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PITTURA: I MAESTRI: Crivelli: Un fantastico interprete del vero

26 Agosto 2010

di Anna Bovero
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1975]

Crivelli! Chi era costui?
Così, parafrasando il manzoniano don Abbondio, poteva domandarsi, nel 1950, chi per caso, ad Anco ­na, si fosse trovato a visitare una mostra di antica pit ­tura veneta dove, fra i quattrocentisti, Carlo Crivelli si faceva la parte del Icone. Né serviva gran che al mi ­lanese non digiuno di Brera ricordare la Madonna della candeletta così adorna e conte ­gnosa fra quelle mele di prima scelta, e le pere e le ciliege ‘che paion vere’, e fiori così perfetti ‘che paion finti’. Questo era tutt’altro Crivelli, puntiglioso osser ­vatore del vero e fantastico osservatore, volgare, raffi ­nato, violento e tenero; inquietante, insomma. Un di ­segnatore straordinario in ogni modo, e un mago del colore, che ti fa accettare gli accostamenti più strani, i contrasti più insolenti: un Cristo morto rattrappito co ­me un poveromo, con un nasone storto, incuneato fra un’Annunziata lieve come una piuma e un arcangelo tutto curve dorate; in mezzo a due sofisticate principes ­se, un san Pietro scamiciato, con occhi fanatici e manacce da far paura. Artigiano eccezionale, il Crivelli è così innamorato del buon mestiere, che ti fa ‘sentire’ come sia liscia la ceramica e screpolata la pietra, quan ­ti livelli abbia il broccato e quanti punti compongono un ricamo; ‘vero’ e ‘finto’ si affrontano, si esaltano e, magicamente, si scambiano: l’uccello ricamato su una manica spiega le ali, vivo, e come un pollo star ­nazza il diavolo sotto i piedi dell’arcangelo Michele; ma lì sul davanzale il domestico cetriolo si gonfia di mistero in ogni sua verruca; e la chioma studiatamen ­te composta in ricci dalle pinze del parrucchiere pro ­rompe a un tratto in vortici di torrente. Persino i frut ­ti dell’orto, caratterizzati fin nelle minuzie della buccia, ti si mutano sotto gli occhi in incorruttibili pietre dure.

Se, alla mostra di Ancona, fra i non iniziati preva ­leva la sorpresa, gli storici dell’arte trovavano una buona occasione per ridiscutere un caso interessante, che per scarsezza di notizie certe lasciava largo campo all’ipotesi e all’intuizione, e da più di un secolo era oggetto di ricerche erudite, di rigoroso esercizio filologi ­co e di sottili analisi stilistiche. Si trattava, dunque, di una fama limitata alla cerchia degli specialisti, e tali si potevano considerare anche i mercanti d’arte che, fin dai primi anni dell’Ottocento, erano andati a cac ­cia di pitture crivellesche per rifornirne le più preziose e gelose raccolte d’Europa. Prima che l’esperienza di Ancona e, undici anni più tardi, una più ampia rasse ­gna a Venezia rivelassero il Crivelli a un più vasto pub ­blico, includere il pittore veneziano fra i ‘classici del ­l’arte’ sarebbe parsa idea stravagante.

