PITTURA: I MAESTRI: Crivelli: Un fantastico interprete del vero26 Agosto 2010 di Anna Bovero Crivelli! Chi era costui? Se, alla mostra di Ancona, fra i non iniziati preva Âleva la sorpresa, gli storici dell’arte trovavano una buona occasione per ridiscutere un caso interessante, che per scarsezza di notizie certe lasciava largo campo all’ipotesi e all’intuizione, e da più di un secolo era oggetto di ricerche erudite, di rigoroso esercizio filologi Âco e di sottili analisi stilistiche. Si trattava, dunque, di una fama limitata alla cerchia degli specialisti, e tali si potevano considerare anche i mercanti d’arte che, fin dai primi anni dell’Ottocento, erano andati a cac Âcia di pitture crivellesche per rifornirne le più preziose e gelose raccolte d’Europa. Prima che l’esperienza di Ancona e, undici anni più tardi, una più ampia rasse Âgna a Venezia rivelassero il Crivelli a un più vasto pub Âblico, includere il pittore veneziano fra i ‘classici del Âl’arte’ sarebbe parsa idea stravagante. Da vivo, il Crivelli, certo, non ebbe difetto di pub Âblico, se è vero che fra il 1468 e il 1494 non c’era in tutte le Marche bottega paragonabile alla sua. Ed era pubblico di città e di piccoli borghi, vastissimo e schiettamente popolare, lo stesso che, una generazione prima, san Bernardino da Siena aveva catechizzato per mezza Italia; un pubblico a cui servivano esclusi Âvamente pale d’altare e quadretti destinati alla devo Âzione domestica. Se al Crivelli capitavano committen Âti laici, non avevano pretese di cultura umanistica o cavalleresca, non esigevano mitologie più o meno in Âtinte di neoplatonismo, non allegorie complicate, e nemmeno interpretazioni eleganti di novelle famose. Né si chiamavano Medici o Portinari, da sentirsi de Âgni di ritratti memorabili, ma Odoni, Ronci, Bacchet Âti: modesti notabili di provincia, gente alla buona che ordinava un quadro principalmente per salvarsi l’ani Âma e, se mai, trovava posto fra i santi come pupazzet Âto minuscolo, ginocchioni in un cantuccio. Bastava l’e Âpigrafe a esprimere l’orgoglio, e magari il rimpianto per il prezzo ‘non modico’ del dipinto. Ma per lo più trittici e polittici usciti dalla celebre bottega del Cri Âvelli prendevano la via delle chiese conventuali. Due volte soltanto il vescovo di Ascoli si fece servire dal pittore, nel 1473 e nel 1486, e per l’eccezionale cliente il Crivelli impegnò tutte le risorse della sua fantasia. Clienti assidui erano i frati di san Francesco, i Minori Osservanti che avevano raccolto l’eredità di san Bernardino, presenti in ogni città , borgata e paesetto del Âle Marche. Con loro il Crivelli non aveva da scervel Âlarsi per variare soggetti e schemi tradizionali, ma era liberissimo d’interpretarli nella forma che più gli pia Âcesse. I padri domenicani, invece, volevano rispettare certe convenienze, e palesemente limitarono la libertà dell’estroso pittore, che per loro lavorò più di rado e con esito non sempre felice. In ogni modo il pittore dei frati, l’esule ridottosi in una regione appartata dai più vitali centri della cultu Âra umanistica non poteva contare sui letterati, di Âspensatori di gloria; e infatti lo ignorarono tutti i trat Âtatisti del Cinquecento, a cominciar dal letteratissimo Vasari. A raccogliere le prime, scarse notizie sul Crivelli furono gli eruditi veneziani del Seicento, il Ridolfi e il Boschini, che ricordano solo opere giovanili lasciate dal pittore a Venezia, e oggi perdute. Solo alla fine del Settecento il Crivelli trova posto in una storia ge Ânerale dell’arte italiana, grazie a un dotto marchigia Âno. Non per vanagloria regionale, tuttavia, o per sfog Âgio di erudizione se ne occupò Luigi Lanzi, ma perché incuriosito da una pittura tanto diversa da quella che si affermava nell’Italia dei suoi tempi, ormai neoclas Âsica. Le poche righe dedicate dall’ ‘antiquario’ del granduca di Toscana all’antico pittore, per lungo tem Âpo restano senz’eco fra gli storici, ma coincidono con l’inizio della fortuna grandissima che, specialmente nell’Ottocento, arrise al Crivelli presso i collezionisti. Già cominciava ai tempi del Lanzi l’esodo di opere crivellesche verso Roma; papi e cardinali danno l’av Âvio alla sistematica spoliazione delle chiese marchigia Âne, e sul mercato romano confluiscono, per