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PITTURA: I MAESTRI: Parmigianino: Il geniale alchimista della bellezza manieristica

5 Aprile 2018

di Paola Rossi
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1980]

Benché Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, abbia avuto in sorte una breve vita terrena che limi ­tò a non più di un ventennio la sua attività artistica, l’originalità e l’alto livello qualitativo delle sue ope ­re, che rappresentano una rapida, intensa parabola di un’estrema coerenza stilistica, assunsero un ruolo di primaria importanza nell’ambito della cultura e del gusto manieristici.

Gli inizi del Parmigianino sono abbastanza facil ­mente delineabili nelle componenti formative rece ­pite e quasi subito riassorbite in quella che è la sua inconfondibile poetica. Un’eccezione è rappresenta ­ta dal problematico Battesimo di Cristo di Berlino-Est. Se, sulla falsariga del racconto vasariano e delle argomentazioni critiche del Freedberg (1950), lo si accetta come opera autografa del pittore sedi ­cenne, è questo l’unico dipinto della sua fase auro ­rale che lo rivela ancora trattenuto dalle remore di un provincialismo sintonizzato sui modi del Francia e che sarebbe per lo meno azzardato tentare di an ­corare a fonti locali più remote come talora è stato fatto dalla critica. Del Francia, come suggerisce il Freedberg, poteva interessare il Parmigianino quel ­la tendenza a idealizzare la forma che più tardi orienterà il Mazzola alla conoscenza dell’arte di Raffaello.

Solo due anni dovrebbero separare il Battesimo di Berlino dalle Nozze mistiche di santa Caterina ora a Bar ­di in cui il linguaggio dell’artista ha già trovato la propria connotazione abbandonando ogni remo ­ra provinciale legata alla modesta temperie culturale dell’ambiente parmense. In quest’ultimo la presen ­za del Correggio, a partire dalla fine del secondo de ­cennio del secolo, non poteva non essere apparsa a un giovane dall’acuta sensibilità come il Parmigiani ­no se non quale nuovo ‘verbo’, stimolante e aperto, sollecitandolo alla conoscenza â— ove già non l’aves ­se avuta negli anni precedenti â— di altre opere, spin ­gendolo magari, come ha ipotizzato il Freedberg. fino a Correggio dove dal 1515 era stata collocata in situ nella chiesa di San Francesco la pala ora nella Gemäldegalerie di Dresda. A partire da questo mo ­mento l’aggancio con l’Allegri è costante, verifica ­bile non solo in alcuni suggerimenti formali, ma an ­che nei disegni che con estrema coerenza documen ­tano durante l’intero corso della sua attività l’assi ­dua ricerca attraverso la quale l’artista veniva ela ­borando il suo stile. In questi primi anni, lavorando accanto al Correggio, nella stessa chiesa di San Gio ­vanni Evangelista, il Parmigianino trae disegni di ­rettamente, o fors’anche da studi fornitigli dall’Al ­legri stesso, dagli affreschi della cupola (inv. n. 2064 della National Gallery of Ireland di Dublino; inv. n. 435, verso, dell’Ashmolean Museum di Oxford; Popham, 1971, n. 64 e 330) e copia anche la Diana af ­frescata nella Camera della Badessa (inv. n. 10-45-4 recto, New York, Metropolitan Museum; Popham, 1971, n. 294).

Il momento degli affreschi di San Giovanni Evan ­gelista è certamente quello in cui il riferimento al Correggio è più scoperto: la sua concezione plasti ­co-spaziale, il suo illusionismo, l’esuberanza vitale dei suoi putti ‘tuffati’ tra le nuvole della cupola della stessa chiesa sono esperienze alle quali si collegano strettamente gli affreschi della quarta, della prima e della seconda cappella. Nello stesso momento è sintomatico l’accoglimen ­to di suggerimenti pordenoniani nel carnefice della Sant’Agata e nel San Secondo, un aspetto, questo, rivelatore di una tendenza di gusto volta a forzare gli esiti dell’illusionismo e del naturalismo correggesco.