Da vivo, il Crivelli, certo, non ebbe difetto di pub ­blico, se è vero che fra il 1468 e il 1494 non c’era in tutte le Marche bottega paragonabile alla sua. Ed era pubblico di città e di piccoli borghi, vastissimo e schiettamente popolare, lo stesso che, una generazione prima, san Bernardino da Siena aveva catechizzato per mezza Italia; un pubblico a cui servivano esclusi ­vamente pale d’altare e quadretti destinati alla devo ­zione domestica. Se al Crivelli capitavano committen ­ti laici, non avevano pretese di cultura umanistica o cavalleresca, non esigevano mitologie più o meno in ­tinte di neoplatonismo, non allegorie complicate, e nemmeno interpretazioni eleganti di novelle famose. Né si chiamavano Medici o Portinari, da sentirsi de ­gni di ritratti memorabili, ma Odoni, Ronci, Bacchet ­ti: modesti notabili di provincia, gente alla buona che ordinava un quadro principalmente per salvarsi l’ani ­ma e, se mai, trovava posto fra i santi come pupazzet ­to minuscolo, ginocchioni in un cantuccio. Bastava l’e ­pigrafe a esprimere l’orgoglio, e magari il rimpianto per il prezzo ‘non modico’ del dipinto. Ma per lo più trittici e polittici usciti dalla celebre bottega del Cri ­velli prendevano la via delle chiese conventuali. Due volte soltanto il vescovo di Ascoli si fece servire dal pittore, nel 1473 e nel 1486, e per l’eccezionale cliente il Crivelli impegnò tutte le risorse della sua fantasia. Clienti assidui erano i frati di san Francesco, i Minori Osservanti che avevano raccolto l’eredità di san Bernardino, presenti in ogni città, borgata e paesetto del ­le Marche. Con loro il Crivelli non aveva da scervel ­larsi per variare soggetti e schemi tradizionali, ma era liberissimo d’interpretarli nella forma che più gli pia ­cesse. I padri domenicani, invece, volevano rispettare certe convenienze, e palesemente limitarono la libertà dell’estroso pittore, che per loro lavorò più di rado e con esito non sempre felice.

In ogni modo il pittore dei frati, l’esule ridottosi in una regione appartata dai più vitali centri della cultu ­ra umanistica non poteva contare sui letterati, di ­spensatori di gloria; e infatti lo ignorarono tutti i trat ­tatisti del Cinquecento, a cominciar dal letteratissimo Vasari.

A raccogliere le prime, scarse notizie sul Crivelli furono gli eruditi veneziani del Seicento, il Ridolfi e il Boschini, che ricordano solo opere giovanili lasciate dal pittore a Venezia, e oggi perdute. Solo alla fine del Settecento il Crivelli trova posto in una storia ge ­nerale dell’arte italiana, grazie a un dotto marchigia ­no. Non per vanagloria regionale, tuttavia, o per sfog ­gio di erudizione se ne occupò Luigi Lanzi, ma perché incuriosito da una pittura tanto diversa da quella che si affermava nell’Italia dei suoi tempi, ormai neoclas ­sica. Le poche righe dedicate dall’ ‘antiquario’ del granduca di Toscana all’antico pittore, per lungo tem ­po restano senz’eco fra gli storici, ma coincidono con l’inizio della fortuna grandissima che, specialmente nell’Ottocento, arrise al Crivelli presso i collezionisti. Già cominciava ai tempi del Lanzi l’esodo di opere crivellesche verso Roma; papi e cardinali danno l’av ­vio alla sistematica spoliazione delle chiese marchigia ­ne, e sul mercato romano confluiscono, per essere ven ­duti oltralpe, anche quadri e quadretti tolti da cap ­pelle private e case nobiliari. E fu gran fortuna che le requisizioni napoleoniche deviassero parte di quell’e ­sportazione verso Milano, che a Brera andava costi ­tuendo il Louvre del Regno Italico.

Più che in Francia, i dipinti del Crivelli ebbero successo nei paesi di cultura tedesca e, soprattutto, in Inghilterra, dove già nel primo Ottocento si sviluppa rigoglioso il gusto dei ‘primitivi’. I preraffaelliti si professano debitori del Quattrocento fiorentino; ma fra i languori e le sottili perversità vittoriane che in ­crinano la loro interpretazione del Botticelli o del Pol ­laiolo spunta qua una forma angolosa, là un inconsue ­to accostamento di tinte, o un aggrovigliato decorati ­vismo che può tradire inconfessate simpatie per il pro ­vinciale isolato e tanto meno celebre.

Né poteva mancare l’apprezzamento di un così impeccabile mestiere là dove un Ruskin, un William Morris, si adoperavano alla rivalutazione dell’artigianato.

Nemmeno una riga, veramente, dedica il Ruskin al nostro artista; il fatto è, però, che i collezionisti in ­glesi se ne contendevano i dipinti, e a poco a poco la National Gallery, mise insieme l’antologia crivellesca più cospicua d’Europa. Era tempo che allo spontaneo favore del pubblico rispondesse una più attenta e cir ­costanziata valutazione da parte degli storici dell’arte.