essere ven Âduti oltralpe, anche quadri e quadretti tolti da cap Âpelle private e case nobiliari. E fu gran fortuna che le requisizioni napoleoniche deviassero parte di quell’e Âsportazione verso Milano, che a Brera andava costi Âtuendo il Louvre del Regno Italico. Più che in Francia, i dipinti del Crivelli ebbero successo nei paesi di cultura tedesca e, soprattutto, in Inghilterra, dove già nel primo Ottocento si sviluppa rigoglioso il gusto dei ‘primitivi’. I preraffaelliti si professano debitori del Quattrocento fiorentino; ma fra i languori e le sottili perversità vittoriane che in Âcrinano la loro interpretazione del Botticelli o del Pol Âlaiolo spunta qua una forma angolosa, là un inconsue Âto accostamento di tinte, o un aggrovigliato decorati Âvismo che può tradire inconfessate simpatie per il pro Âvinciale isolato e tanto meno celebre. Né poteva mancare l’apprezzamento di un così impeccabile mestiere là dove un Ruskin, un William Morris, si adoperavano alla rivalutazione dell’artigianato. Nemmeno una riga, veramente, dedica il Ruskin al nostro artista; il fatto è, però, che i collezionisti in Âglesi se ne contendevano i dipinti, e a poco a poco la National Gallery, mise insieme l’antologia crivellesca più cospicua d’Europa. Era tempo che allo spontaneo favore del pubblico rispondesse una più attenta e cir Âcostanziata valutazione da parte degli storici dell’arte. Da quando il Cavalcaselle pubblicò la sua Storia fino a oggi, molto si è studiato del Crivelli; pazienti ri Âricerche d’archivio ci hanno consentito di ricostruire la biografia, non senza lacune, ma nelle linee essenziali, contribuendo anche a riordinare cronologicamente le numerose pitture superstiti e a ricomporre idealmente il contesto di opere smembrate e disperse. Dove manca Âno i documenti scritti, sottentra l’analisi stilistica, e ci restano abbastanza dipinti per risalire alla prima for Âmazione culturale del loro autore, per seguirne l’evolu Âzione nei suoi valori autonomi e per valutare quanto debba il Crivelli a contatti occasionali o continuati con altri ambienti e altre esperienze figurative. Per quel che ne sappiamo oggi, il giovane educato alla pittura nella Venezia di Jacopo Bellini, dove an Âche aveva gran peso l’officina muranese dei Vivarini, già verso il 1456 dovette orientarsi risolutamente verso le novità stimolanti che emergevano nell’ambiente pa Âdovano, e si compendiano nel termine ‘squarcionismo’: assimilazione tutt’altro che pacifica della nuova cultura toscana, anzi aspramente polemica, ma pro Âfonda, vitale, e suscettibile di esiti diversissimi: dalla tensione volontaristica del gusto archeologico mantegnesco all’intima, luminosa classicità belliniana, o alla disperata alchimia dei ferraresi. Il nostro pittore guardò, sì, a Francesco Squarcione e dal Mantegna degli Eremitani ricevette un’impressione profonda, destinata a dar frutti a distanza di molti anni. Ma sul momento, fra i discepoli diretti del caposcuola pa Âdovano, il più vicino gli fu lo Schiavone, il dalmata Giorgio Ćulinović, il più spinoso, contorto, anticlassico degli squarcioneschi. Che i due coetanei usassero un vo Âcabolario comune appare fin troppo chiaro a chiunque confronti la Madonna della Passione con il qua Âdretto del dalmata conservato nella Galleria Sabauda di Torino; ma nelle prime Madonne del Crivelli è an Âche più chiara l’aspirazione a una purezza di volumi semplificati, a cui lo Schiavone rimane estraneo. Assai stretto dovette essere il sodalizio fra i due giovani pittori se, quando lo Schiavone se ne tornò in Dalmazia, al Crivelli, in guai con le autorità venezia Âne, parve opportuno accompagnarlo, o seguirlo a poca istanza. L’attività del pittore a Zara è questione interessante, ma ancora da determinare, e l’esplorazione è appena agli inizi. Quando il Crivelli ricompare di qua dell’Adriatico e, nel 1468, firma il polittico di Massa Fermana dimostra di aver maturato la propria cultura nelle sue componenti venete, ma è ormai intano dallo Schiavone. I primi cinque anni marchigiani sono il periodo più felice del Crivelli, che dal polittico di Massa Fermana a quello per il duomo di Ascoli elabora con estremo rigore ed arricchisce di modulazioni sempre nuove quella sua straordinaria sensibilità lineare per cui, commentando