PITTURA: I MAESTRI: Gauguin: Suoi scritti3 Settembre 2012 a cura di G. M. Sugana Se non è raro il caso di un pittore che abbia spiegato con il corollario di scritti gli intendimenti dei suoi dipinti, con Gau Âguin (e, contemporaneamente, Van Gogh) sembra però iniziarsi un costume che troverà nel Novecento ben più ampia consue-tudine: quello di voler chiarire il ‘significato’ della propria opera comunicando anche gli stimoli e il pensiero che ne hanno determinato la realizzazione. Tale tendenza va precisandosi nell’artista successivamente ai contatti con Bernard sia, presumibilmente, a causa della più consapevole presa di coscienza della propria ‘missione’ arti Âstica, sia, forse, stimolato dall’esempio dello stesso Van Gogh. Risalgono al 1889 circa i suoi primi articoli, di aperta pole Âmica contro la critica d’arte ufficiale (ma rimangono per lo più inediti); e il medesimo bersaglio riappare in uno scritto incompiuto poco più tardo (Notes synthétiques) che si trovava in un album di disegni in proprietà di H. Mahaut (e da lui pubblicato nel 1910). In esso, mentre è dichiarata la superiorità della pittura su tutte le arti in quanto consente una trasmissione immediata del messaggio dell’artista, viene ribadita la vacuità dei dogmi ac Âcademici, cui si contrappone l’insegnamento del vero: in par Âticolare, Gauguin vi illustra la propria teoria dei colorì che, derivante dalla scienza contemporanea, viene però espressa in termini di “rapporto intimo con la natura”. Opere più sistematiche nascono dal 1893: il Cahier pour Aline, appunti autobiografici dedicati alla figlia, e Noa-Noa, sorta di relazione del primo viaggio a Tahiti, in cui a medita Âzioni sulla propria pittura, sui motivi che in essa avevano preso forma, si aggiungono notazioni per così dire etnologiche, sui costumi e, soprattutto, la spiritualità del popolo maori. Tale prima redazione venne pubblicata, con alcune aggiunte personali, da Ch. Morice, in parte sulla “Revue Blanche” [1897] e in parte sulla “Plume” [1901]; l’iniziativa non ottenne l’approvazione dell’autore, che nel frattempo ave-i~a atteso a una nuova stesura dell’opera, illustrandola con acquerelli e incisioni, da cui venne tratta l’edizione in fac-simile di J. Meier-Graefe. Fra il 1901 e il 1902 compone Racontars d’un Rapin e Avant et Après: ambedue gli scritti non trovano editore. Soprattutto nel secondo, pubblicato in fac-simile a Lipsia da K. Wolff [1914], raggiunge una più compiuta espressione la personalità dell’artista, la cui complessità si può desumere dai suoi rap Âporti con la società , così come vengono da lui stesso narrati e analizzati attraverso il filtro deformante degli stimoli e delle frustrazioni. Ma ancor prima che negli scritti destinati alla pubblica Âzione, accenni programmatici o intime rivelazioni trovano luo Âgo nelle numerosissime lettere, di cui peraltro manca un’edizio Âne integrale. Fra le raccolte più importanti (l’elenco completo è dato in Bibliografia,) sono comunque da citare: le Lettres a Georges Daniel de Monfreid [1919], a cura di V. Ségalen; e le Lettres de Gauguin a sa femme et ses amis [1947] (fra cui Ber Ânard, Schuffenecker, Denis, Fontainas), frutto del lungo e accu Ârato lavoro di ricerca di M. Malingue. La prima raccolta com Âprende 75 lettere, datate fra I’11 aprile 1901 e l’aprile 1903; scritte a cuore aperto, costituiscono il documento più esauriente e angoscioso dell’ultimo, tormentato periodo. La seconda ha invece un contenuto più vario: se i rapporti epistolari con amici e colleghi valgono a illustrare questioni più strettamente connesse ad aspetti anche tecnici e teorici dell’attività artistica, la corrispondenza con la moglie pone in luce il tema forse più intimo e nascosto della vita di Gauguin, il suo sincero affetto per la famiglia, la nostalgia del proprio ambiente, l’isolamento soprattutto intellettuale cui era costretto nella volontaria fuga dalla civiltà . Nella scelta pubblicata qui di seguito per presentare l’ope Âra pittorica di Gauguin si è cercato di enucleare quegli ele Âmenti che, se pure non sempre in stretta connessione con la pittura, ne costituiscono tuttavia rilevanti nuclei espressivi. Lettere  Copenaghen, 14 gennaio 1885. A  Emile Schuffenecker. […] Da molto tempo i filosofi dissertano sui fenomeni che ci sembrano soprannaturali ma di cui abbiamo la ‘sensazione’. Tutto sta in questa parola. Artisti come Raffaello e altri erano persone in cui la sensazione si formulava molto prima del pensiero, e questo ha permesso loro di non giungere mai, pur continuando a studiare, a distruggere la sensazione, continuan Âdo così a essere artisti. Per me il grande artista corrisponde alla più grande intelligenza: a lui giungono i sentimenti, le traduzio Âni più sottili e perciò più invisibili del cervello. Osservate  l’immensa creazione  della  natura  e  scoprirete che esistono leggi cui fa capo il formarsi di tutti i sentimenti umani con i loro aspetti sempre diversi eppure simili negli effetti. Se vediamo un grosso ragno e un tronco d’albero nella foresta, l’uno e l’altro, senza che ce ne rendiamo conto, su Âscitano in noi una sensazione terribile. Perché si prova disgusto a toccare un topo e altre cose del genere? Di fronte a queste sen Âsazioni non c’è ragionamento che tenga. Tutti i nostri sensi arrivano direttamente al cervello impressionati da un’infinità di cose che nessuna educazione potrà distruggere. Ne deduco e esistono delle linee nobili, ingannatrici, eccetera: la linea retta dà