PITTURA: I MAESTRI: Mito e laicismo di Giorgione19 Dicembre 2009 di Virgilio Lilli [Classici dell’arte, Rizzoli, 1968]  La realtà più precisa di Giorgione è la sua irrealtà . La sola certezza che abbiamo di lui è che nulla di lui è certo. Egli appartiene sotto questo aspetto a quelle figure d’artisti che confinano con le figure degli eroi. Incerta la sua data di nascita. Incerto il suo nome: Zorzo o Zorzi? E Barbarella, di casato, o Barbarelli, o addirittura tutt’un’altra faccenda, nonostante la me Âdesima iniziale, e cioè Bonetti? Incerto perfino, per qualche dubbio sia pure labile, il suo sangue: di fa Âmiglia veneta (Castelfranco) o lombarda (Bergamo)? Incerte le opere: nessuna d’esse firmata; e delle ope Âre incerto il significato: la più parte d’esse â— e so Âprattutto quelle che con minore esitazione si ritengono sue â— enigmatiche e per certi versi indecifrabili. In Âcerta nientedimeno la morte: finito di peste, come dice il Vasari (“Mentre Giorgione attendeva ad onorare e sé e la patria sua, nel molto conversare che e’ faceva per trattenere con la musica molti suoi amici, s’inna Âmorò d’una madonna, e molto goderono e l’uno e l’al Âtra de’ loro amori. Avvenne che nell’anno 1511 ella in Âfettò di peste, non ne sapendo però altro, e praticandovi Giorgione al solito, se gli appiccò la peste di ma Âniera, che in breve tempo nell’età sua di trentaquattro anni se ne passò all’altra vita”), o morto d’un grande ‘chagrin d’amour’, secondo quanto attesta il suo fan Âtasioso biografo secentesco Ridolfi (“… godendosi Gior Âgio in piaceri amorosi con … donna da lui ardentemen Âte amata …” essa gli fu “sviata di casa da Pietro Luzzo da Feltre, suo scolare … per lo che datosi in preda alla disperazione … terminò di dolore la sua vita, non ritro Âvandosi altro rimedio alla infettazione amorosa, che la morte”)? Effettivamente tutto di lui sfugge alla realtà , quasi la realtà sia una violenza, una brutalità ch’egli non possa sopportare. Tutto di lui si sottrae alla ‘costrizio Âne della realtà ’ proprio secondo quanto avviene degli eroi, la cui biografia è sempre aereiforme, come, per citare esempi di natura varia e a caso, in Achille o in Romolo, in Sigfrido o in Robin Hood (ed è la confer Âma della ‘destinazione alla libertà ’ appunto degli eroi. per i quali la stessa storia costituisce una prigione, tan Âto che non sono mai materia di storia vera e propria bensì di leggenda sia pure inserita nella storia). Non a caso degli eroi noi conosciamo il più delle volte solo caratteri di natura generale indicativa piut Âtosto che descrittiva, tale che spetta poi a noi, al no Âstro amore e alla nostra fantasia di conferirgli l’incar Ânazione che ci riesce più congeniale. Per tornare a Giorgione, tutto quel che sappiamo di lui è che era una creatura grande, forte, bella ed estremamente sen Âsibile: nella descrizione che ce ne da il Vasari lo si di Ârebbe una specie di angelo musico posatosi sulla terra da un ciclo misterioso, tutto pregno d’una gentile ed estatica sete degli uomini e della natura. “Dalle fat-tezze della persona” scrive testualmente il Vasari “e dalla grandezza dell’animo chiamato poi col tempo Giorgione”. Un accrescitivo ‘majestatis’, dunque. Una dimensione fisica e morale alla quale non basta il no Âme normale di Giorgio, ma che richiede una maggio Âre proporzione: Giorgione. Immaginiamo un corpo aitante, un ampio torace, arti lunghi, plastici. Già un poco un monumento, per qualche verso un ‘Giorgio il grande’. “Fu allevato in Vinegia” racconta il Vasari “e dilettossi continovamente delle cose d’amore, e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto ch’egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse mu Âsiche e ragunate di persone nobili”. Un atletico e amo Âroso eroe musico, il quale a un certo punto depone il liuto e dipinge qualche tela con arte magistrale: “… di gran lunga passò i Bellini da loro [i veneziani] tenuti in tanto pregio, e qualunque altro fino a quel tempo avesse in quella città [Venezia] dipinto”. In queste condizioni, inquadrato nella