PITTURA: I MAESTRI: De Chirico: Pensare per immagini28 Novembre 2010 di Maurizio Fagiolo dell’Arco È stato detto tante volte che è letteraria la pittura di Giorgio de Chirico. Qualcuno, più accorto, ha precisato che è una pittura filosofica. E in effetti, in poche parole lo stesso artista ha rivelato il suo metodo in uno scono Âsciuto scritto sul musicista Casella: “Da lungo tempo ormai mi son reso perfettamente conto che io penso per immagini o raffigurazioni. Dopo lungo riflettere ho constatato che, in fondo, è l’immagine la principale espressione del pensiero umano, e gli altri fattori, per mezzo dei quali si esprime il pensiero, come, ad esem Âpio, le parole, i gesti e le espressioni, non sono che espressioni secondarie che accompagnano l’immagine”. De Chirico, allora, sente la necessità di obbiettivare il pensiero, senza lasciargli neanche il tempo di tramutarsi in parola. Non vuole che l’istantanea visione venga me Âdiata, e cerca un rapporto immediato (detto-fatto) tra il vedere e l’immaginare, tra il pensare e il dire, tra il far vedere e il far pensare. Pensare immagini è il suo pro Âgramma: il punto d’arrivo può anche diventare quello di immaginare il pensiero. Le schegge di parole che accompagnano la lunga vita di de Chirico non sono chiarimenti della sua opera volontari (come sono tutte le dichiarazioni degli artisti) ma, nascoste come sono all’interno di vari contesti, si ri Âvelano lapsus, illuminazioni inconsce. Bastano alcune frasi per comprendere tutto il suo metodo. Quando, per esempio, in un testo del 1939 (nientemeno sull’Ameri Âca) si lascia sfuggire una definizione a proposito della sua pittura (“L’omogeneità e la monumentalità armo Ânica formata da elementi disparati ed eterogenei”) rie Âsce a bloccare come in una lapide il senso intero dell’o Âperazione “metafisica”. I mezzi possono apparire ca Âsuali e contingenti, il fine sarà armonico e classico. Magica etichetta, questa ‘metafisica’, che segna an Âche il più importante contributo italiano (insieme al Futurismo) alla nozione moderna dell’arte. Vuoi dire ‘al di là delle cose fisiche’, proprio come Surrealismo (il termine di Apollinaire, ripreso con slancio da André Breton) vuoi dire ‘al di sopra della realtà ’. Eppure c’è, in questo termine, qualcosa di meno e qualcosa di più, rispetto alla sua etimologia. La vera ri Âcerca di Giorgio de Chirico è l’indagine di un senso na Âscosto delle cose: in altre parole, 1′ ‘enigma’ caro a Nietzsche (ovvero il ‘demone’ che invocava Eraclito). Eppu Âre, l’artista non fa riferimento a un mondo iperuranio delle idee ma lavora intorno alle cose così come si vedo Âno, e che sono (se viste sotto diverse angolature) la vera fonte del mistero e dell’enigma. Quindi non c’è bisogno di scomodare lo ‘spirituale’ (come fa a Monaco nello stesso periodo Kandinsky) e neanche si mira a una idea del sogno come doppio della vita umana (come teorizzava a Vienna il dottor Freud). In poche parole, l’enigma metafisico si nasconde in qualsiasi architettura o evento, anche quello a portata di mano: una arcata profonda o un giocattolo inespres Âso, una statua languidamente poggiata a un piedistallo basso o uno strano flauto, un eroe greco o un biscotto ferrarese, una mappa o un manichino o un’ombra. In qualsiasi cosa può convivere l’aspetto spettrale ed eter Âno che è il vero momento filosofico ricercato da Giorgio de Chirico. E dalla Metafisica. Nella ‘cosa’ dechirichiana vengono così a convergere passato e futuro. Quelli che lui chiamava ‘i segni eterni’ nascondono la geometria e l’esoterismo, l’ironia (in sen Âso greco) e la visione. L’uomo-oracolo ha insegnato (da quel pomeriggio d’autunno 1910 in cui vide ‘un nuovo mondo’ in