La visione degli affreschi del Pordenone, nel cor ­so di un breve viaggio a Cremona â— che andrebbe così ad aggiungersi ai pochi spostamenti ipotizzati per questa prima fase formativa dell’artista â— fu l’oc ­casione di una nuova, significativa esperienza, peral ­tro subito accantonata. Nello stesso San Secondo la tensione drammatica, enfatica e quasi brutale, del ­l’immagine pordenoniana dell’affresco cremonese è filtrata in esiti di movimento fluido, che preludono a quelle eleganze compiutamente formulate, poco più tardi, negli affreschi di Fontanellato. In questi ultimi il significato della ‘scelta’ parmigianinesca si impone ormai in tutta la pregnante freschezza di un capolavoro giovanile. L’accostamento al mondo pordenoniano e le suggestioni accolte dall’Anselmi â— altra presenza ‘moderna’ pronta ­mente accusata dal Parmigianino ma che al pari del primo ebbe un peso soltanto occasionale â— vengono accantonate.

Quasi paradossalmente il nuovo, ovvio aggancio con il Correggio (Camera della Badessa) ne segna l’avvenuto distacco, ormai senza mezzi termini, in un atteggiamento di stile e di gusto in cui sono con ­tenuti in nuce gli esiti futuri. Inizia, infatti, già a Fon ­tanellato, come ha scritto il Pallucchini (1967-68), un processo di idealizzazione della forma sottil ­mente intellettualistica”. Ed è questa la ‘scelta’ che qualifica in termini del tutto nuovi il linguaggio parmigianinesco, ancor prima dell’incontro con il mondo romano di Raffaello e dei raffaelleschi che appare esserne, per così dire, la logica conseguenza. È la scelta di quella “vaghezza”, di quella “grazia” su cui, a partire dai contemporanei fino al secolo XIX, la critica ha posto l’accento, per lo più vedendo in tal senso nel Mazzola l’erede diretto del Correg ­go e quello di Raffaello. Si ripeteva così uno sconta ­to leit-motiv che scalfiva appena alla superficie il fatto stilistico, il quale solo alla luce di una più approfon ­dita conoscenza del manierismo poté essere valutato appieno nel suo vero significato evidenziandosi in tal modo come la grazia, di sapore ancora leonarde ­sco, e la dolcezza di certe immagini correggesche, che potevano esser state presenti al Mazzola, si ca ­richino di una ricercatezza e preziosità di accenti e si estenuino in eleganze estranee al naturalismo di tondo della visione dell’Allegri. In tal senso il rapporto con quest’ultimo può ben configurarsi quale riferimento costante al “maestro da superare”, co ­me significativamente suggerisce il Fagiolo Dell’Ar ­co (1970) il quale aggiunge anche che da parte del Parmigianino l’ “aggancio alle idee del Manierismo avviene più che per un moto positivo, per una scelta negativa”. L’affermazione mi pare soprattutto cal ­zante per gli inizi parmensi dell’artista, il quale però, più tardi, con il soggiorno romano, supera quella prima fase di manierismo, si potrebbe dire matu ­rato quasi d’istinto con personalissimo intuito e fer ­vore creativo di fronte agli esempi del Correggio, dell’Anselmi e del Pordenone, ulteriormente rime ­ditandola e aggiornandola al contatto diretto di una cultura che gli offriva la possibilità di una verifica ‘positiva’ della scelta iniziale. L’impatto avviene sen ­za scosse come rivelano le opere che senza soluzione di continuità segnano il trapasso tra il primo mo ­mento parmense e quello romano, a con ­ferma di una coerenza di sensibilità e di gusto che, dopo gli esordi parmensi, era logico lo indirizzasse ­ro verso Raffaello e la sua scuola piuttosto che ver ­so Michelangelo â— peraltro pure fonte di studio â— e l’attirassero verso l’arte del Rosso, presente lui pu ­re nella città papale nello stesso periodo. A Roma il Mazzola soprattutto tesaurizza una serie di espe ­rienze, che riemergeranno nella sua produzione pit ­torica anche ad anni di distanza, spesso subito affi ­dandole al disegno. Alcuni studi grafici di questo periodo ricalcano, con riprese più o meno puntua ­li, motivi tratti dalle Stanze, dalle Logge e dai Car ­toni. Di tali opere raffaellesche dovettero colpirlo le cadenze monumentali di ampio respiro â— forse studiate anche in relazione alla decorazione ad affre ­sco, prospettatagli e in seguito non più affidatagli, della Sala dei Pontefici in Vaticano â—, l’efficacia ica ­stica del metro solenne di certi gesti e di certe ele ­ganti positure. Soprattutto alla luce di tali esperien ­ze nasce la Visione di san Girolamo ora a Londra in cui il Mazzola per la prima volta imprime alle ri ­cercate desinenze manieristiche del suo linguaggio quella cadenza di respiro monumentale che si ritro ­verà ancora, in particolare, nelle Vergini affrescate nell’arcone della Steccata e nell’ultima pala di Casalmaggiore ora a Dresda. Contemporaneamente, nelle opere ‘in piccolo’ (a quelle a noi note riferibili al soggiorno romano van ­no aggiunti i “molti quadretti” ricordati dal Vasari come dipinti a Roma), i motivi di ascendenza raf ­faellesca appaiono tradotti in una resa pittorica sfat ­ta nella luce e nervosamente sprezzante con cui il Parmigianino continuava a perseguire quel proces ­so di astrazione formale che come lo aveva già por ­tato a ‘filtrare’ a suo modo la grazia correggesca ora lo portava a fare altrettanto con le soluzioni raffael ­lesche, peraltro anche a lui presenti nelle interpre-
tazioni manieristiche datene dalla scuola. Qua e là, infatti, si coglie nelle opere qualche riferimento a Giulio Romano o qualche citazione affine al gusto di Polidoro, come l’inserto del tempio classico nella Vergine col Bambino della collezione Seilern di Londra.