l’infinito, la linea curva limita la creazione, senza con Âtare la fatalità nei numeri. Si continuerà ancora a discutere sul 3 e sul 7. I colori, benché meno numerosi delle linee, illustrano ancora meglio questo concetto a causa della potenza del loro effetto sull’occhio. Vi sono toni nobili, altri banali; vi sono armonie tranquille e consolatrici, e altre che eccitano per la loro arditezza. In sostanza, con la grafologia si scoprono le caratteristiche di persone sincere o di persone bugiarde: perché, a un intenditore, le linee e i colori non dovrebbero rivelarre la maggiore o minore grandezza di un artista? Vedete Cézanne, l’incompreso, la natura essenzialmente mistica dell’Oriente (il suo volto sembra quello di un uomo dell’antico Oriente): nella forma ricerca il mistero e la tranquillità greve dell’uomo disteso a sognare, il colore è grave come il carattere degli orientali; uomo del Sud, passa giornate intere sulla cima di una montagna a leggere Virgilio e a guardare il cielo. Perciò i suoi oriz Âzonti sono elevati, i suoi azzurri intensissimi e il rosso dei suoi dipinti rivela una vibrazione stupefacente. Pont-Aven, luglio 1886. Alla moglie. “…I Qui lavoro molto e con successo, sono considerato il più grosso pittore di Pont-Aven: è vero però che questo non mi fa guadagnare un soldo in più, ma forse mi prepara un avvenire. In ogni caso, mi crea una notevole reputazione e tutti qui – americani, inglesi, svedesi, francesi â— si contendono i miei consigli, che io sono così stupido da dare: dico così perché in definitiva si servono di me senza mostrarmi la giusta ricono Âscenza. Con questo mestiere non ingrasso. Adesso peso meno di te: torno a essere secco come un’aringa, ma in compenso ringio Âvanisco. Più ho preoccupazioni e più le mie forze ritornano senza che ci sia bisogno di incoraggiarmi. Non so dove finirò e qui vivo a credito. La mancanza di soldi mi scoraggia profon Âdamente e vorrei davvero che finisse. Insomma rassegnamoci e succeda quello che vorrà : forse un giorno, quando tutti avranno aperto gli occhi davanti alla mia arte, un entusiasta mi solleverà dal fango. (Parigi, inizio dell’aprile 1887.) Alla moglie. La mia fama come artista si accresce ogni giorno di più, ma intanto a volte resto anche tre giorni interi senza mangiare, e questo annienta non soltanto la mia salute ma anche la mia energia. E questa vorrei riconquistarla e andarmene a Panama per vivere da selvaggio. Conosco un’isoletta nel Pacifico, Taboga, a un miglio al largo di Panama: è quasi disabitata, li Âbera e fertile. Porto con me colori e pennelli e potrò ritemprar Âmi lontano dalla gente.  Arles, novembre 1888. A Emile Bernard. […] Osservi i giapponesi, che pure disegnano in modo ammi Ârevole, e vedrà la vita all’aria aperta, nel sole, senza ombre. Si servono del colore esclusivamente come combinazione di toni, di armonie diverse che danno l’impressione di calore, eccetera… Inoltre io considero l’impressionismo una ricerca completa Âmente nuova, che di necessità si allontana da tutto ciò che è meccanico, come la fotografia, eccetera… Perciò mi allontanerò per quanto è possibile da ciò che produce l’illusione di una cosa; e poiché l’ombra rappresenta il trompe-l’oeil del sole, sono portato ad eliminarla. Se però nelle sue composizioni l’ombra entra come forma necessaria, il discorso è tutto diverso. Così, in luogo di una figura, lei mette soltanto l’ombra di un per Âsonaggio: è un punto di partenza originale di cui avrà cal Âcolato la stranezza. Sarà come il corvo sulla testa di Pallade, che vi si posa invece di un pappagallo in seguito alla scelta del Âl’artista: scelta calcolata. […] (Arles, dicembre 1888.) A Emile Bernard. […] Sono ad Arles molto spaesato, perché trovo tutto piccolo e meschino: il paesaggio e la gente. Vincent [van Gogh] e io ci troviamo in generale ben poco d’accordo soprattutto in pit Âtura. Lui ammira Daumier, Daubigny, Ziem e il grande Rousseau, tutta gente di cui non posso neanche sentir parlare, men Âtre invece detesta Ingres, Raffaello, Degas, persone che io ammiro; e gli rispondo: “Ha ragione, brigadiere”, per amore del quieto vivere. I miei quadri gli piacciono molto, ma quando ci lavoro trova sempre che sbaglio a far questo e a far quello. È’ un romantico, mentre io sono piuttosto portato a uno stato primitivo. Per quello che riguarda il colore, lui accetta le auda Âcie dell’impasto come nel caso di Monticelli, mentre io odio i lavori pasticciati […]. (Pont-Aven, inizio del settembre 1889.) A Emile Bernard. […] I momenti di dubbio, i risultati sempre al di sotto di quello che sognamo e la mancanza di incoraggiamento da parte degli altri, tutto contribuisce a ferirci. Infine, che altro possiamo fare se non combattere con rabbia contro tutte queste difficoltà e parlare ancora, anche travolti? Ancora e sempre. In fondo la pittura è come l’uomo, mortale ma vivo e sempre in lotta con la materia. Se pensassi all’assoluto, cesserei di fare qualunque sforzo anche per vivere. Accontentiamoci di quello che siamo. Sia che io non ne abbia la pazienza, sia che non mi senta abbastanza forte, sia che la mia natura abbia in sé qual Âche cosa di superficiale in attesa di raggiungere la completezza per la fine della carriera, il fatto è che io peno e vivo nella speranza. Non mi piace molto dare consigli â— si tratta di una cosa così delicata â—, e penso tuttavia che farebbe bene a portare avanti per un certo tempo degli studi approfonditi quanto crede, dato che in questo momento