piazza Santa Croce a Firenze, trasformando uno spazio gotico in una idea ellenica), che la veduta deve trasformarsi in visione, e il visionario in veggente (oracolo, appunto). Perché de Chirico, alla fine di tutto, scopre il ruolo centrale delle ‘Muse inquietanti’, occu Âpandosi soprattutto della loro madre Mnemosine. E cioè la Memoria. La rivalutazione di una ‘ars Memoriae’ ha dato una autentica sterzata alla ricerca del nostro secolo. Se in Âfatti, da una parte, si esaspera il dato materialista (l’og-gettività , il confronto con la fotografia), dall’altra pane si potenzia un’arte intesa come scrittura di sogni, come controllo delle libertà intime, come stenografia dell’in Âconscio, come crisi delle leggi che non siano quelle (anarchiche) dell’io. Ecco allora che il Superuomo scen Âde dalla sua montagna, Zarathustra dipinge e parla più di quanto non predichi, Nietzsche si annulla nella veri Âtà dell’irreale, nel narcisismo del vero. Decalogo 1) De Chirico è un pittore antico. Non perché l’ab Âbia rivendicato in quel lontano dopoguerra di ritorni al Âl’ordine (“Pictor classicus sum”) ma perché bisogna guardare un suo quadro (e quindi studiarlo) come si analizza Caravaggio o Botticelli. Un suo quadro non è oggetto seriale ma un soggetto attivo che si collega ad altri e dal rapporto storico acquista il vero valore. Lo studioso ideale di de Chirico dovrebbe quindi avere quella metodologia scaltrita (occhio del conoscitore, ico Ânologia, psicologia della forma, coscienza storica) che si 2) De Chirico è (almeno) 12 pittori. Tutti siamo abituati all’artista ‘900 che mette a punto un suo stile e poi, per tutta la vita, declina quella squisita etichetta in merci perfettibili (al massimo, troviamo un periodo di 3) De Chirico ha prodotto poco. I suoi quadri van Âno guardati con una certa attenzione perché rappresen Âtano ognuno un punto d’arrivo filosofico (e non solo pit Âtorico). Circa 130 quadri fino al 1918 (come dire, uno al mese), circa 100 nel periodo italiano classico e ro Âmantico, circa 300 nel periodo di Parigi (il più ricco), circa 150 negli Anni 30. Un corpus pressoché completo, almeno fino al 1935, ci presenterebbe un pittore di 600 quadri. Nello stesso periodo Van Dyck ne ha prodotti 1.000, tanto per esemplificare, e pensate alle sterminate fatiche di Zervos attorno ai mirabili ventimila capolavo Âri di Picasso. 4) Bisogna credere a de Chirico. Quando parlava di falsi, quando intentava nel ’48 un clamoroso processo agli analfabeti della Biennale di Venezia, quando indi Âcava i falsi nei musei di Hannover, di Olanda e così via, era cosciente che quelle pennellatone di tipo ferrarese non ce le aveva lui sulla coscienza. E vero, lui intorno al ’25 aveva dipinto un gruppetto di quadri antedatati, e altrettanto aveva fatto intorno al ’40, ma quelle tele contro le quali si accaniva erano opera d’un altro. Il fantasma ha oggi nel mio archivio un nome preciso: Oscar Dominguez. E il suo corpus ‘dechirichiano’ tocca i 30 numeri. 5) Non sempre bisogna credere a de Chirico. Molte volte, proprio per la sua fede nell’enigma, ha ce Âlato gelosamente le sue invenzioni più affascinanti. Per esempio, nell’introduzione della mostra del 1921 parla del quadro Mercurio che rivela ai metafisici i misteri degli dèi come “cosa rara e destinata a pochi, quindi opera di grande destino”; ma soltanto pochi mesi dopo (in un contratto con Broglio) modifica il titolo con l’in Ânocuo La statua che si è mossa. Oppure, dipinge un quadro fondamentale con il soggetto di Edipo e la Sfin Âge (nella posa malinconica come il mitico autoritratto Et quid amabo nisi quod aenigma est?), eppure nello stesso contratto di pochi mesi dopo lo intitola Il tempio di Apollo (con quest’ultimo titolo il quadro è riemerso). Come si vede, per de Chirico il problema metafisico è avere una rivelazione, ma il corollario di quella intui Âzione nicciana è celarla ‘ermeticamente’. 