sua epoca, il mito è il primo elemento del suo fascino direi per forza di contraddizione: nella polpa viva e ben tangibile del Rinascimento egli è allo stesso tempo presente ed as Âsente, non solo, ma la sua presenza è tanto più viva quanto più evidente è la sua assenza, come la sua as Âsenza è tanto più evidente quanto più è viva la sua presenza (torniamo per un attimo a Omero, il più pre Âsente e il più assente degli artisti del mondo). Voglio dire che la individuabilità del suo genio acquista forse anche maggiore risalto per la irraggiungibilità della certezza della sua opera. Quante sono le opere certe di Giorgione? Secondo la selezione storica e critica, non più di tre. Quante le opere incerte? Poco più d’una trentina, due terzi del Âle quali incertissime. Vale a dire che la statura d’un artista reputato nei secoli fra i colossi della storia della pittura scaturisce da tre soli dipinti, le altre opere â— fra le quali anche qualche semplice tavoletta o di Âsegno o magro frammento d’affresco â— limitandosi a costituire una specie d’alone della luce emanata dal centro. E intendiamoci: nessuno dei tre dipinti ‘certi’ – e cioè la Madonna di Castelfranco, I tre filosofi e la Tempesta â— reca un contrassegno obbiettivo e definiti Âvo che lo qualifichi autografo del pittore in senso auto Ânomo; nessuno dei tre per esempio presenta la sua firma, né per nessuno d’essi esiste una informazione d’origine per testimonianza diretta, come avviene per tanta parte della pittura del Rinascimento. Essi sono ‘suoi’ perché le attribuzioni degli esperti coincidono; opere di Giorgione, dico, perché è impossibile ritenere che gli esperti siano caduti unanimemente in errore. Una gloria per forza di perizie. Di questi tre dipinti ‘certi’ in tal senso, soltanto uno ha un significato narrativo chiaro; gli altri due costi Âtuiscono due enigmi. Di significato chiaro è la Pala di Castelfranco, che raffigura su un alto trono la Madonna col Bambino, scortata e allo stesso tempo adorata, più in basso, da san Liberale e san Francesco. Nella sua rigorosa strut Âtura formale essa è, ovviamente, un’opera tipicamente sacra, e in questo senso la chiarezza è perfino conven Âzionale. Ma la tela detta dei Tre filosofi si presta alle più opposte interpretazioni: come identificare quel giovane seduto al suolo e intento a calcolare qualche cosa; e quell’adulto immerso in un pensiero che lo isola dall’ambiente come se ne assorbisse tutti i poteri di comunicativa dal di dentro; e quel vecchio che regge un cartiglio in atteggiamento solenne ed enfa Âtico insieme, tutti tre isolati a loro volta dalla terra dei campi su una breve naturale scalinata di levigate rocce situata nel primo piano d’un vigoroso paesaggio? Tre ‘magi’, o tre ‘maghi’? O i simboli di tre scuole filo-sofiche? O le incarnazioni di tre diverse età mentali quali potrebbero esserci fornite dalla cultura dell’epo Âca, o più semplicemente di tre epoche storiche? Quanto alla Tempesta, infine, chi è quella donna che allatta un pargolo, così bella, nuda nonostante un lembo del lenzuolo, sul quale siede nell’erba, le salga fino alle spalle alla guisa d’una mantelletta? Quella donna inserita in un paesaggio urbano e silvestre allo stesso tempo, improvvisamente percosso e acceso da una folgore che stampa una serpe di luce gialla nella cinerea matassa di nuvole in ciclo, mentre un giovane in posa di alabardiere, ben diritto ma in atteggiamen Âto di riposo insieme, guarda alla sua sinistra ‘fuori campo’? Mistero. Il mistero â— che quando si accompagna al genio, o all’eroismo, o alla santità è il più vivo nutrimento del mito â— ha ampliato attraverso i secoli la dimen Âsione della figura di Giorgione, anziché ridurla. E di Âremo addirittura che ne ha chiarito il profilo anziché annebbiarla: della sua opera e della sua persona, come per nessun altro dei suoi contemporanei, possiamo par Âlare senza il timore della contraddizione in termini di misteriosa chiarezza e di chiaro mistero ; non nel senso magico o religioso delle espressioni, ma nel senso più largamente