la mostra veneziana del 1961, ma rivista francese lo presentava come il più raffinato lei pittori veneziani. Raffinatezza, per altro, irriducibile all’aulica preziosità dei pittori, miniatori o arazzieri il Francia, così come è lontana dalla vibrante elegan Âza fiorentina. Se è l’antitesi delle molli cadenze tardo-gotiche, l’indomita energia del segno crivellesco diverge sostanzialmente da quella di un Pollaiolo – ma anche di un Mantegna – per il netto rifiuto della cultura classica. Non solo perché pittore dei frati, ma per innato impulso il Crivelli obbedisce a criteri stilistici che gli son valsi la qualifica di attardato, o, peg Âgio, di reazionario. Che il riferimento costante all’antico non sia essenziale per un artista del Quattrocento; che occorra giudicare il Rinascimento anche in prospettiva diversa da quella toscana, si è detto, e molto autorevolmente, da un pezzo; e un ampliamento dell’orizzonte storico può aiutarci a comprendere perché, in passato, sul pittore veneziano si siano pronunziati giudizi spesso acuti, ma così disparati, e come i modi stilistici che gli valevano le lodi di un critico, gli attirassero i fulmini di un altro non meno competente. Non c’è dubbio, il Crivelli non apre la via alle ge Ânerazioni future, anzi – ed è un limite grave â— negli ultimi anni tende a vivere di rendita su invenzioni, sue o d’altri, anche remote: come lo sfondo architettonico dell’Annunciazione londinese, riccamente arti Âcolato e davvero affascinante ma ispirato – nel 1486! -da un affresco padovano del Mantegna giovane; o il susseguirsi, nei venticinque anni marchigiani, delle Ma Âdonnine affacciate al davanzale, così simili nell’impaginazione, nella posa, nella struttura formale, da costi Âtuire talvolta un rompicapo per chi voglia stabilirne la successione cronologica. Se non reazionario, conser Âvatore è, certamente, il Crivelli; intelligente, però, da fare invidia a molti contemporanei più celebri, e, a suo modo, aggiornato. Infatti il persistere dell’oro nel fondo, tra le cornici ostinatamente gotiche, non gli vie Âta di scoprire il valore della luce naturale, come gene-ratrice di una sintesi formale che, negli esempi più al Âti, ha molto in comune con quella di Antonello da Messina. E gli occhi sul vero, il pittore li ha bene aperti, pronti a coglierne gli aspetti più sottili, così che si torna sempre a parlare del suo ‘fiamminghismo’. Niente di strano: è impensabile che fosse ignota al Crivelli l’attività di colleghi, fiamminghi o fiammingheggianti, a Urbino e a Napoli, non così lonta Âne, poi, dal Piceno (e a Urbino lavorava anche Piero della Francesca, con altro timbro di luce, altro senso del colore, ma certo poté insegnare qualcosa al vene Âziano). Anche il fiamminghismo del Crivelli, tuttavia, è eterodosso, perché il pittore studia il vero soltanto per farsene gioco in un contesto accesamente fanta Âstico, tanto che riduce i critici a parlar di effetto sur-reale, o a chiamare in causa, per analogia, l’espres Âsionismo. Ma ‘espressionismo’ è termine che si usa volentie Âri – dilatando oltre misura un fenomeno storicamen Âte ben delimitato – per indicare quella tensione for Âmale, coloristica, emotiva, propria dell’arte tedesca. Chiunque si accosti alla pittura sviluppatasi fra il Re Âno e il Danubio nel corso del secolo decimoquinto, più d’una volta è indotto a ricordare il Crivelli. A differenza dei fiamminghi, i tedeschi non erano grandi esportatori di quadri. A Venezia non era igno Âta la loro pittura, e nelle chiese lavoravano abili inta Âgliatori transalpini; pittori del Tirolo scendevano a Padova, e a una comune esperienza padovana risalgo Âno le non trascurabili e non casuali coincidenze fra il Crivelli e Michael Pacher. Ma come spiegare le inne Âgabili analogie fra il Crivelli attivo a Montefiore in Âtorno al 1471 e lo Schongauer delle Vergini sagge posteriori almeno di un decennio, se non risalendo a un modello comune, probabilmente a una o più stam Âpe? Ascoli ospitava una notevole colonia tedesca, da cui uscirono i primi tipografi della regione; e, poco dopo la metà del secolo, tedeschi pionieri della nuova arte avevano cominciato a spargersi per l’Italia; va da sé che, insieme con i testi, si diffondessero le illustra Âzioni, intagliate su legno o incise in rame, che