6) È prudente conoscere i documenti. Certo reste Ârà impossibile accumularli tutti, ma credo che anni di ricerca in questo senso possano stroncare le gratuite il Âlazioni di studiosi nuovi-nuovi. Fino a poco fa due ca Âpolavori giovanili recavano i titoli Paesaggio amalfitano e Marina con scogli (indicati dall’artista, si badi). Ebbe Âne, alla luce di un catalogo del ’30 (Mostra del Nove Âcento, Buenos Aires) ho ristabilito i titoli Prometeo e La Sfinge. Eppure, si stenta a crederlo, il soggetto è visibile a tutti, anche se celato nell’enigma della ‘doppia immagine’ (che diventerà legge per il suo erede Dalì). Quindi, un archivio sufficiente permette non solo di evitare errori ma di arrivare al cuore di molte opere. 7) II vero testimone è il quadro. Tutti i documenti del mondo, tutte le dichiarazioni dell’artista, ogni docu Âmentazione, ogni sentenza penale verrà comunque a scontrarsi con la realtà (vitale) dell’opera. Un bel quadro metafisico datato 1912 non può essere di quella da Âta, se la tela è a trama larga e di qualità italiana (ma nonostante tutto resta un buon quadro). E poi, ogni dettaglio è importante, a cominciare dal retro del quadro (grazie a etichette o strane scritture, ho potuto ricostruire storie insospettabili). 8- De Chirico e mister Hyde. Non è possibile com Âprendere de Chirico senza studiare il suo doppio, la sua ombra, il suo alter-ego: Andrea de Chirico, ovvero Al Âberto Savinio. Da una lunga analisi del suo lavoro ho ricavato più notizie su de Chirico di quante ne abbia ri Âvelate il grande metafisico. La lettura corretta di Savinio può essere l’esca di una scoperta o la sua conferma: è il caso dell’interesse antico per il Risorgimento e la guerra di Libia (‘mistero mirabile’) che significa per i due fratelli una ricerca di radici e per l’iconografia dechirichiana  1913 l’apparizione della piazza gialla e grumosa come il deserto oltre che di esotici banane e ananas. 9) Bisogna conoscere molte opere. E per farlo, non possiamo rivolgerci ai musei (neanche le cantine lo hanno ospitato), ma girare il mondo (gli USA, la Ger Âmania, la Francia) e le case dei privati. Quelli che, al tempo in cui de Chirico veniva espulso dalla Biennale di Venezia o qualificato ebreo al tempo in cui era visto di malocchio come fascista o falsario compravano quelle straordinarie tele detestate dai sedicenti critici. Atten Âzione però: per guadagnare la fiducia di un collezioni Âsta ho impiegato a volte anni; so che per perderla basterebbe una parola. Vista l’aria punitiva che assume lo Stato (mentre i ‘sinistri’ francesi liberalizzano il possesso dell’opera d’arte) apparteniamo all’ultima genera Âzione che ha visto quei capolavori. 10) De Chirico è morto nel 1978. Fino all’ultimo, ogni opera contiene trasalimenti metafisici e spesso chiavi segrete (quelle che de Chirico non forniva a voce) per sciogliere antichi enigmi. C’è chi lo ha dato per di  sperso nella Grande Guerra, c’è chi l’ha perso di vista in qualche sala degli Uffizi al tempo di “Valori Plasti Âci”, c’è chi l’ha ritenuto schiacciato sotto gli zoccoli d’un cavallo o ucciso da qualche gladiatore nell’epoca Rosenberg, e c’è perfino chi giunge a ritenerlo affogato nei “Bagni misteriosi”.  