Da quando il Cavalcaselle pubblicò la sua Storia fino a oggi, molto si è studiato del Crivelli; pazienti ri ­ricerche d’archivio ci hanno consentito di ricostruire la biografia, non senza lacune, ma nelle linee essenziali, contribuendo anche a riordinare cronologicamente le numerose pitture superstiti e a ricomporre idealmente il contesto di opere smembrate e disperse. Dove manca ­no i documenti scritti, sottentra l’analisi stilistica, e ci restano abbastanza dipinti per risalire alla prima for ­mazione culturale del loro autore, per seguirne l’evolu ­zione nei suoi valori autonomi e per valutare quanto debba il Crivelli a contatti occasionali o continuati con altri ambienti e altre esperienze figurative.

Per quel che ne sappiamo oggi, il giovane educato alla pittura nella Venezia di Jacopo Bellini, dove an ­che aveva gran peso l’officina muranese dei Vivarini, già verso il 1456 dovette orientarsi risolutamente verso le novità stimolanti che emergevano nell’ambiente pa ­dovano, e si compendiano nel termine ‘squarcionismo’: assimilazione tutt’altro che pacifica della nuova cultura toscana, anzi aspramente polemica, ma pro ­fonda, vitale, e suscettibile di esiti diversissimi: dalla tensione volontaristica del gusto archeologico mantegnesco all’intima, luminosa classicità belliniana, o alla disperata alchimia dei ferraresi. Il nostro pittore guardò, sì, a Francesco Squarcione e dal Mantegna degli Eremitani ricevette un’impressione profonda, destinata a dar frutti a distanza di molti anni. Ma sul momento, fra i discepoli diretti del caposcuola pa ­dovano, il più vicino gli fu lo Schiavone, il dalmata Giorgio Ćulinović, il più spinoso, contorto, anticlassico degli squarcioneschi. Che i due coetanei usassero un vo ­cabolario comune appare fin troppo chiaro a chiunque confronti la Madonna della Passione con il qua ­dretto del dalmata conservato nella Galleria Sabauda di Torino; ma nelle prime Madonne del Crivelli è an ­che più chiara l’aspirazione a una purezza di volumi semplificati, a cui lo Schiavone rimane estraneo.

Assai stretto dovette essere il sodalizio fra i due giovani pittori se, quando lo Schiavone se ne tornò in Dalmazia, al Crivelli, in guai con le autorità venezia ­ne, parve opportuno accompagnarlo, o seguirlo a poca istanza. L’attività del pittore a Zara è questione interessante, ma ancora da determinare, e l’esplorazione è appena agli inizi. Quando il Crivelli ricompare di qua dell’Adriatico e, nel 1468, firma il polittico di Massa Fermana dimostra di aver maturato la propria cultura nelle sue componenti venete, ma è ormai intano dallo Schiavone.

I primi cinque anni marchigiani sono il periodo più felice del Crivelli, che dal polittico di Massa Fermana a quello per il duomo di Ascoli elabora con estremo rigore ed arricchisce di modulazioni sempre nuove quella sua straordinaria sensibilità lineare per cui, commentando la mostra veneziana del 1961, ma rivista francese lo presentava come il più raffinato lei pittori veneziani. Raffinatezza, per altro, irriducibile all’aulica preziosità dei pittori, miniatori o arazzieri il Francia, così come è lontana dalla vibrante elegan ­za fiorentina. Se è l’antitesi delle molli cadenze tardo-gotiche, l’indomita energia del segno crivellesco diverge sostanzialmente da quella di un Pollaiolo – ma anche di un Mantegna – per il netto rifiuto della cultura classica. Non solo perché pittore dei frati, ma per innato impulso il Crivelli obbedisce a criteri stilistici che gli son valsi la qualifica di attardato, o, peg ­gio, di reazionario.

Che il riferimento costante all’antico non sia essenziale per un artista del Quattrocento; che occorra giudicare il Rinascimento anche in prospettiva diversa da quella toscana, si è detto, e molto autorevolmente, da un pezzo; e un ampliamento dell’orizzonte storico può aiutarci a comprendere perché, in passato, sul pittore veneziano si siano pronunziati giudizi spesso acuti, ma così disparati, e come i modi stilistici che gli valevano le lodi di un critico, gli attirassero i fulmini di un altro non meno competente.

