PITTURA: I MAESTRI: Giustizia per il vero Mafai17 Novembre 2015 di Cesare Brandi Roma, dicembre Contemporaneamente una mostra omaggio e una monografia su Mafai. Sono due anni che Mafai è scomparso, due anni nei quali il suo nome aveva finito per dileguarsi come l’acqua get tata sulla sabbia. Certo, dopo la morte, che dette luo go a un penoso spettacolo di accapar ramento politico da parte di chi aveva avuto non poca responsabilità nel pro gressivo deterioramento del morale dell’artista; dopo la morte, si videro retrospettive malfatte, mal collocate, si udirono lodi a traverso. Nulla che veramente aiutasse a mettere a fuoco la figura di un pittore che, tra Morandi e Burri, era stato il migliore degli italiani. Direi che nessun artista abbia paga to tanto caro i suoi errori, come Ma fai; e prima di tutto perché non furo no errori inevitabili ma errori volon tari, dovuti a uno sforzo di rinnova mento mal posto che gli chiedevano più gli altri di quanto non ne sentisse bisogno nel suo intimo. Mafai sapeva assai bene che da se stessi non si può uscire. Se non fosse che la sua era una natura, intimamente, tenacemen te contraddittoria: su una base prima ria, impacciata ma autentica, si so vrapponeva un’intelligenza, indifesa, non dialetizzata, che galleggiava come l’olio sul vino. Questa intelligenza grezza e generosa non si amalgamava mai al vino e neppure riusciva a pre servarlo in modo che non diventasse aceto. Così, era l’intelligenza a fuorviare Mafai. L’uomo restava semplice, sen suale, diretto, melanconico. Dava l’im pressione che il suo cammino fosse in tercalato da banchi di nebbia, da’ qua li di colpo uscisse ritrovando allora una visione ingenua come quella del l’occhio di un bambino. Così il com mercio abituale con lui presentava dei vuoti di aria improvvisi, ed era come se, standogli accanto, scomparisse di colpo. Restava, naturalmente, ma pre so in uno dei suoi banchi di nebbia. Quando ne uscirà di nuovo, era iner me: una parola, una critica, un giudi zio, un incitamento potevano subito fuorviarlo. Perché aveva larghe aper ture umane, perché sentiva il peso che un uomo, e tanto più un artista, si porta addosso per vivere con gli altri uomini: e questo peso non intendeva gettarlo via. Ma sua natura profonda era un’altra. Mafai era tutto viscere oscure, la sua capacità di attrarre e fissare durevolmente aspetti inediti delle cose usuali coincideva con la ca pacità di specchiarsi nelle cose. Tal ché, non meno dei suoi autoritratti, sono autoritratti i fiori secchi e le case demolite. Le cose, per ritrovarci- si, per ritrovarle, dovevano offrirglisi come un riflesso della propria immagi ne. I grandi nudi, del periodo più bello della sua pittura, sono tremuli d’ima castità disarmante anche se raffi gurino donne grasse viste dalle nati che. Né basta dire che è la stessa qua lità di pittura dei fiori secchi; sono fiori secchi, perché sono Mafai che si specchia in loro come nei fiori secchi. Ma per specchiarcisi, Mafai aveva bi sogno di questo oggetto riflettente, fosse un nudo o un fiore secco. Senza l’oggetto, senza questa presenza mate riale che gli fugava la nebbia e lo co stringeva a prenderne atto come di cosa emersa dal caos, Mafai non pote va rispecchiarsi solo in un colore, in una linea, in una forma geometrica. Se c’era un artista negato all’astratto, era Mafai. Fosse stato più giovane si sarebbe forse trovato una nuova via dell’informale, ma quando comparve l’informale, Mafai era già logorato e scosso da pulsioni contraddittorie, tanto politiche che artistiche, Le sue oscillazioni penosissime verso una pit tura semplificata, per andare incontro al neorealismo o al cubismo, e i ritor ni, quasi di nascosto, alle sue vedute e ai suoi fiori, magari smagliando il reti colo dei colpi di pennello, come se fe rocemente spennasse i suoi dipinti fa mosi, raccontano con estrema chiarez za, come un sismogramma, l’effetto di rompente che avevano su di lui le teo rie politiche e quelle artistiche. Riformato, semplificato, frantumato, si avvertiva, negli sparsi avanzi di quella che era stata un’immagine inte ra e aurorale, come un fremito resi duo, come quel moto convulso che, alla coda recisa di una lucertola, fa fare guizzi e contorcimenti quasi per riattaccarsi al tronco mutilato. Mafai forzò se stesso fino ad alterare la soa ve scelta cromatica che era riuscito a differenziarlo, lui impressionato tanto felicemente da Morandi, dalla rigorosa gamma morandiana. Alterava i toni, alzava i violetti, gli azzurri, i rossi. Ma anche forzati erano i rossi, i vio letti di Mafai. In quelle mentite spo glie si rintracciavano le sembianze che si era imparato ad amare: come nella voce in falsetto di una maschera si attende al varco il passaggio irre frenabile in cui si ravviserà una voce nota. Mi ricorderò sempre la pena che mi fece, quando andai l’ultima volta nel suo studio a Santa Cecilia in Trasteve re, in quello sconfortante falansterio, nudo come una caserma e squallido come una scuola elementare; lo trovai che rintracciava vecchi quadri, e me li mostrò. Accanto a quelle divagazio ni, chiamiamole così, con le cordicelle e i