lei pensa che l’arte sia assolutamente legata a procedimenti tecnici, quali impasto, fluidità , eccetera… Se in seguito diverrà come me scettico al ri Âguardo, vorrà dire che seguirà un’altra via. Confesso che in questa lingua avverto qualche cosa di più che delle parole, sia pure armoniose: Corot o Giotto mi conquistano per ben altri motivi che la solidità della loro pittura. Lei sa quanto io stimi il lavoro di Degas: eppure qualche volta sento che gli manca un motivo profondo, un cuore che batte. Anche le lacrime di un bambino sono qualcosa, eppure si tratta di qualcosa di ben poco dotto. In sostanza ammiro molto capolavori di ogni tipo di ispirazione, capolavori di sensazione e capolavori di scienza: e per questo penso che ci sia da fare in entrambe le direzioni. È evidente che lei è molto dotato e anche molto preparato. Che le importa del parere degli imbecilli e degli invidiosi? Non penso che possa turbarla per molto tempo. Quanto a me, non sono mai stato troppo viziato dagli altri, e intendo anzi di Âventare sempre più incomprensibile. […] (Le Pouldu, novembre 1889.) A Emile Bernard. […] Che vuole? O la mediocrità cui tutti sorridono, o il genio nel rinnovamento: bisogna scegliere, se abbiamo libero arbitrio. Se lei avesse il potere di scegliere, sceglierebbe ancora ciò che fa soffrire: camicia di Nesso che si appiccica addosso e di cui non ci si può liberare. Gli attacchi contro l’originalità sono naturali da parte di coloro che non hanno la capacità di creare e di scrollare le spalle. Alla sua età , lei ha molto tempo davanti a sé: ma per quel che mi riguarda, di tutti gli sforzi di quest’anno mi restano solo le urla di Parigi che giungono fin qui a scoraggiarmi al punto che non oso più dipingere e porto a spasso il mio vecchio corpo sulle rive del Pouldu col vento del nord! Traccio meccanicamente qualche studio (se si possono chiamare studi delle pennellate in accordo con l’oc Âchio), ma l’anima è assente e guarda tristemente l’abisso che si trova davanti. Abisso in cui vedo una famiglia desolata, sen Âza il sostegno di un padre, e non un cuore in cui riversare le mie sofferenze. Dal gennaio scorso ho venduto per 925 franchi. A quarantadue anni vivere di questo, comprare i colori, ecce Âtera: c’è di che turbare l’anima più agguerrita. Non per il fatto di essere nel bisogno, ma perché l’avvenire si profila an Âcora peggiore. Davanti a questa impossibilità di vivere (anche da miserabile) non so che risoluzione prendere. Mi sforzerò di ottenere un posto qualunque nel Tonchino: là forse potrò fare i un po’ di arte in pace a modo mio. Quanto a fare della pittura commerciale, anche impressionista: no. Nel più profondo di me stesso intravedo una sensibilità più elevata che mi è parso appena di avvertire quest’anno: Dio mio, mi dicevo, forse io ho torto e loro hanno ragione; per questo ho scritto a Schuff di chiederle la sua opinione perché mi guidasse un po’ in mezzo al mio turbamento. Vedo che lei ha capito tra le righe che ho sfiorato qualcosa: eccomi rin Âfrancato nelle mie opinioni e non le abbandonerò (cercando di andare più oltre). E ciò nonostante Degas, che è l’autore di questo sfacelo so Âprattutto presso Van Gogh. Questi non trova infatti nelle mie tele quello che vede lui (il cattivo odore del modello). Sente in noi un movimento contrario al suo. Ah! se avessi come Cézanne i mezzi per affrontare la lotta, la farei volentieri. Degas diventa vecchio e gli fa rabbia di non aver avuto l’ultima pa Ârola. Non siamo i soli ad avere lottato: vede bene che Corot eccetera col tempo hanno avuto ragione. Ma oggi, che mise Âria, quante difficoltà . Quanto a me, mi dichiaro vinto… dagli avvenimenti, dagli uomini, dalla famiglia, ma non dall’opi Ânione pubblica. Di quella me ne infischio, e faccio a meno degli ammiratori. Tahiti, marzo 1892. Alla moglie. […] Sono un grande artista e lo so. Proprio perché lo sono, ho sopportato tante sofferenze: per seguire la mia vita, se no mi considererei un bandito. Che è quello che sono, del resto, per molte persone. In fondo, che importa? Ciò che mi tormenta di più non è tanto la miseria quanto gli intralci continui alla mia arte, che non posso realizzare come la sento, e come potrei fare senza la miseria che mi lega le mani. Tu mi dici che ho torto a voler restare lontano dal centro dell’arte. No, ho ragione: da un pezzo so che cosa faccio e perché lo faccio. Il mio centro artistico è nel mio cervello e non altrove, e io sono grande perché non mi lascio frastornare dagli altri e perché faccio quello che è in me. Beethoven era sordo e cieco, isolato da tutti, e perciò le sue opere rivelano l’artista che vive su un suo pianeta. Guarda che cosa è successo a Pissarro a forza di voler sempre essere all’avanguardia, al corrente di tutto: ha perduto ogni origina Âlità e la sua opera è priva di unità . Segue sempre la corrente, da Courbet e Millet fino a quei giovanottelli chimici che accumu Âlano puntini. No, io ho un fine e continuo a perseguirlo, accumulando documenti. Ogni anno vi sono trasformazioni, è vero, ma sem Âpre nella medesima direzione. Sono il solo a essere logico: per questo trovo ben poche persone che mi seguano a lungo. Povero Schuffenecker, che mi rimprovera di essere rigido nelle mie determinazioni! Ma se non agissi così potrei sop Âportare anche soltanto per un anno la lotta a oltranza che ho intrapreso? Le mie azioni, la mia pittura, eccetera, sul mo Âmento sono sempre contraddette e poi finalmente mi danno ragione. Io devo