Attenzione  alle dichiarazioni  di morte presunta: ogni generazione si sceglie il suo de Chirico. P.S. De Chirico è uno scrittore. E grande. Non solo come inventore (Hebdomeros) ma come critico (che in realtà parlava sistematicamente dei fatti suoi). La sag Âgia ironia dei suoi scritti è sintetizzata in una delle ulti Âme dichiarazioni pubbliche, il discorso all'”Académie de France” per l’accettazione dell’abito verde e della fe Âluca. “Essere arditi quando si ha un passato da com Âpromettere è il segno più grande della forza”. Una epi Âgrafe, per questo decalogo laico, per comprendere il più enigmatico e inquietante pittore del nostro tempo. Ecce homo Si è detto che de Chirico è anche un grande scrittore e uno straordinario testimone del suo tempo. Polemica Âmente, addito uno dei suoi libri più esecrati dalla cultu Âra italiana, le Memorie della mia vita. Quando nel 1945, de Chirico licenzia il volume, compie la più su Âblime tautologia nella sua vita d’artista. Quelle pagine scritte, infatti, non sono la continuazione ma il ‘doppio’ della sua opera dipinta. Quasi in uno specchio, leggermente velato dall’ossido della ‘cattiveria’, de Chirico ri Âprende il filo mai interrotto dei suoi scritti, molti dei quali (ne sto pubblicando la raccolta per Einaudi) sono oggi dimenticati in polverose biblioteche o serrati archi Âvi. Riprende la memoria mai obliata delle sue memorie: il rosario che sgrana nelle prime pagine di questo li Âbro è quasi un catalogo ragionato dei suoi temi e leit-motiven. Riprende i vestiti, volta a volta dismessi, che ha in Âdossato in quegli antichi testi teorici. Prima si era adombrato nelle vesti del Grande Iniziato, nei mano Âscritti giovanili; poi lo ritroviamo nelle vesti del Monomaco, solo contro tutti, al tempo di “Valori Plastici”, nel clima del dopoguerra. Riappare nelle vesti del Pictor Classicus ai tempi romani de “La Ronda”, e poi an Âcora Profeta del Mistero (‘laico’ secondo Cocteau) al tempo del ritorno a Parigi. Poi diventa Hebdomeros e poi ancora Dudron. Solitario, donchisciotte senza nean Âche scudiere, è alla fine il Pictor Optimus, temuto o odiato. Cambia pelle ogni volta, per scoprirsene sotto una che è analoga all’altra: perché tutti i suoi io somi Âgliano maledettamente a quel Superuomo di nicciana memoria. Le memorie come autoritratto. E come nei suoi infi Âniti autoritratti, de Chirico troverebbe puerile essere semplicemente se stesso: è piuttosto il proprio mito, la propria statua eretta per il futuro, è un altro-da-sé schizoide e libero nei campi-elisi della fantasia. E quin Âdi, assomigliando a un corpo-estraneo, può gettare in faccia ai suoi indifferenti contemporanei, quella sua spoglia alienata, quella trionfante maschera. Ecce homo. Al culmine della sua vita, anche Nietzsche, prima di abbracciare un cavallo nella metafisica Torino del 1888 (quella data che de Chirico associa in un quadro a quella della propria nascita), sentì la ne Âcessità di lasciare una biografia definitiva (dopo le pri Âme prove de La mia vita), un libro come testamento: critico, amaro, diseredante. Ecce homo è provocatorio e torbido, è contro tutti i contemporanei con altera umil Âtà . Proprio quanto farà de Chirico quando comincia a ‘raccontarsi’. Ma via, un ‘superuomo’ non può dire ve Ârità che non sia sibillina, non può comunicare che per enigmi, non può che mescolare finto/vero/verosimile come nella sua algebrica opera. Anzi, riesce nell’auto Âbiografia a renderli ancora più enigmatici, quegli enig Âmi che gli facevano da piedistallo nel primo autoritratto del 1910, dove si accampa l’epigrafe sonora: “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”. Rimozioni. In queste pagine si dovranno anche leg Âgere i silenzi. Per esempio, il suo contributo al Surreali Âsmo . Nel condannare quei ‘figli di papà ’ come li chiama lui (quei figli suoi), de Chirico non chiarisce al lettore di essere stato presente in quel novembre 1924 alla fon Âdazione del Surrealismo, anzi