positivo e laico. Giorgione è forse il primo pittore laico nella storia dell’arte italiana. Il suo laicismo è formale e sostan Âziale allo stesso tempo. In senso formale, esiste in lui una specie di rinuncia alla narrazione religiosa, una rinuncia che si risolve spesso nella scelta d’un’altra sfera di interessi, estranei al fatto confessionale. Non una polemica, ma l’imbocco d’una seconda strada del Âla pittura. Si possono dipingere Madonne â— sembrano dire le sue opere â— ma si possono dipingere anche uomini e paesaggi, e perfino Madonne come fossero uomini e paesaggi. In questo senso la fine della pittura come convenzione fideistica (impensabile fuori del rag Âgio della visione religiosa anche quando il soggetto ap Âpare ben terreno, ed in realtà è anch’esso parte di un mito sacro) comincia da Giorgione. Se dovessimo adottare il criterio quantitativo delle generalizzazioni statistiche, probabilmente ci rende Âremmo conto che Giorgione è il primo pittore nella storia della pittura italiana a raggiungere la percen Âtuale più bassa nella tematica sacra comparata alla sua intera produzione: un quarto di soggetti sacri con Âtro tre quarti di soggetti profani. Ma sarebbe una con Âsiderazione che, pur essendo un dato rilevante di natu Âra concreta, ci svierebbe dalla interpretazione del suo ‘laicismo’. Diciamo piuttosto che i suoi dipinti formal-mente di genere sacro sono sostanzialmente laici anch’essi, proprio nella misura nella quale lo sono quelli di soggetto apertamente profano. Un artista del più maturo Rinascimento non po Âteva certo sottrarsi alla fatalità , diremmo, di servire la Chiesa. Fatalmente doveva dipingere Madonne, Re Âdentori, santi, divini pargoli e storie bibliche. Ma tale fatalità Giorgione sembra averla ridotta alla dimen Âsione delle sue vocazioni che nonostante tutto erano vocazioni della “pittura per la pittura” totalmente estranee alla norma della “pittura per la Chiesa”. È per questa ragione che nelle vesti delle sue Madonne ci sono solo delle donne; e nelle vesti dei suoi santi solo degli uomini. Sotto questo aspetto egli dissacra il mondo sacro (sia pure in una pensosa atmosfera di me-lanconica serenità ) immergendolo nella natura ; al con Âtrario di quanto facevano i suoi predecessori anche immediati i quali consacravano la stessa natura, sem Âmai, immergendola nel mondo sacro. I tre personaggi della Sacra famiglia, i personaggi dell’Adorazione dei pastori di Washington, opere cro Ânologicamente fra le prime del pittore di Castelfranco, sono già uomini in veste di santi e non santi in veste d’uomini. La Madonna di Oxford è una dama che si diletta con la lettura, anche se visibilmente pronta a prendere cura del bambino che, seduto su un cuscino poco lungi da lei, sta tranquillamente mirando qual Âcosa che assorbe tutta la sua attenzione al difuori dello stesso quadro. D’altra parte, la Prova del fuoco e il Giudizio di Salomone (se sono suoi) sono scene che in Âtegrano due paesaggi, al contrario di quanto avviene nella pittura sacra e biblica, nella quale è il paesaggio che integra la scena. Quanto alla Pala di Castelfranco, è chiaro che la assorta, stupenda Madonna è una con Âtadina che si presta a una sacra rappresentazione e che fra breve scenderà nei campi a falciare il grano, come faranno gli altrettanto melanconici san Liberale e san Francesco, ritti sotto il suo trono, appena si saranno disfatti l’uno dell’armatura di ferro e l’altro del saio. Che il Rinascimento sia il termine antinomico del Medioevo secondo le teorie del secolo scorso o che ne sia la conseguenza secondo le teorie più recenti, è co Âmunque indubbio che esso segna un deciso passaggio dal misticismo e dall’ascetismo a una ‘terrestrità ’ che arriva a conferire al cristianesimo, sotto forma di clas-sicismo, lineamenti pagani. Non per questo la Chiesa non continua a determinarne certi ideali anche quando essi prendono profili greci o romani. In realtà , fino a Giorgione gli artisti rinascimentali anche sommi non vanno esenti da una censura interiore nei confronti della