sempre ricominciare. Sono persuaso di fare il mio dovere e, forte di ciò, non accetto né consigli né rimpro Âveri. Le condizioni in cui lavoro sono sfavorevoli e bisogna es Âsere un colosso per fare quello che faccio in queste condizioni. Tahiti, agosto 1892. A Daniel de Monfreid. Da un mese non ho più tela e non oso comperarne. Ho così pochi mezzi, proprio non posso. Ma studio con il cervello e con gli occhi, poi mi riposo un po’: non potrà farmi male. Trovarsi un po’ allo stato bruto ogni tanto è necessario alle persone attive come me. Sento che lei ha trovato una fonte di guadagno nell’attività artistica e me ne rallegro, perché questo non può farle che bene, costringendola alla decorazione. Ma diffidi del modellato. La vetrata semplice che attrae l’occhio con le sue divisioni di colori e di forme è ancora quello che c’è di meglio. In un certo senso, è musica. E dire che io ero nato per creare un’industria artistica, e non posso riuscirci. Le vetrate, l’arredamento, la ceramica, eccetera… ecco in fondo le mie attitudini, molto più di quanto non lo sia la pittura pro Âpriamente detta. […]  Tahiti, marzo 1899. Ad Andre Fontainas. Noi pittori, quelli condannati alla miseria, accettiamo senza lamentarci le preoccupazioni della vita materiale, ma ne sof Âfriamo in quanto costituiscono un ostacolo al lavoro. Quanto tempo perduto per andarci a cercare il pane quotidiano! Umili fatiche manuali, ateliers inadatti e mille altri impedimenti. Ne nasce non poco scoraggiamento, e quindi debolezza, tempesta, violenze. Tutte considerazioni che non la riguardano e di cui parlo soltanto perché possiamo tutti e due persuaderci che lei ha ragione nel segnalare tanti difetti. Violenza, monotonia di toni, colori arbitrari eccetera. Sì, ci sono, ci sono senz’altro. Eppure le ripetizioni di toni, di accordi monotoni nel senso mu Âsicale del colore, talvolta volute, non presentano forse analogie con certe melopee orientali cantate con voce stridula, accompa Âgnamento alle note vibranti con cui sono a contatto, che arricchiscono per opposizione? Beethoven ne fa uso frequente così credo di aver capito) per esempio nella Patetica; e così Delacroix, con i suoi accordi ripetuti di marrone e di violetti sordi, mantello scuro che suggerisce il dramma. Lei va spesso ai Louvre: guardi attentamente Cimabue pensando a quello che le dico. Pensi anche alla funzione musicale che il colore assumerà d’ora in avanti nella pittura moderna. Il colore, che e vibrazione come la musica, è in grado di cogliere quello che c’è di più generale e per ciò stesso più vago nella natura: la sua forza interiore. Qui, vicino alla mia capanna, nel gran silenzio, sogno ar Âmonie violente nei profumi naturali che mi inebriano. Delizia mista di non so quale orrore sacro che intuisco di fronte a ciò che è senza tempo. In passato, odore di gioia che avverto nel presente. Figure animalesche dalla rigidità statuaria: non so che di antico, di augusto, di religioso nel ritmo del loro gestire, della loro rara immobilità . Negli occhi che sognano, la super Âbie torbida di un enigma insondabile. Ed ecco la notte: tutto riposa. I miei occhi si chiudono per vedere senza capire il sogno nello spazio infinito che fugge da Âvanti a me, e ho la sensazione del cammino dolente delle mie speranze. Lodando certi quadri che io consideravo insignificanti, lei esclama: “Ah, se Gauguin fosse ancora come prima!”, ma io non voglio essere sempre come prima. “Nel vasto pannello che espone Gauguin, niente ci rivele Ârebbe il senso dell’allegoria se …”: il mio sogno non si lascia afferrare, non comporta nessuna allegoria. Poema musicale, fa a meno di libretto (citazione da Mallarmé). L’essenziale, in un’opera di conseguenza immateriale e superiore, consiste preci– -mente in “quello che non è espresso: ne risultano implicita Âmente linee senza colori o parole, non ne è materialmente co Âs’imito”. Anche questo sentito da Mallarmé, davanti ai miei quadri di Tahiti: “È straordinario che sia possibile mettere tanto mistero in tanto splendore”. Tornando a parlare del pannello: l’idolo vi è rappresentato non come una spiegazione letterale, ma come una statua, forse meno statua delle figure viventi. Ma anche meno viva, facendo parte nel mio sogno, davanti alla mia capanna, della natura intiera, che regna nella nostra anima primitiva, consolazione immaginaria delle nostre sofferenze per quanto esse comportano di vago e di incompreso di fronte al mistero della nostra origine e del nostro avvenire. E tutto questo canta dolorosamente nella mia anima e nella mia decorazione, insieme dipingendo e sognando, senza allegoria afferrabile al mio livello – forse una mancanza di edu Âcazione letteraria. Al risveglio, quando la mia opera è terminata, io mi dico, dico: da dove veniamo, che cosa siamo, dove andiamo? Meditazione che non fa più parte della tela, tradotta in lingua par Âlata del tutto a parte sul muro che inquadra, non titolo ma firma. Vede, è inutile che io capisca il valore delle parole â— astrat Âto o concreto â— nel dizionario: in pittura non le afferro più. Ho cercato di tradurre il mio sogno in una decorazione sugge Âstiva senza minimamente ricorrere a mezzi letterari, con tutta la semplicità di mestiere possibile, difficile fatica. Mi accu Âsi pure di essere stato incapace in questo senso, ma non di averlo tentato, consigliandomi di mutare scopo per attardarmi in altre idee già ammesse e consacrate. Puvis de Chavannes ne è un bell’esempio. Certo Puvis mi schiaccia