Ma tra le presenze di artisti contemporanei a Roma, senza dubbio quella del Rosso Fiorentino dovette essere particolarmente importante per il Mazzola. Il contatto con il fiorentino è documentato dalla co ­mune amicizia â— ricordata dal Vasari â— con Giovan ­ni Antonio Lappoli, artista aretino trasferitosi egli pure a Roma; dal legame con committenti comuni (Angelo Cesi per la cappella del quale, in Santa Ma ­ria della Pace, il Rosso aveva eseguito affreschi e il Parmigianino una Annunciazione poi perduta; e il Ba ­viera, editore di stampe, per cui lavorano entrambi) e, infine, dai disegni del Parmigianino per uno Spo ­salizio della Vergine inciso dal Caraglio (collezione De-vonshire di Chatsworth, n. 339; Pierpont Morgan Library, New York, nn. 146 b e 148; Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Napoli, n. 703; cfr. Popham, 1971, nn. 692, 305, 312, 290) che ricalcano il dipinto del Rosso dallo stesso tema eseguito nel 1523 per la chiesa fiorentina di San Lorenzo, opera che il Parmigianino avrebbe potuto vedere in un suo eventuale passaggio da Firenze, ipotizzabile, ma non indispensabile dato che, come suppone il Freedberg, tali disegni potrebbero anche essere stati tratti da studi per il dipinto forniti al Mazzola dallo stesso Rosso. Nell’arte di quest’ultimo, giunta in tale momento a un esito come il Cristo morto ora al Museum of Fine Arts di Boston, il Parmigianino dovette trovare in certo qual modo un’ulteriore conferma della propria scelta di un nuovo linguaggio che nelle deformazioni tra il bizzarro e l’allucinato del fiorentino non poteva non avvertire una certa affinità di espressione e di sensibilità e uno stimolo verso l’astrazione formale. Il sorriso lievemente enigmatico del secondo angelo a sinistra del dipinto di Boston sembra essere riecheggiato da quello dell’angelo della pala bolognese: e sono entrambe in ogni caso due immagini nate sulla falsariga di una tensione di un’ambiguità manieristica, che il Parmigianino verrà sempre più rivestendo di forme di raffinata eleganza.