Chiesa, per la quale operano sempre come suoi collaboratori. Così in Toscana come nel Veneto il pit Âtore appare innanzi tutto come un servo di Dio, se non addirittura del Papa. Tutto ciò cambia con Giorgione. Giovanni Bellini, maestro di Giorgione, è per qualche verso ancora un po’ ‘santo’, anche quando non fa pit Âtura sacra; ma Tiziano, suo discepolo, non lo è più anche quando dipinge la Trasfigurazione. La visione laica dell’arte di Giorgione è un punto di partenza in senso quasi aritmetico. Con tale visione, Giorgione da definitivamente ini Âzio alla pittura di ‘paesaggio e figura’ fine a se stessi e non in funzione di una edificazione fideistica o di una celebrazione aulica. Il paesaggio per il paesaggio e la figura per la figura ; la pittura nella quale la nar Ârazione è il pretesto e non la destinazione, la pittura insomma il cui fine è la pittura, sia essa una storia, o un pezzo di mondo, o un ritratto. Nel pieno rigoglio d’un’epoca gremita di Madonne, di Redentori, di mar Âtiri di santi, di Deposizioni, di profeti, di sibille, di sacri pargoli quanto di principi e signori a loro volta santificati; in un’epoca affollata di protagonisti cele Âsti o divi, dico, sia pure rivissuti col vigore e la terre Âstre chiarezza del mondo classico; non a caso Gior Âgione dipinge giovani su un prato dilettandosi di mu Âsica con due belle donne nude ; o una vecchia dai lineamenti concitati e disfatti dagli attriti con la vita di tutti i giorni ; o un paesaggio languidamente abbel Âlito da un vago tramonto, appena animato da minu Âscole generiche figurette complementari; o una gio Âvane piena di fragranza, dall’espressione per qualche verso viziosa, con una turgida mammella scoperta che mostra il rosso del capezzolo; o una donna dormente altrettanto casta che profana, nudo per il nudo come si dipinse in seguito da Tiziano a Goya e a Modigliani. Forse è la laicità di Giorgione ad avere contribui Âto a una dispersione delle sue opere non registrabile per nessun altro maestro di quell’epoca. Mentre la pit Âtura sacra aveva destinazioni inamovibili o comunque ben catalogabili (chiese, cappelle, conventi e simili quand’era sacra per eccellenza, palazzi insigni quando era sacra in senso aulico o celebrativo), la pittura laica aveva destinazioni individuali estrose e perfino labili. E infatti Giorgione sembra lavorasse, come si dice og Âgi, soprattutto per gli amici, dentro una Venezia che per lui doveva essere anch’essa essenzialmente laica, con le dovute distanze e proporzioni, come dovette es Âserlo Parigi per gli impressionisti. Una città nella quale egli cantava e suonava con brigate di gentiluomini, e amava bellissime donne, ed era circondato da un suc Âcesso di natura mondana; e tutti gli chiedevano ritrat Âti, o dipinti di pura fantasia, affascinati dalla sua auto Ânomia al punto che gli lasciavano la più piena libertà del soggetto, come ci racconta il Vasari a proposito del Âla commissione che gli dette la Signoria di Venezia, di affrescare il Fondaco dei Tedeschi ricostruito dopo l’in Âcendio del 1504: “Fu … ordinato … che lo dipingesse in fresco di colori secondo la sua fantasia, purché e’ mostrasse la virtù sua e che e’ facesse un’opera eccel Âlente”. E Giorgione “non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte, che nel vero non si ritrova che abbiano ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata o antica o moderna … perché dove è una donna, dove è un uomo in varie at Âtitudini: chi ha una testa di lione appresso, altra con un angelo a guisa di Cupido, né si giudica quel che si sia”. La dispersione delle opere del pittore di Castel-franco (pressoché nulla rimane del Fondaco dei Te Âdeschi, mentre dei ritratti e dei quadri enumerati dal Vasari non uno, a meno di frammenti o di puri so Âspetti, è riuscito a pervenirci) è stata forse il prezzo da lui pagato post mortem al proprio spirito laico. Disper Âsione così grande che mentre pei contenere le opere dei maestri del suo tempo occorrono chiese, palazzi, a volte intere città , le sue entrerebbero nella sala