con il suo genio e con l’esperienza che non ho; io l’ammiro quanto lei e più di lei, ma per ragioni diverse (scusi se glielo dico, ma con più conoscen Âza di causa). A ciascuno il suo tempo. Lo Stato ha ragione a non commissionarmi la decorazione di un edificio pubblico, perché tale decorazione urterebbe le idee della maggioranza, e io avrei torto ad accettarla, non avendo al Âtra alternativa che quella di barare, di mentire a me stesso. Alla mia mostra da Durand-Ruel, un giovanotto chiese a Degas di spiegargli i miei quadri, che non riusciva a capire. Degas sorridendo gli recitò una favola diLa Fontaine: “Ecco, vede” concluse: “Gauguin è il lupo magro senza collare”. Una guerra di quindici anni ci ha infine liberati della Scuo Âla, di questo ciarpame di ricette al di fuori delle quali non c’era salvezza, non c’era fama né denaro. Disegno, colore, compo Âsizione, sincerità davanti alla natura, e che so io: ancora ieri dei matematici (scoperte di Charles Henri) ci imponevano luci e colori immutabili. lì pericolo è passato. Sì, siamo liberi, eppure vedo brillare all’orizzonte un pericolo; di questo voglio parlarle. Questa lettera lunga e noiosa è stata in realtà scritta solo per que Âsto. La critica d’oggi, seria, piena di buone intenzioni ed eru Âdita, tende a imporci un metodo per pensare e per sognare, e allora vorrebbe dire un’altra schiavitù. Preoccupata di ciò che la concerne direttamente, del suo campo particolare, della let Âteratura, la critica finirebbe per perdere di vista quello che riguarda noi, cioè la pittura. Se ciò dovesse succedere, io vi direi altezzosamente la frase di Mallarmé: “Un critico! Un tizio che si immischia in cose che non lo riguardano”. (Tahiti, giugno 1899.) A Maurice Denis. […] Oggi la mia personalità di dieci anni fa non ha più alcun interesse. A quel tempo volevo osare tutto, liberare in qualche modo la nuova generazione e poi lavorare per ac Âquistare un po’ di talento. La prima parte del programma ha dato i suoi frutti: oggi è possibile osare tutto, e quel che più conta nessuno se ne stupisce. La seconda parte è risultata purtroppo meno felice. Poi io sono un pover’uomo qualunque, e allievo quasi di tutti nella vo Âstra esposizione; in mia assenza questo sarebbe anche troppo evi Âdente. Su questo argomento molto è stato scritto e tutti sanno che ho letteralmente derubato il mio maestro Emile Bernard in materia di pittura e scultura, tanto che, come lui stesso ha fatto stampare, non gliene è rimasto più nulla. Non creda che le trenta e più tele che gli avevo dato e che ha venduto a Vollard siano mie: sono uno spaventoso plagio di Bernard. […]
Tahiti, agosto 1899. Ad Andre Fontainas. […] Di me è stato detto che la mia arte era grossolana, arte da papuaso. Non so se avessero ragione di pensarlo e se in con Âseguenza avevano ragione di dirlo: comunque io non sarei ca Âpace di cambiare né in bene né in male. La mia opera, critico ben più temibile, dice e dirà se sono da condannare o da glorifi Âcare. Alcuni amici sostengono che ho un animo forte e virile, mentre altri, soprattutto più giovani, soffrono molto di queste critiche meschine e qualche volta si lasciano abbattere. Io li compiango. Puvis de Chavannes mi diceva un giorno, pro Âfondamente amareggiato dalla lettura di una critica meschina: “Ma che cosa hanno per non capire?” Eppure il quadro (si trattava del suo povero pescatore) è semplicissimo. Io gli ri Âsposi: “E agli altri sarà parlato in parabole, perché vedendo non vedano e udendo non odano”. Lei mi fa piacere, molto piacere, confessando di aver cre Âduto a torto che le mie composizioni, come quelle di Puvis de Ghavannes, partissero da un’idea a priori, da un’idea astratta che io cercavo di vivificare in una rappresentazione plastica … e che la mia lettera glielo ha in qualche modo spiegato. Non a torto, perché agisco secondo coscienza, secondo la mia natura intellettuale, agisco un po’ come la Bibbia, la cui dot Âtrina – soprattutto quella che riguarda il Cristo – è enunciata in una forma simbolica che presenta un duplice aspetto; una forma che in principio materializza l’Idea pura per renderla più sensibile, assumendo il procedimento del soprannaturalismo; è il senso letterale, superficiale, figurativo, misterioso delle para Âbole; e poi un secondo aspetto che da lo Spirito di essa. È il senso non più figurativo, ma figurato ed esplicito della parabola stessa. Non volendo spiegare la mia arte se non con i miei stessi quadri, mi sono trovato finora ad essere incompreso; e tuttavia un solo scrittore, e questo mi ha stupito perché praticamente non sapevo che si interessasse alla pittura (A. Delaroche, in un notevole articolo dal titolo: Dal punto di vista estetico), un solo scrittore sembra avermi capito in questa descrizione di un mio quadro. In un circo dalle tinte strane, come le onde di una bevan Âda diabolica o divina, non sapremmo dire, l’Acqua misteriosa sgorga per le labbra assetate dello Sconosciuto. Tahiti, luglio 1901. A Charles Morice. Fontainas, che pure ha sempre mostrato ottime disposi Âzioni nei miei confronti, mi ha rimproverato di essere stato incapace di far capire la mia idea, perché il titolo astratto [Dove andiamo? che cosa siamo? da dove veniamo?] non si manifestava affatto nel quadro in forme concrete, ecc… e mi citava Puvis de Ghavannes, sempre comprensibile, sempre in grado di spiegare le proprie idee. Puvis spiega la sua idea, sì, ma non la dipinge. È greco, mentre io sono un selvaggio, un lupo della