In tal senso il periodo bolognese è tutto costellato d capolavori in cui il nuovo ideale stilistico trova compiuta formulazione nella gamma delle diverse ani colazioni espressive: dalla pala di San Petronio, nella quale l’iperbole manieristica della figura del santo che domina il dipinto si unisce all’enfasi sentimentale     riassunta   nell’acuta     tensione   delle sguardo (quella stessa che si ritrova nella Conversioni di san Paolo di Vienna, dove la fantasia si ecci ­ta nel caldo virtuosismo di una straordinaria inven ­zione), alla pala ora alla Pinacoteca di Bologna, dove la preziosa, rarefatta atmosfera sembra de ­purare anche i sentimenti da ogni scoria esistenziale, fino alla Madonna della rosa di Dresda, imma ­gine emblematica di quel nuovo ideale di bellezza che rappresenta la creazione più geniale dell’artista. Che questa fosse la vera novità e la vera grandezza dell’arte del Parmigianino,   lo rilevava finalmente, dopo i tanti misconoscimenti della critica preceden ­te, la Fröhlich-Bum (1921), la quale però nel con ­tempo, ravvisando nella rappresentazione della bel ­lezza stessa da parte del Parmigianino una sorta di supremo perfezionamento di quella raffaellesca e ponendo entrambe al culmine del “pieno Rinasci ­mento” (si veda l’Itinerario critico), sembra restringere implicitamente la portata di tale novità e svisare la consecutio storica dei fatti artistici. L’idealizzazione   formale parmigianinesca,   proietta ­ta sempre più verso l’astrazione, assume un signifi ­cato   profondamente   manieristico.     Non perfeziona l’ideale di bellezza raffaellesco, già alterato nelle luci ­de deformazioni dei canoni proporzionali e prospet ­tici, ma lo stravolge, sia pure sul filo di una sempre più raffinata e sottile eleganza, anche sul piano dei contenuti   facendone   inesorabilmente crollare pro ­prio quella serena e pacata armonia che ne aveva costituito la quintessenza. Come ha scritto lo Hauser (1965) il Parmigianino “apre una nuova via verso il regno autonomo della bellezza, cui già il Rinasci ­mento aveva trovato l’accesso”. In tale “regno auto ­nomo della bellezza” una nuova armonia si distilla quasi paradossalmente dalle deformazioni prospet-tiche, dal lento fluire delle iperboli, dai ricercati in ­dugi calligrafici, dalle raffinate e spesso astratte so ­luzioni cromatiche e luminose, caricandosi di ten ­sione, di ambiguità, di sottili allusioni. Così la Ma ­donna della rosa si vena di “distillata sensua ­lità” (Freedberg), quella dal collo lungo si raggela nella propria affascinante perfezione di ido ­lo, il Cupido di Vienna sorride un po’ ammic ­cante, ed è lo stesso sorriso, che vuole sottintendere piuttosto che esprimere, di alcuni ritratti come l’Au ­toritratto di Vienna e la cosiddetta Schiava turca di Parma.

Spiccano, nei ritratti, le vivaci caratterizzazioni dei modelli di cui, con penetrante individuazione, vien colta la forza dello sguardo, ora di una fissità ta ­gliente, come nel Collezionista di Londra, ora di una vivace mobilità, come nel Galeazzo Sanvitale di Napoli, ora malinconicamente teso, come nel Giovinetto di Hampton Court. Anche nei ri ­tratti si riflettono gli esiti di una progressiva astra ­zione formale, ma l’aggancio con la realtà non si subordina mai completamente, nella ritrattistica tarda, all’eleganza e alla politezza della forma che pertanto non ne costituisce, come accade invece nel Bronzino, la gelida, impeccabile scorza di un gla ­ciale distacco. Nella ritrattistica del Parmigianino realtà e astrazione, i due termini di una dialettica ti ­picamente manieristica, spesso si esaltano a vicen ­da. Forzature e deformazioni, nel momento stesso in cui alterano la parvenza naturalistica del ritratto, ne fanno emergere con scoperta evidenza la realtà più intima di una sottesa inquietudine o di un timido sorriso, che non alienano mai del tutto il proprio metro esistenziale.