non gli dice neppure che era a Parigi in quell’anno. Non dice che la fotografia di Man Ray sulla copertina del primo numero de “La Révolution Surréaliste” vedeva proprio lui, il Metafisi Âco imbronciato, al centro del gruppo, e a coronare la storia appariva un suo quadro ferrarese dietro la testa dell’illuminato André Breton, come un’aureola. Lapsus. Ma quante storie utili (per capire i ‘mobili nella valle’ o le ‘piazze d’Italia’, i ‘manichini’ o l’elleni Âsmo, i ‘cavalli’ o i colori pastello) si trovano nelle prime pagine di questo libro. La storia della sua infanzia e adolescenza è un breviario occulto della sua pittura che è. notoriamente, Ars Memoriae. Sono circa 60 le pagine dedicate all’infanzia e adolescenza: una lunghezza equivalente, per intenderci, a quella riservata agli anni dell’inizio della vita pittorica, tra Ferrara e Parigi. Il resto è polemica e lotta con i contemporanei: rabbiosa o distaccata come quella d’un dio antico che è sempre apollineo e dionisiaco allo stesso tempo. Colui che era stato salutato come Profeta del Moderno diventa, per spirito di contraddizione, nemico giurato del ‘moder Ânismo’. Pictor Optimus Ha solcato il nostro secolo Giorgio de Chirico, come l’ultimo individualista. E riuscito a dimostrare che l’ar Âtista può (deve) seguire tranquillamente il filo d’Arian Âna della propria mente, incomprensibile per gli altri. Può dipingere l’acropoli di Atene e i cavalli in riva al mare tessalo, gli archeologi e le piazze meridiane, i ma Ânichini come le statue greche, gli interni strapieni di oggetti come l’infinito, la squadra e la pera, l’uomo e la sua ombra, il viandante e il suo fantasma. Può esplora Âre il Rinascimento come il Barocco, può studiare i fiamminghi e Michelangelo, come può tornare alla propria antica pittura. E tutti, per decenni, hanno con Âtinuato a stupirsi (per stigmatizzarla subito dopo) di questa inquietante ubiquità . Infatti, appena lo classifi Âcano, il Metafisico si trova già su altre posizioni. E tut Âto rifiuta, a patto di salvare lo spirito di contraddizione, il Maestro degli Enigmi. “Bisogna scoprire il demone in ogni cosa” era il suo primo comandamento. E allora il problema è quello di mescolare l’educazione greca alla cultura centroeuro Âpea assorbita a Monaco, l’intellettualismo francese (di quando incantava Apollinaire e poi Cocteau) al mistero eterno di Zarathustra. La scoperta è semplice: l’enigma e l’inquietante sono all’angolo della strada, e basta solo saperli vedere. Ognuno vive giorno e notte con la pro Âpria follia, o con la propria saggezza, come aveva sco Âperto Nietzsche. E non a caso, i suoi padri de Chirico va a cercarli tra i filosofi del negativo (Schopenhauer, Weininger) e tra i pittori romantici tedeschi (Böcklin, Klinger), perché è tutta mentale e visionaria la sua ope Ârazione. E così le ‘piazze d’Italia’ sono interrogativi sulla vertigine; aperture e chiusure nel conscio e nell’inconscio; l’invenzione d’un Rinascimento mai esistito. Assomigliando al Partenone, ogni stazioncina diventa tempio della dea Partenza. I suoi manichini sono l’a Âspetto moderno della statua, che all’artista interessa sempre come calco (e quindi: doppio, rispecchiamento, ombra). I suoi cavalli e mobili nella valle, i suoi trofei e gladiatori, rappresentano allora il recupero della Me Âmoria: cosa ben diversa dal sogno e dall’incubo esaltato dai Surrealisti. Con tutto questo bagaglio di miti, de Chirico non è allora un figlio di Freud (che, pure, è tra i primi a cita Âre in Italia) ma un altro autentico padre della scienza dell’anima. Il mistero del tempo, la radiografia dell’in Âconscio, la presentazione enigmatica dell’enigma: sono tanti momenti che hanno