Non c’è dubbio, il Crivelli non apre la via alle ge ­nerazioni future, anzi – ed è un limite grave â— negli ultimi anni tende a vivere di rendita su invenzioni, sue o d’altri, anche remote: come lo sfondo architettonico dell’Annunciazione londinese, riccamente arti ­colato e davvero affascinante ma ispirato – nel 1486! -da un affresco padovano del Mantegna giovane; o il susseguirsi, nei venticinque anni marchigiani, delle Ma ­donnine affacciate al davanzale, così simili nell’impaginazione, nella posa, nella struttura formale, da costi ­tuire talvolta un rompicapo per chi voglia stabilirne la successione cronologica. Se non reazionario, conser ­vatore è, certamente, il Crivelli; intelligente, però, da fare invidia a molti contemporanei più celebri, e, a suo modo, aggiornato. Infatti il persistere dell’oro nel fondo, tra le cornici ostinatamente gotiche, non gli vie ­ta di scoprire il valore della luce naturale, come gene-ratrice di una sintesi formale che, negli esempi più al ­ti, ha molto in comune con quella di Antonello da Messina. E gli occhi sul vero, il pittore li ha bene aperti, pronti a coglierne gli aspetti più sottili, così che si torna sempre a parlare del suo ‘fiamminghismo’. Niente di strano: è impensabile che fosse ignota al Crivelli l’attività di colleghi, fiamminghi o fiammingheggianti, a Urbino e a Napoli, non così lonta ­ne, poi, dal Piceno (e a Urbino lavorava anche Piero della Francesca, con altro timbro di luce, altro senso del colore, ma certo poté insegnare qualcosa al vene ­ziano). Anche il fiamminghismo del Crivelli, tuttavia, è eterodosso, perché il pittore studia il vero soltanto per farsene gioco in un contesto accesamente fanta ­stico, tanto che riduce i critici a parlar di effetto sur-reale, o a chiamare in causa, per analogia, l’espres ­sionismo.

Ma ‘espressionismo’ è termine che si usa volentie ­ri – dilatando oltre misura un fenomeno storicamen ­te ben delimitato – per indicare quella tensione for ­male, coloristica, emotiva, propria dell’arte tedesca. Chiunque si accosti alla pittura sviluppatasi fra il Re ­no e il Danubio nel corso del secolo decimoquinto, più d’una volta è indotto a ricordare il Crivelli.

A differenza dei fiamminghi, i tedeschi non erano grandi esportatori di quadri. A Venezia non era igno ­ta la loro pittura, e nelle chiese lavoravano abili inta ­gliatori transalpini; pittori del Tirolo scendevano a Padova, e a una comune esperienza padovana risalgo ­no le non trascurabili e non casuali coincidenze fra il Crivelli e Michael Pacher. Ma come spiegare le inne ­gabili analogie fra il Crivelli attivo a Montefiore in ­torno al 1471 e lo Schongauer delle Vergini sagge posteriori almeno di un decennio, se non risalendo a un modello comune, probabilmente a una o più stam ­pe?