costi Âtuiscono un aspetto non certo minore dell’arte tedesca in quel secolo. Ora, che al Crivelli fosse familiare l’ambiente degli stampatori, lo dichiara il rilievo che acquistano nei suoi dipinti i caratteri dell’alfabeto, incisi con fine gusto epigrafico, o dipinti in oro al modo dei miniatori. E come gli piacevano i libri; chiusi e ben rilegati, ma più sovente aperti, sfogliati dal vento o da una mano irrequieta, visti in ogni possibile pro Âspettiva, massicci codici e rotuli fitti di elegante scrittu Âra sono, più che accessori dei santi, oggetti di per sé de Âgni di specialissima, amorosa attenzione. Osservando, poi, le evidenti qualità di miniatore rivelate dal Cri Âvelli nei suoi non frequenti paesaggi, doti persistenti dagli anni giovanili ai più tardi, è naturale domandar Âsi se mai egli abbia atteso all’illustrazione di libri; ed è recente la proposta di riconoscerlo in certe ghirlande di fiori e frutti, indipendenti affatto dai modi consueti alle più note botteghe di miniatori del tempo, che or Ânano un incunabolo edito a Roma dopo il 1470 dai te Âdeschi Sweynheim e Pannartz. Rimane, questa, una proposta suggestiva, in attesa di conferme che, si spe Âra, verranno. Ma è proposta che riconduce il Crivelli a rapporti con un aspetto molto specifico dell’arte transalpina. C’è un altro aspetto dell’arte crivellesca, che vale la pena di mettere in luce: questo arredatore di altari frateschi è, almeno nei suoi anni migliori, affatto alie Âno da quel tipo di pittura, che si usa chiamare devota. La violenza tragica delle sue Pietà , i bruschi trapassi nel grottesco, lo spregiudicato verismo dei particolari, sono cosa tutta terrestre e profana; e fecero perdere la bussola a più di uno storico avvezzo alla dignità tosca Âna o troppo facilmente commosso dalle ‘dolcezze um Âbre’. Né, ripetiamolo, sante principesse e santi cava Âlieri del Crivelli si possono ridurre a immagini di ro Âmanzo cortese, perché troppo individuati, troppo pre Âpotentemente vivi; ma neppure son santi, questo è il guaio… o meglio, questo è il fascino aspro e singolarissimo del Crivelli migliore: entro il vecchio schema del polittico gotico, stretta fra l’oro del fondo e l’oro della cornice, una figura come la Maddalena di Montefiore sbaraglia ogni idea di santità ; così provocante e nervosa, può tener testa al diavolo, ma da sé senza l’aiuto del ciclo, come ci assicura l’ardita occhiata di traverso. Potevano passar sopra a cose simili gli Osservanti, memori di san Bernardino che, citato a Roma per so Âspetto di eresia, raccontava francamente: “Chi mi vo Âleva fritto e chi arrostito”. È un po’ il linguaggio che dall’altare dorato parlano certi rudi santi del Crivelli; e quando ad essi egli contrappone una figura elettissi Âma, come il sant’Emidio del polittico ascolano, gli esce di mano così tesa e vibrante d’impeto appena con Âtenuto, così anticonformista, che si ripensa alle parole del predicatore senese: “S’io ci fossi venuto… per vo Âstro vescovo, elli mi sarebbe stata serrata la metà della bocca. Vedi, così, così sarei stato, che non avrei potuto parlare se non con la bocca chiusa”. Quando la tensione si allenta, il Crivelli scade; a ragione lo Zeri denuncia le debolezze del polittico di Âpinto nel 1476 per i Domenicani di Ascoli, debolezze imputabili proprio alla dolcezza, alla compostezza di Âgnitosa di prammatica, priva d’inquietudini, ma, in fondo, priva d’anima. Si tratta di una crisi, presto su Âperata; ma dopo l’86 – e nemmeno l’Annunciazione (n. 125) di quell’anno è un quadro devoto, ma una bril Âlante fantasia su un fatto di cronaca cittadina – la stan Âchezza, il troppo certo successo, il prevalere della bot Âtega spengono a poco a poco la forza creativa del Cri Âvelli nelle ampie composizioni, ora sì, devote, ahimè, di una devozione tutta esteriore, e ne spengono via via anche il colore; a meno che la tragedia umana ridesti nel vecchio maestro uno scatto d’energia, il che gli av Âviene nelle parti meno ‘ufficiali’ dell’opera, sia una predella, sia una cimasa, in cui egli possa liberamente, in una scena di tortura, di battaglia, di pianto non rassegnato, secondare la propria immaginazione vio Âlenta, acutissima, fondamentalmente eretica. Letto 3263 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||