foresta senza col Âlare. Puvis potrà intitolare un suo quadro Purezza e per spie Âgarlo dipingerà una vergine con un giglio in mano. Simbolo noto: e quindi lo si capisce. Gauguin, col titolo Purezza, dipin Âgerà un paesaggio con acque limpide, nessun insozzamento del Âl’uomo civile, forse un personaggio. Senza entrare in particolari, c’è tutto un mondo tra Puvis e me. Puvis come pittore è un letterato e non un uomo di let Âtere, mentre io non sono un letterato ma forse un uomo di lettere. Perché, davanti a un’opera, il critico vuole dei punti di confronto con le idee antiche e con altri autori? Non ritrovando quello che crede dovrebbe esserci, non capisce più e non è com Âmosso. Emozione prima di tutto, e poi comprensione! […] Molte persone autorevoli dicono che non so disegnare per Âché creo forme speciali. Ma quando si arriverà a capire che l’esecuzione, il disegno e il colore (lo Stile) devono essere in accordo con il poema? I miei nudi sono casti senza vestiti. A che cosa attribuirlo dunque, se non a certe forme e a certi co Âlori che si allontanano dalla realtà ? Atuana, settembre 1902. Ad André Fontainas. Se gliene capita l’occasione, esamini la pittura di Van Gogh prima e dopo il mio soggiorno con lui ad Arles. Van Gogh. influenzato dalle ricerche neo-impressioniste, procedeva sempre per grandi opposizioni di toni su un complementare giallo, sul violetto, ecc., mentre dopo, secondo i miei consigli e il mio inse Âgnamento, procedette in modo del tutto diverso. Dipinse dei soli gialli su fondo giallo, ecc., imparò l’orchestrazione di un tono puro mediante tutti i derivati di quel tono. Poi nel paesaggio tutto quel bagaglio abituale di oggetti di natura morta, neces Âsità di un tempo, fu sostituito da grandi accordi di colori com Âpatti che ricordano l’armonia totale: interesse secondario, di conseguenza, alla parte letteraria o se vuole esplicativa. Il suo disegno di necessità si modifica di conseguenza: certo è una questione di mestiere, ma comunque mestiere necessario. Ma poiché tutto ciò richiedeva in lui ricerche in accordo con la sua intelligenza e il suo temperamento focoso, la sua ori Âginalità e la sua personalità non fecero che avvantaggiarsene. Tutto questo sia detto tra noi, per segnalarvi che non voglio togliere niente a Van Gogh pur riservandomi la mia piccolissi Âma parte; e anche per segnalarle che il critico ha tutto da vedere e che deve capire che è soggetto a sbagliare pur essendo in ottima fede. Se con Van Gogh, una natura nobile, ho avuto di che lo Âdarmi, io, l’artista dalle labbra sigillate, lo stesso non è stato con molti in Bretagna, e soprattutto con il giovane Bernard. In quel periodo aveva 19 anni, intelligentissimo nell’adattarsi oggi al Medioevo, poi al neo-impressionismo, domani ai fiorentini, ecc. Dopo aver riconosciuto con Van Gogh, fra tutti quelli che erano in Bretagna, e con me, in una sua lettera che conservo con cura; dopo aver riconosciuto, dico, di aver bevuto alla mia sorgente, pensò bene in mia assenza di scrivere che io lo ave Âvo derubato di tutte le sue ricerche. Oggi eccolo diventato un uomo che espone delle belle cose, ne ringrazio il ciclo. La mia opera, dagli inizi fino a oggi – lo si può vedere -. è unitaria, con tutte le gradualità che comporta l’educazione di un artista: ma intorno a tutto ciò ho mantenuto il silenzio e continuerò così, persuaso che la verità non sorge dalle pole Âmiche ma dalle opere che si sono create. D’altro canto, la mia esistenza nel completo distacco dal mondo dimostra a sufficienza quanto poco cerchi la gloria fu Âgace: il mio piacere sta nel vedere il genio degli altri. E se le scrivo tutto questo è perché tengo alla sua stima e non vorrei che il mio manoscritto fosse da lei male inter Âpretato e che lei potesse scorgervi un’intenzione di far parlare di me; no… però mi prende una collera sorda quando vedo mal Âtrattare un uomo come Pissarro, e mi chiedo a chi toccherà domani. Quando maltrattano me, è diverso, la cosa non mi dispia Âce perché mi dico: “To’, forse sono qualcuno!”. Atuana, aprile 1903. A Charles Morice. […] L’opera di un uomo è la spiegazione dell’uomo stesso. E in essa sono due specie di bellezza, una che risulta dall’istinto e un’altra che verrà dallo studio. Indubbiamente la combinazione delle due, con la modificazione che porta con sé, da luogo a una grande e complicatissima ricchezza che il critico d’arte deve sforzarsi di scoprire. […] La grande scienza di Raffaello non mi sconcerta e non mi impedisce neppure per un at Âtimo di sentire e anzi di comprendere quell’elemento innato in lui che è l’istinto del bello. Raffaello è nato bello: tutto il re Âsto è costituito soltanto da variazioni. Abbiamo testé vissuto in arte un periodo di grandissimo smarrimento causato dalla risica, dalla chimica meccanica e dallo studio della natura. Gli artisti. che avevano perduto tutto della loro selvatichezza, che non avevano più istinto, e direi neppure più immaginazione, si sono smarriti in tutti i sentieri nella ricerca di elementi pro Âduttori che essi non avevano la forza di creare, e quindi agisco Âno ormai soltanto come masse disordinate e si sentono paurosi e come sperduti quando sono soli. Per questo non a tutti si può consigliare la solitudine, perché bisogna avere la forza di sop Âportarla e agire da soli. Tutto quello che ho imparato dagli altri mi è stato di impaccio. Perciò posso dire: nessuno mi ha insegnato niente. È anche vero però che so così poco! Ma preferisco questo