Ascoli ospitava una notevole colonia tedesca, da cui uscirono i primi tipografi della regione; e, poco dopo la metà del secolo, tedeschi pionieri della nuova arte avevano cominciato a spargersi per l’Italia; va da sé che, insieme con i testi, si diffondessero le illustra ­zioni, intagliate su legno o incise in rame, che costi ­tuiscono un aspetto non certo minore dell’arte tedesca in quel secolo. Ora, che al Crivelli fosse familiare l’ambiente degli stampatori, lo dichiara il rilievo che acquistano nei suoi dipinti i caratteri dell’alfabeto, incisi con fine gusto epigrafico, o dipinti in oro al modo dei miniatori. E come gli piacevano i libri; chiusi e ben rilegati, ma più sovente aperti, sfogliati dal vento o da una mano irrequieta, visti in ogni possibile pro ­spettiva, massicci codici e rotuli fitti di elegante scrittu ­ra sono, più che accessori dei santi, oggetti di per sé de ­gni di specialissima, amorosa attenzione. Osservando, poi, le evidenti qualità di miniatore rivelate dal Cri ­velli nei suoi non frequenti paesaggi, doti persistenti dagli anni giovanili ai più tardi, è naturale domandar ­si se mai egli abbia atteso all’illustrazione di libri; ed è recente la proposta di riconoscerlo in certe ghirlande di fiori e frutti, indipendenti affatto dai modi consueti alle più note botteghe di miniatori del tempo, che or ­nano un incunabolo edito a Roma dopo il 1470 dai te ­deschi Sweynheim e Pannartz. Rimane, questa, una proposta suggestiva, in attesa di conferme che, si spe ­ra, verranno. Ma è proposta che riconduce il Crivelli a rapporti con un aspetto molto specifico dell’arte transalpina.

C’è un altro aspetto dell’arte crivellesca, che vale la pena di mettere in luce: questo arredatore di altari frateschi è, almeno nei suoi anni migliori, affatto alie ­no da quel tipo di pittura, che si usa chiamare devota. La violenza tragica delle sue Pietà, i bruschi trapassi nel grottesco, lo spregiudicato verismo dei particolari, sono cosa tutta terrestre e profana; e fecero perdere la bussola a più di uno storico avvezzo alla dignità tosca ­na o troppo facilmente commosso dalle ‘dolcezze um ­bre’. Né, ripetiamolo, sante principesse e santi cava ­lieri del Crivelli si possono ridurre a immagini di ro ­manzo cortese, perché troppo individuati, troppo pre ­potentemente vivi; ma neppure son santi, questo è il guaio… o meglio, questo è il fascino aspro e singolarissimo del Crivelli migliore: entro il vecchio schema del polittico gotico, stretta fra l’oro del fondo e l’oro della cornice, una figura come la Maddalena di Montefiore sbaraglia ogni idea di santità; così provocante e nervosa, può tener testa al diavolo, ma da sé senza l’aiuto del ciclo, come ci assicura l’ardita occhiata di traverso.

Potevano passar sopra a cose simili gli Osservanti, memori di san Bernardino che, citato a Roma per so ­spetto di eresia, raccontava francamente: “Chi mi vo ­leva fritto e chi arrostito”. È un po’ il linguaggio che dall’altare dorato parlano certi rudi santi del Crivelli; e quando ad essi egli contrappone una figura elettissi ­ma, come il sant’Emidio del polittico ascolano, gli esce di mano così tesa e vibrante d’impeto appena con ­tenuto, così anticonformista, che si ripensa alle parole del predicatore senese: “S’io ci fossi venuto… per vo ­stro vescovo, elli mi sarebbe stata serrata la metà della bocca. Vedi, così, così sarei stato, che non avrei potuto parlare se non con la bocca chiusa”.

Quando la tensione si allenta, il Crivelli scade; a ragione lo Zeri denuncia le debolezze del polittico di ­pinto nel 1476 per i Domenicani di Ascoli, debolezze imputabili proprio alla dolcezza, alla compostezza di ­gnitosa di prammatica, priva d’inquietudini, ma, in fondo, priva d’anima. Si tratta di una crisi, presto su ­perata; ma dopo l’86 – e nemmeno l’Annunciazione (n. 125) di quell’anno è un quadro devoto, ma una bril ­lante fantasia su un fatto di cronaca cittadina – la stan ­chezza, il troppo certo successo, il prevalere della bot ­tega spengono a poco a poco la forza creativa del Cri ­velli nelle ampie composizioni, ora sì, devote, ahimè, di una devozione tutta esteriore, e ne spengono via via anche il colore; a meno che la tragedia umana ridesti nel vecchio maestro uno scatto d’energia, il che gli av ­viene nelle parti meno ‘ufficiali’ dell’opera, sia una predella, sia una cimasa, in cui egli possa liberamente, in una scena di tortura, di battaglia, di pianto non rassegnato, secondare la propria immaginazione vio ­lenta, acutissima, fondamentalmente eretica.


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Bart