portato fuori strada i suoi su Âperficiali analizzatori. I fatti che de Chirico viene espo Ânendo, nelle pagine e sulla tela, sono in realtà molto po Âchi, e tutti si riportano alla sua (mitica) personalità . Il vedente si trasforma in veggente, per far scoccare quella misteriosa scintilla che definiamo arte. Non si vuole ammettere che tutta la sua operazione (certo, anche quella di reinventare le invenzioni di vent’anni prima) è quella nicciana dell’ ‘eterno ritorno’. Si può anche scoprire che il vero mito di de Chirico si sdoppia: la partenza degli Argonauti da una parte, il Ritorno del figliol prodigo dall’altra. La partenza è un distacco traumatico, con riferimenti autobiografici (da Volos, e cioè dalla sua città natale, partirono gli Argo Ânauti alla ricerca del Vello d’oro) ma anche con un de Âstino di viaggi e delusioni, avventure e depressioni, fino a una probabile conquista (come l’oro per l’alchimista). Il Figliol prodigo è un tema che assume diverse sfuma Âture nelle molte opere dedicate al tema: è il ritorno al padre, è l’abbraccio tra il figlio-manichino e un padre-statua, è l’approdo al Museo. Un nuovo arrivo e subito dopo una nuova partenza: resta quello di Odissee il mi Âto centrale per de Chirico, l’uomo che ricerca se stesso attraverso la peregrinazione, e la perdita di tutto, tran Âne che della Memoria. Un modo per entrare nel suo cosmo (tortuoso per via degli enigmi accortamente moltiplicati) può anche esse Âre quello di vedere in serie cronologica i suoi autoritrat Âti, culminanti con questo scritto nelle Memorie. Autoritratto come specchio di Narciso, come insistenza sul ‘superuomo’, come travestimento sublime. Uno dei co Âmandamenti di Nietzsche era: “Volere tutto ciò che è già accaduto”. E che cos’altro fa de Chirico, quando si maschera da malinconico o da Böcklin, da hidalgo o da Euripide, quando si ‘statuifica’ o quando si ritrae con la sua ombra (anima, kha), quando diventa sotto i no Âstri occhi oracolo o ecce homo, Odisseo o Apelle? Nei suoi cento autoritratti, parla sempre con associa Âzioni da svelare. Non è mai se stesso solitario ma con qualcuno (con Hermes, con la madre, con il fratello sa Âpiente, con la Musa, con Euripide…). Non è mai in po Âsa generica ma è sempre atteggiato come qualcuno (come ‘nato sotto Saturno’, come Raffaello, come genti Âluomo rinascimentale o come figura barocca, come sta Âtua per l’eternità …). Proprio nell’autoritratto si esalta il valore della Metafisica. Non esiste niente di più fisico di un ritratto, eppure viene portato ogni volta al di là . tramite il perenne metodo della ‘visione’. Ancora uno dei suoi testi sacri (Weininger, il filosofo che si suicidò per scommessa) può chiarire questa intenzione: “II nu Âmero di volti differenti che si succedono in un uomo du Ârante la sua vita può essere considerato un vero criterio fisionomico dell’eminenza e dell’eccezionalità dei doni che ha ricevuto”. E insomma, se c’è da tirare una mora Âle (sia pure ‘immoralista’) per la sua lunga operazione nell’immaginario, si può dire che, identificandosi con tutti, Giorgio de Chirico ha finito per identificarsi sol Âtanto con se stesso. Enigmaticamente. Letto 6661 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 28 Novembre 2010 @ 11:35
E’ tra gli artisti del 900 che amo di più. Dei suoi dipinti mi ha sempre colpito quell’angoscia inespressa, chiusa in se stessa, che ‘spiffera’ dalle piazze, dai manichini, dalle sue statue senza volto.
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Grande articolo, Bart.
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Commento by Bartolomeo Di Monaco — 28 Novembre 2010 @ 12:53
Ho scelto bene larticolo, Carlo? Ti ringrazio.