poco che viene solo da me. E chissà che questo poco, sfruttato da altri, non possa diventare qualche cosa di grande. Quanti secoli per creare un’apparenza di movimento! Note sulla pittura La pittura è la più bella delle arti. In essa si riassumono tutte le sensazioni, di fronte a essa ciascuno può, seguendo la propria immaginazione, creare un romanzo, e con un solo sguardo sentirsi l’animo invaso dai ricordi più profondi: nes Âsuno sforzo di memoria, tutto è sintetizzato in un solo istante. – Arte completa, che riassume e completa tutte le altre. â— Co Âme la musica, agisce sull’anima attraverso i sensi, i toni ar Âmoniosi corrispondono alle armonie dei suoni; ma in pittura s: ottiene un’unità impossibile in musica, in cui gli accordi vengono gli uni dopo gli altri, per cui il giudizio si sottopone a una fatica incessante se vuole riunire la fine al principio. L’orecchio è insomma un senso inferiore all’occhio. L’udito può essere strumento di un solo suono alla volta, mentre la vista abbraccia tutto mentre semplifica a suo piacere. Come la letteratura, l’arte della pittura racconta ciò che vuole, con il vantaggio che il lettore conosce immediatamente il preludio, lo svolgimento e la conclusione. La letteratura e la musica richiedono uno sforzo di memoria per dare un giudi Âzio dell’insieme. […] È’ possibile sognare liberamente ascoltando musica come guardando un quadro: leggendo un libro si è invece schiavi del pensiero dell’autore. Lo scrittore è costretto a rivolgersi all’intelligenza prima di toccare il cuore, e Dio sa quanto una sensazione ragionata sia poco efficace. Solo la vista produce un impulso istantaneo. Ma i letterati sono i soli a esercitare la critica d’arte; es Âsi soli si difendono di fronte al pubblico. Le loro prefazioni sono sempre una difesa delle proprie opere, come se un’opera veramente buona non si difendesse da sola. Questi signori volteggiano sul mondo come i pipistrelli che sbattono le ali al crepuscolo e che appaiono in massa cupa in tutte le direzioni: animali inquieti della loro sorte, cui un corpo troppo pesante impedisce di salire in alto. Se si getta loro un fazzoletto pieno di sabbia, ci si buttano sopra stupida Âmente. Bisogna sentirli giudicare tutte le opere umane. Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e questo evidentemente è lusinghiero per l’uomo. Quest’opera è di mio gusto, e fatta esattamente come io l’avrei concepita. Tutta la critica d’arte sta in questo. Essere d’accordo con il pubblico, cercare un’opera a sua imma Âgine. Sì, signori letterati, siete incapaci di criticare un’opera d’arte e anche di criticare un libro, perché siete in partenza giudici corrotti. Avevate sin dall’inizio un’idea bell’e fatta, quel Âla del letterato, e pensate di essere troppo valenti per con Âsiderare il pensiero di un altro. […] Per giudicare un libro, occorrono intelligenza e dottrina. Per giudicare la pittura e la musica occorre, oltre all’intelligen Âza e alla scienza artistica, una sensibilità speciale per la natura; occorre, in una parola, essere nato artista, e pochi sono gli eletti tra i molti chiamati. Ogni idea può essere formulata, ma altrettanto non avviene per le sensazioni del cuore. Quanti sforzi per padroneggiare la paura, o un momento di entu Âsiasmo; non è forse l’amore spesso istantaneo e quasi sempre cieco? E dire che al pensiero si da nome di spirito, mentre gli istinti, i nervi, il cuore fanno parte della materia. Che ironia! Quanto esiste di più vago, indefinibile, vario, è proprio la materia. Il pensiero è schiavo delle sensazioni. Al di sopra dell’uomo sta la natura. La letteratura è il pensiero umano descritto dalla parola. Per quanto talento impieghiate nel raccontarmi come Otello venga, col cuore divorato dalla gelosia, a uccidere Desdemona, la mia anima non ne sarà mai così impressionata come se avessi visto Otello avanzarsi nella camera con la fronte oscurata dalla tempesta. Perciò, per rendere completa la vostra opera, avete bisogno del teatro. Potete descrivere con talento una tempesta, ma non arrive Ârete mai a darmene la sensazione. La musica strumentale ha, come i numeri, un’unità di base. Tutto il sistema musicale deriva da questo principio, e l’orec Âchio si è abituato a tutte le divisioni, ma è possibile scegliere un’altra base, e i toni e i semitoni e i quarti di tono si modificano di conseguenza. Uscendo da questi principi, i toni saranno in disaccordo. L’occhio è meno abituato dell’orecchio ad avvertire questi disaccordi, ma anche le suddivisioni sono più sottili e, per maggior complicazione, si hanno più unità . In uno strumento si parte da un tono; nella pittura si parte da più toni. Così si può cominciare dal nero e dividerlo fino al bianco – prima unità , la più facile e perciò la più usata e quindi la meglio capita. Ma prendiamo tante unità quanti sono i colori dell’arcobaleno, aggiungiamo quelle costituite dai co Âlori composti e arriveremo a una somma di unità abbastanza rispettabile. Questo accumulo di numeri, vero e proprio rom Âpicapo cinese, fa si che non ci sia da stupirsi se la scienza del colorista è così poco approfondita dai pittori, e così poco ca Âpita dal pubblico. Ma d’altro canto che ricchezza di mezzi per entrare in intimo contatto con la natura! Noi biasimiamo i colori puri giustapposti l’uno all’altro senza mescolarli. In questo riusciamo facilmente vincitori, con il potente aiuto della natura che non procede in modo diverso. Un verde accanto a un rosso non da un bruno rosso