più da noi quello che ci va mostrando, come per permetterci meglio di co ­gliere con un unico colpo d’occhio la composizione e l’armonia.

Questa progressiva e lenta evoluzione, altrettanto sensibile nelle nature morte che nelle scene di genere, è il frutto di una ri ­flessione che si rinnova in ogni quadro. Oltre a un approfondi ­mento dell’arte di Chardin, essa testimonia ancora una volta l’ambizione del pittore per la permanente ricerca della perfezione.

Chardin, pittore lento, poco prolifico, difficile con se stesso, che ricerca la perfezione, che da un posto privilegiato alla compo ­sizione e alla costruzione… All’opposto di un Cézanne nel quale la ricerca è ben avvertibile, in Chardin tutto sembra procedere da sé. Questo “semplificatore dolcemente imperioso” mimetizza le sue scoperte, non vuole che traspaia alcunché delle sue invenzio ­ni. Fatta con spigliatezza e per il piacere degli occhi, sembra un’arte semplice. Ma stiamo attenti a non lasciarci ingannare. Si può parlare di una carriera di Chardin nel senso con cui Poussin,

Cézanne o Picasso costruirono la loro, come avrebbero composto uno dei loro dipinti? Per molto tempo non l’abbiamo creduto: oggi ci sembra almeno in parte a torto.

Certo, Chardin, pur avendo una singolare forza espressiva per rendere le proprie idee e farle capire, anche in quegli aspetti dell’arte che appaiono meno suscettibili di spiegazione, non è un teorico, un uomo di dottrina. Nel suo Salon del 1765, Diderot lo fa parlare a lungo: non c’è nulla, in questa pagina famosa, che provi la parlantina, il buon senso, la coscienza, l’umiltà di Char ­din (“colui che non ha avvertito la difficoltà dell’arte non fa nien ­te che valga”), niente che permetta di definire i suoi concetti ge ­nerali sulla pittura. Se parla del duro mestiere del pittore, e tal ­volta della sua arte, Chardin non sembra essere un uomo di idee.

Ma, ad osservare meglio le sue opere, a chinarsi su di esse più a lungo, si è colpiti, come abbiamo detto, dalla volontà e dell’am ­bizione, dal desiderio di rinnovamento che le sostengono. Per arri ­vare meglio alla fedeltà vera e propria a un oggetto o un corpo, alla sua verità, Chardin s’allontana sempre più dalla rappresen ­tazione dettagliata della apparenza. E sempre più â— cosciente ­mente, crediamo, â— Chardin trasgredirà la realtà, l’immagine fe ­dele, per rivelarci meglio la bellezza degli oggetti e dei corpi che ci circondano. Quest’occhio senza pari saprà non essere vittima dei propri doni. Lentamente, come in tutto quello che intrapren ­de, progressivamente, volontariamente, l’artista saprà mettere il suo virtuosismo al servizio di un’esigenza che è l’essenza stessa della pittura: si confrontino, per esserne convinti, i primi e gli ul ­timi Bicchieri d’argento e ancora i pani della Vivan ­diera e quelli di dieci anni più tardi, sui Cibi della con ­valescenza! Non è più un bicchiere, un pane che Char ­din ci mostra, ma i bicchieri, i pani nella loro verità eterna.

Mai Chardin andrà oltre nella ricerca e nella coesistenza di somiglianza e stilizzazione come negli ultimi Autoritratti a pastel ­lo. In un testo poco noto il cui titolo, Quelques réflexions sur l’abandon du sujet dans les arts plastiques (“Verve”, n. 1, dicem ­bre 1937, pp. 7-10), è più che mai attuale, André Gide scriveva: “Allo stesso modo, è su alcune nature morte di Chardin o di Cèzanne che mi soffermai dapprima più volentieri. Là, almeno, ero ben certo di non ammirare che la pittura […] Quella sorta di esta ­si in cui mi immergeva la contemplazione di quelle tele rimaneva pura, così come il mio raccoglimento nell’ascoltare un concerto o un trio di Mozart. Credevo, e sono propenso a crederlo ancora, che l’emozione deve nascere subito dai volumi, dai colori e dalle forme per la pittura, e per la musica immediatamente dall’armo ­nia, dal ritmo, dal disegno della melodia senza ricorrere all’intel ­ligenza, che sarebbe qui solo un’intrusa […]”. E aggiungeva più ol ­tre: “Trovo in un Paniere di fragole di Chardin, per esempio, il raccoglimento e una carica spirituale così forte come nel suo Benedicite.”

Nello scrittore si avverte l’imbarazzo. Freddo costruttore dello spazio o pittore che privilegia l’emozione? Chardin ha sempre giocato su questa ambiguità, avvertita da numerosi scrittori e pit ­tori: “In genere Chardin possiede, secondo me, l’espressione ca ­ratteristica della semplicità e della bontà”, scrisse Van Gogh al fratello Théo nel 1885. “La Vivandiera è un Braque geniale, ma appena troppo ben vestito per ingannare lo spettatore” pensa Malraux.

Talvolta precursore dei cubisti, pittore della modernità, talvol ­ta pittore della tenerezza e dell’emozione contenuta, simbolo del XVIII secolo, Chardin non può essere racchiuso in una formula. Ogni epoca l’ha visto con la sua sensibilità; ha ritenuto, dei testi del Settecento, quelli che gli convenivano, l’ha amato a suo modo.

Diamo ancora due citazioni, la prima tratta dall’opera di An ­dré Gide su Poussin (1945, introduzione): “E probabilmente arri ­va a commuovermi, come la più espressiva delle figure, una certa ‘natura morta’ di Chardin, piatto di prugne o cisterna di rame, in cui la sostanziale gravità, la devozione all’oggetto, valgono il rac ­coglimento di una meditazione di Cartesio”. La seconda è dello stesso Chardin, così come è riportata dal suo fedele amico Charles-Nicolas Cochin (1780): “Ci si serve dei colori, ma si dipinge col sentimento”. Non abbiamo, in queste due frasi, la spiegazione dell’imbarazzo della critica davanti alle opere di Chardin quando non vuole più essere descrittiva e letteraria?

L’opera di Chardin si lascia analizzare malamente dal lin ­guaggio: “II primo colpo d’occhio insegna generalmente allo spet ­tatore tutto quello che c’è da sapere e gli da tuttavia il senso di una complessità che richiede l’analisi” ma tutto ciò che si può analizzare sono i mezzi tecnici, non la complessità e la ricchezza dell’assieme. E ancor meno quella voluttà, quella sensualità, quella lenta emozione, quella tenerezza, quella gravità, che isola ­no Chardin e lo collocano fra i più grandi pittori di ogni tempo.


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1 commento

  1. Commento by Lucia — 6 Marzo 2013 @ 18:01

    Ammiro Chardin, dovrebbe essere rivalutato

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