della ‘personale’ d’un pittore d’oggi. La realtà più precisa di Giorgione, dicevo all’ini Âzio di queste pagine, è la sua irrealtà . Nell’atmosfera di tale irrealtà che determina il mito, opera il suo lai-cismo per il quale la pittura esce dal Vecchio e Nuovo Testamento e dalla celebrazione aulica ed entra nel mondo direi secolare, non più ovviamente ascetismo mistico del Medioevo ormai remoto, ma nemmeno, più, serena, trionfale e tuttavia ‘sacra’ gloria del pri Âmo Rinascimento. Per cui potrebbe affermarsi che Giorgione trae Dio all’aperto, lo strappa alla navata della basilica, lo inserisce dentro il paesaggio, extra ecclesiam, riducendolo a dimensioni d’assorta umani Âtà . Per sua mano la pittura diviene un brano della vita in quanto natura, l’uomo al livello della natura e la natura al livello dell’uomo: un viaggio che dal cele Âste, attraverso l’umanistico, arriva appunto all’uomo. E nell’uomo impaginato nella natura (in un rapporto di complementarità proprio come fra la parola scritta e la carta) trova i motivi d’un lirismo che, abbando Ânato il terreno delle convenzioni (la pittura sacra, la pittura biblica, la pittura aulica eccetera), si esprime integralmente nel colore. Con Giorgione il colore è il punto d’arrivo di tutta la pittura che lo ha preceduto e il punto di partenza di quella che lo segue. Quasi che tutta l’arte del figu Ârare prima di lui fosse stata una preparazione del suo avvento e che tutta l’arte del figurare dopo di lui non ne fosse che la conseguenza. L’avere messo la narra Âzione, la composizione, la dinamica del movimento, la luce e perfino il disegno in soggezione del colore, facendo del colore il protagonista della pittura, è il motivo essenziale della modernità del giorgionismo. L’arte che oggi noi chiamiamo tonale nasce dalla liri Âca decantazione cromatica che nei quadri del pittore suonatore di liuto fonde in una estatica simbiosi la carne e lo spirito dell’uomo con gli ‘spazi’ del creato nel quale è immerso. In tal senso, egli sembra inse Âgnarci che il colore può realizzare una perfetta comu Ânione fra l’uomo e la natura più che la vita ; una comu Ânione che diviene poesia e meditazione, senza tempo. Letto 4299 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 19 Dicembre 2009 @ 18:58
Inquadratura ampia ed interessantissima di un pittore tra i più enigmatici e significativi, pittore che fu anche ispiratore di nuove correnti, alle quali aderirono diversi artisti, tra i quali Tiziano. Veramente particolare ed innovativo fu il suo linguaggio pittorico, che fu definito “totale”: si basava soprattutto sulla luminosità del colore.
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Carlo Capone — 19 Dicembre 2009 @ 19:03
Seguo con    interesse questo ciclo di articoli sui grandi della pittura  e ringrazio Bart per averceli proposti.  Â
L’enigmatico Giorgione ha scomodato   perfino la  psicoanalisi  dei Miti.  Â
Per me   il Rinascimento  in pittura  si riassume in  Botticelli e Giorgione.  Il  primo celebra la vita    senza  colpe originali.  Anche nel  secondo  l’uomo e la natura  sono    posti  per ciò che sono,   senza mediazioni.  Ma  non possiamo negare che una parte del suo  fascino derivi da un velo di non detto.  Doveva essere un tarlo del tempo se  pensiamo all’indistinto femminino   di Monna Lisa e di  altre figure Leonardesche
Ancora pochi lustri e  arriverà Carlo V con i suoi Lanzichenecchi,  tutto non sarà come prima. Basta  confrontare  la prima Pietà di Michelangelo  con l’ultima, la  Rondanini.
Bart, grazie per gli auguri, cui ho risposto  sul tuo blog.   Â
Commento by Marina — 20 Dicembre 2009 @ 16:23
Questo brano presenta un Giorgione nei suoi differenti aspetti, con un’analisi a tutto campo e nello stesso tempo poeticamente espressa. Mi sarà molto utile quando andrò a visitare la nuova e completa  mostra su Giorgione nella sua natia Castelfranco
marina
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 20 Dicembre 2009 @ 16:29
Sono contento, Marina, che questo saggio, pescato nel mio archivio, ti possa essere utile.