come risulterebbe dalla mescolanza dei due colori, ma due note vi Âbranti. Di fianco a questo rosso mettiamo del giallo cromo e avremo tre note che si arricchiscono l’una con l’altra e aumen Âtano l’intensità del primo tono, cioè del verde. Se, al posto del giallo, mettiamo un azzurro, ritroveremo tre toni diversi, ma vibranti gli uni grazie agli altri. Al posto dell’azzurro mettiamo un violetto, e ricadremo in un tono unico, ma composto, che entra nei rossi. Le combinazioni sono illimitate: la mescolanza di colori da un tono sporco; un colore solo è crudo e non esiste in natura. Essi esistono soltanto in un arcobaleno, ma la natura nella sua ricchezza ha avuto cura di mostrarceli gli uni accanto agli altri, in un ordine voluto e immutabile, come se ogni colore nascesse dall’altro. Ora, noi abbiamo mezzi inferiori a quelli di cui dispone la natura e ci condanniamo a privarci di tutti quelli che essa mette fra le nostre mani. Avremo forse mai tanta luce quanto la natura, tanto calore quanto il sole? Si è parlato di esagera Âzione, ma come è possibile essere esagerati, dato che si resta al di sotto della natura? Certo, se si vuoi considerare ogni lavoro privo di equilibrio, allora e in questo senso l’obiezione potrà essere valida. Ma farò notare in tal caso che, per quanto timida e pallida sia un’opera, essa verrà giudicata esagerata quando rivelerà un errore di armonia. Esiste dunque una scienza dell’armonia? Sì. E a questo proposito il senso del colorista è appunto l’ar Âmonia naturale. Come i cantanti, così anche i pittori talvolta stonano, il loro occhio non ha armonia. Più tardi si forma con lo studio tutto un metodo di armonia, a meno che non ci se ne preoccupi affatto, come avviene nelle accademie e, nella maggior parte dei casi, negli ateliers. In Âfatti lo studio della pittura è stato diviso in due categorie: pri Âma si impara a disegnare e poi a dipingere, che è quanto dire che si dovrà colorare entro un contorno già preparato, come nel caso di una statua che poi venga dipinta. Confesso che finora ho capito una cosa sola di questo eser Âcizio, e cioè che il colore è ormai soltanto un accessorio. Caro signore, deve disegnare bene, prima di dipingere. Questo ci si sente dire con tono dottorale, e del resto tutte le grandi sciocchezze si dicono sempre così. Le scarpe si calzano forse come i guanti? C’è qualcuno in grado di dimostrarmi che il disegno non deriva dal colore e vi Âceversa? Come prova, mi impegno a rimpicciolire o ingrandire lo stesso disegno secondo il colore con cui lo riempirò. Provate a disegnare nelle stesse esatte proporzioni una testa di Rembrandt e mettetevi il colore di Rubens, e vedrete che cosa in Âforme avrete ottenuto e che nello stesso tempo il colore sarà diventato disarmonico. Da un secolo a questa parte, si spendono grosse somme per la diffusione del disegno e si procura di accrescere la massa dei pittori senza ottenere alcun progresso. Quali sono i pittori che ammiriamo in questo momento? Tutti quelli che hanno criticato le scuole, tutti quelli che hanno tratto la loro scienza dall’osservazione personale della natura. Notes synthétiques,  1890 c. Prima e dopo […] Nella vita alcuni hanno uno scopo, altri non ne hanno. Da molto tempo mi rinfaccianola Virtù: la conosco ma non mi piace. La vita è appena una frazione di secondo: come si può in così poco tempo prepararsi un’eternità ! Vorrei essere un maiale: soltanto l’uomo può essere ridicolo. Una volta le bestie feroci ruggivano, oggi sono impagliate. Ieri ero del XIX secolo, oggi sono del XX e vi garantisco che né io né voi riusciremo a vedere il XXI. A forza di vivere si finisce per sognare una rivincita e bisogna accontentarsi del sogno. Ma il sogno è volato via, il piccione anche, questione di giocare. Io non sono di quelli che, comunque sia, parlano male della vita. Abbiamo sofferto, ma abbiamo anche goduto e, per quanto poco sia, è di questo che ci ricordiamo. Mi piacciono i filosofi, ma non troppo, quando mi annoiano e quando sono pedanti. Mi piacciono anche le donne, quando sono viziose e quando sono grasse: lo spirito in loro mi imbarazza, è uno spirito troppo spirituale per me. […] Non è che io sia insensibile alla bellezza, ma i miei sensi non ne vogliono sapere. Come si vede, non conosco l’amore e per dire: “Ti amo” dovrei sputare sangue. Questo per farvi capire che non sono poeta. Un poeta senza amore!!! […] Eccomi presentato al pubblico come un animale privo di qualsiasi sentimento, incapace di vendere la sua anima per una margherita. Non sono stato Werther e non sarò Faust. Chissà ? Forse i sifilitici e gli alcolizzati saranno gli uomini dell’avve Ânire. La morale mi ha tutta l’aria di seguire lo stesso cammino delle scienze e di tutto il resto verso una morale tutta nuova che sarà forse il contrario di quella di oggi. […] Ho sempre saputo, e tutto il mondo sa e saprà , che due più due fa quattro. È lungo il cammino dalla convenzione e dalla intuizione alla comprensione. Mi sottometto e dico come tutti gli altri: “Due più due fa quattro”… ma è una cosa che mi fa infuriare e mi disturba molto nei miei ragionamenti. Così, per esempio, voi che ammettete che due più due fa quattro come una cosa certa e che sarebbe impossibile che andasse diversa Âmente, perché ammettete che è Dio il creatore di tutte le cose? Anche per un momento solo Dio non avrebbe potuto fare diversamente? Bel tipo di Onnipotente! Avant et Après, 1902-03 c.
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