Anche i ritratti del Parmigianino, fin dagli inizi della sua attività, rivelano un loro spiccato accento origi ­nale. Non è facile verificare, in tale campo della sua produzione, quali siano stati, di volta in volta, i sug ­gerimenti e gli stimoli recepiti nelle varie fasi del suo svolgimento artistico, e soprattutto in quello iniziale venendo ovviamente a mancare le connessioni con il Correggio, la cui attività in tale campo al lo stato attuale della nostra conoscenza critica risulta estremamente esigua. Di fronte a ritratti giovanili che già si distinguono in forza della lo ­ro alta qualità, tali il Collezionista di Londra e il Galeazzo Sanvitale di Napoli, non mi pare neppure possa acquistare peso il riferimento â— cui accenna, sia pure in senso lato, il Freedberg â— a una diffusa tipologia ritrattistica legata a modelli vene ­ziani del decennio 1510-20, mentre, semmai, si po ­trebbe pensare a qualche suggestione nordica (ad esempio â— come suggeriva il Quintavalle [1948] per i ritratto napoletano â— düreriana), connessa con l’ampia diffusione di stampe nel centro emiliano ma priva peraltro di un particolare significato. Certo nei periodo romano la conoscenza dell’opera di Raffaello dovette essere importante anche per quel che riguarda la ritrattistica; i modelli raffaelleschi, in cui si equilibrano impeccabilmente idealizzazione e pal ­pito di vita, rappresentatività di rango e calda uma ­nità, serena bellezza e affiorare pacato del sentimen ­to, non potevano non costituire un esempio stimo ­lante per il Parmigianino, pronto però a distillarne gli esiti più ricercati alterandone, quasi in un giuoco di sfumature sottili e impercettibili, il significato espressivo con una diversa sensibilità di gusto e di intenzione artistica. È probabile poi che nel momento romano, come ipotizza il Freedberg, il Parmigiani ­no abbia tenuto presente anche l’esempio della ri ­trattistica di Sebastiano del Piombo, rintracciabile in un ritratto come quello del Cybo, ma con lo stesso peso, direi occasionale, delle possibili sugge ­stioni nordiche sul ritratto del Sanvitale. La ritrattistica del Mazzola si presenta spesso come la parte più problematica della sua arte sia per la collocazione cronologica, sia per alcune difficoltà attributive sulla cui soluzione la critica non si tro ­va concorde. Probabilmente lo stesso insopprimibile legame che ogni ritratto presuppone con un modello e con determinate circostanze esterne di committenza, attenua quella cristallina e irreversi ­bile coerenza che caratterizza nelle altre opere il di ­panarsi del linguaggio parmigianinesco. Ne rivela qualche traccia di una discontinuità che non emerge invece nella rimanente produzione pittorica dell’artista costantemente sottesa â— non bisogna dimenti ­carlo â— dall’inesauribile travaglio grafico in cui si decanta quello sperimentalismo che, come ha recentemente sottolineato il Fagiolo Dell’Arco in relazio ­ne anche al legame dell’artista con l’alchimia, è uno degli aspetti della sua arte e â— aggiungo â— pur sempre un riflesso dell’inquietudine e della sensibilità del Manierismo. In tal senso, se troppo azzardata e restrittiva appare la proposta del Fagiolo Dell’Ar ­co di sostituire la nozione di ‘sperimentalismo’ a quella di ‘manierismo’, ‘categoria’ che non soddisfa nel “caso complicato del Parmigianino”, biso ­gna pur riconoscere che, come osserva lo stesso stu ­dioso, l’arte del Mazzola è tutta volta alla ricerca ‘dialettica’ della perfezione. Tanto più, infatti, l’arti ­ca vi attinge, quanto più stravolge quei canoni di se ­reno equilibrio, di proporzione, di armonia che ne avevano costituito l’essenza ‘rinascimentale’ codificandoli in una nuova langue che altro non è se non quella del Manierismo. L’artista ne caratterizzò inconfondibilmente l'”aspetto decorativo” (Freedberg) che è una delle componenti del Manierismo stesso: il fascino e la grandezza della sua arte, che in questo senso si può ben dire faccia di lui un ‘Raffaello manierista’, sono riposti in quella specie di impeccabile compromesso tra eleganza formale e pacata introversione sfumata nelle note più sottili del sentimento bilicate in una sorta di capzioso equi ­librio che costituisce il raggiungimento più alto della poetica del Parmigianino. Se questo, in quanto tale. fu irrepetibile, la connotazione che la sua arte assun ­se nell’ambito del Manierismo fruttificherà, soprat ­tutto attraverso la conoscenza e la diffusione della sua grafica (stampe e disegni), con forza stimolante e pro ­pulsiva sia in Italia (facendo presa anche in un’area artistica particolare come il Veneto) che in Europa.

Giugno 1979

 

 


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