colori di fondo leggermente marez zati come i suoi antichi cieli romani. Mi voleva convincere che ci si trova va benissimo, in questi nuovi panni, che era stata una liberazione per lui e tante altre cose che si ripeteva e ripe teva agli altri per crederci, lui che all’inizio era stato così indipendente, da andare a cercarsi come punto di partenza, quando fece la pittura che conta, un punto di partenza che allora era ignorato e disprezzato, nel 1931-32, la pittura di Morandi. Poi l’angoscia di un’attualità che sembra sfuggire e a cui si corre dietro, rimanendo sem pre in coda. E lo studio era rimasto lo stesso, pur essendo ora un inerte stanzone: lo stesso, perché vi era lo stesso disordi ne, la stessa accozzaglia di roba assur da, come da un trovarobe, e cenci dap pertutto. E lui era rimasto lo stesso, nel suo fondo, povero Mafai. Ma lo spingevano all’astratto, e allora i com pagni lo dilaniavano, come l’avevano dilaniato prima, quando per venirgli incontro, aveva schematizzato le sue indimenticabili fantasie in forme sciatte e come ritagliate dalla carta colorata. Così quando usciva dal ban co di nebbia, invece della sua adorata Roma, dei fiori appassiti gettati dalla finestra sul lastrico, delle donne gras se, e materne, trovava il critico che lo prendeva per mano per portarlo fra gli astratti-concreti, la società di lusso del momento, e il compagno che gli faceva le boccacce perché aveva tradi to la realtà. Ora la monografia che gli ha dedica to Valentino Martinelli (ed. Editalia) rimette a posto certe cose che sono importanti a sapersi, soprattutto per gli inizi di Mafai, quando nel sodalizio con Scipione e la Raphael, sembrava – e per quanto tempo è stato scritto – che fosse lui a ricevere l’imbeccata dall’uno e dall’altra. Martinelli ha ritrovato delle opere datate, così chiaramente pre-scipionesche, che invertono il rapporto, anche se dopo, e Martinelli onestamente lo rileva, un riflusso di Scipione su Ma fai sia ammissibile. Ma se queste pre cisioni ristabiliscono l’iter storico dì Mafai e della cosiddetta scuola di via Cavour, è bene sempre ricordare che non è quello il periodo illustre di Ma fai; ché, se fosse rimasto a un tale stu dio, ben pochi lo ricorderebbero anco ra. Un primitivismo impacciato anche se c’è già il soggetto, anche se il codi ce si va rozzamente organizzandosi su una scelta di toni caldi e pastosi. Martinelli ci dà anche alcuni passi del diario e delle lettere, e sono passi molto caratterizzati, da’ quali, anche chi non l’ha conosciuto di persona, può estrarre il particolare accento che aveva la conversazione di Mafai, i suoi salti di umore, la bonomia roma nesca. Il libro, insomma, è accurato e utile, senza fasto celebrativo, e con una comprensibile indulgenza verso quegli ultimi vani tentativi di Mafai verso l’astratto e l’informale. La Mostra alla Nuova Pesa (Roma) risulta un utile commento al libro. Non dico per i giovani artisti che si occupano ora di tutt’altre faccende, alle prese con i corpi solidi e con le costruzioni a terra, ma per i giovani critici che potranno vedere tutta una serie di opere, ormai da rintracciarsi di casa in casa, poco essendo rappre sentato Mafai, seppure con cose egre gie, anche alla Galleria nazionale d’ar te moderna. Molto interessante è allora vedere alcune di quelle prime cose, come il Paesaggio dalla terrazza del 1928, i Tre pesci del ’29, gli Uomini oranti (addirittura da sbagliarsi con Scipio ne) del 1929. Il colore è fumoso e foca to, i cieli tenebrosi, di un romantici smo ingenuo. A non sapere che Mafai andò a Parigi solo nel 1930, già si di rebbe che avesse veduto Utrillo, Vlamink e soprattutto Derain. Anche nel le carni, come nell’Autoritratto del ’29, dal tono focato, con cui Derain in tendeva rifare la grande pittura vene ziana. Ma in fondo, gli incontri più favore voli della mostra sono i più inattesi, come quel bellissimo Modello del 1932, che, seppure non finito, è centrato in modo nuovo, agile, quasi sceneggiato, con quei cavalletti che si scaglionano in una profondità che non esiste, data e ritolta al tempo stesso. E il nudo è latteo, con ombre appena verdastre, come se fosse preparato a terra verde e gentilmente incipriato. Oppure, il gradevole, tenero Cestino del 1935, l’imponente Ritratto di Antonietta Ra phael, come una prima donna nel ruo lo drammatico di Medea o di Norma. O ancora i Garofani bianchi del 1936, in quel cornetto che ricorda tanto un quadro famoso di Morandi (che ne fece anche un’incisione). Ma qui. dove l’ispirazione morandiana è più scoper ta, la pittura lievita in un modo diver so; un colore quasi liquido e traspa rente, e come una nebbia che fluttui nell’aria, donde il bianco dei garofani è attutito, quasi spento. Tuttavia, delle pitture esposte, il Ri tratto di Ferzen, del 1943, è il quadro più imprevisto: c’è Goya, certo, ma con quale autorevolezza. E che bravu ra in quella camicia appena toccata dal pennello, sfilacciata di luce. Sono queste belle opere che si aprono, a chi le guarda, come una finestra. Giustizia verrà anche per il vero Mafai. Letto 1308 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||