PITTURA: I MAESTRI: Primo Conti 191330 Gennaio 2018 di Aldo Palazzeschi Nel mese di novembre dell’anno 1913 venne inaugurata in Firenze un’esposizione di pittura fu turista. Non si sarebbe potuto immaginare pubblico meno pre parato, più refrattario e ostile in modo assoluto per il fatto essere ancorato a forme di un’epoca luminosissima e di. universalmente riconosciuta grandezza, ritenute inamovibili nell’eternità, e divenute col volgere dei secoli, e per l’eccesso dell’uso, formule logore, consunte, vuote d’ogni significato artistico e di poesia. E nonostante che fosse pas sata, in Toscana precisamente, l’eroica pattuglia dei macchiaioli rimasti sconosciuti al pubbli co fiorentino e ritenuti dai cosiddetti competenti di allora dei pittorastri che producevano indecifrabili abbozzi non essendo capaci di finire il quadro. Tanto che si poteva trovare ancora in quell’anno, presso qualche rigattiere e per poche diecine di lire, un quadro di Giovanni Fattori o di altro pittore del suo tempo. E proni, parlo sempre di competenti qualificati, davanti a qualche trombonata accademica di grosso cali bro, che ogni tanto veniva fuo ri a miracol mostrare e che aveva solamente il volume in comune con la grandezza dell’an tichità e nulla coi valori e i problemi pittorici dell’ora pre sente. Dell’oramai concluso movimento francese durante il secolo appena trascorso, come già quello toscano più modesto e degli altri paesi d’Europa generalmente nemmeno la puzza. Non crediate che quel pubblico per il quale in fatto di arti figurative pareva essersi fermata la storia e con la storia la vita, fosse poi un frequentatore assiduo e appassionato della Galleria degli Uffizi come della Palatina e dei molti serbatoi trentini della specie, neanche per idea, ma per avere visto dall’infanzia quei capolavori riprodotti sulla vetrina del fotografo e su milioni di car toline illustrate, per avere a capoletto una Madonna di Raf faello senza conoscerne l’originale, e più ancora per vedere quo tidianamente persone che af frontavano lunghi viaggi e spendevano fior di quattrini, beati loro, per poterli vedere, erasi formata su quelli un’incrostazione di rettorica intangibile e impenetrabile, che rappresentava per ognuno il dovuto omaggio alla propria persona e una personale benemerenza. Senza contare che da alcuni mesi Firenze era diventata il quartiere generale del futurismo per opera di una certa rivista della quale solo la parte meno placidamen te addormentata e inconsciamente desiderosa di risveglio, erasi accorta e s’interessava seguendone le polemiche filosofico-letterarie con sapore di scandalo, ma al tempo stesso di una pun gente curiosità, e in un atteg giamento tutt’altro che amichevole per parte della maggioranza. Portati sul fatto più facile ed immediato dell’arte figurativa non ci fu cittadino che non cre dendo alle voci in circolazione non volesse rendersi conto per sonalmente di una tale ignomi nia, e non credendo ai propri occhi dopo averla vista. La radiosa e irradiante capitale del Magnifico Lorenzo era divenuta fra le più sonnacchio se città di provincia, tagliata fuori dalle competizioni e le scoperte culturali ed artistiche del proprio tempo e, quello che è peggio, paga e sicura del fatto suo come non altra. Si capisce come in un ambiente di questo formato a un certo momento debba scoppia re una bomba, che infatti scop piò e precisamente in un appar tamentino di fortuna al piano terra di una casa nella popolare via Cavour fra il palazzo di Co simo e la Scuola di San Marco, e nel quale venne disposta la prima testimonianza di una nuo va pittura, destinata ad un suc cesso clamorosissimo ben inte so alla rovescia. In quell’ambiente, assai ri stretto, il pubblico si assiepa va dalla mattina alla sera ab bandonandosi alla più incomposta ilarità; taluno coprendosi con la mano per pudore la boc ca, talaltro invece, ratteneva le risate con uno sforzo supremo per esplodere non appena fuori della porta quasi uscisse da un baraccone della fiera dopo aver visto dentro specchi concavi o convessi la propria immagine nelle più comiche deformazioni riprodotta, e stimolando nel modo più irresistibile l’ignaro passante a entrare per godersi la sua parte di allegria. E altro infine che scrutava accigliato, insolente, cattivo, offeso, in capace di un barlume di sorri so che non fosse avvelenato e che gli usciva di color verde dal la bocca. Sentendosi muovere la terra sotto i piedi esprimeva il suo rancore col più feroce di sprezzo. Per tutto il tempo che l’espo sizione rimase aperta vi capita va quasi ogni sera un giovinet to che portava ancora i panta loni corti, piuttosto esile e pal lido; aveva tredici anni ma ne poteva dimostrare piuttosto do dici che quattordici; e il quale a poco a poco aveva fatto co noscenza coi vari artisti ed ami ci del gruppo e discutendo con loro sui problemi della pittura in generale e più particolar mente di quelli che la anima vano ed agitavano in quel dato momento: faceva pensare a Ge sù quando discuteva fra i dot tori nel Tempio, e lasciando tut ti in atto di sospensione molto naturale da registrarsi nel clima che abbiamo descritto. Di Boc cioni soprattutti si dimostrava interessato e giustamente, la personalità più forte del grup po artistico primitivo, e quello che possedeva un temperamen to da novatore genuino. E me scolandosi a quel pubblico in baldoria, serio, tranquillo, cer cando di spiegare il meglio che poteva, cosa ardua per un adul to, le ragioni che avevano por tato a risultati di quella spe cie sia davanti al dinamico ci clista o La Materia di Boccio ni, come davanti alla sintesi di un paesaggio d’inverno di Sof fici e alla Galleria di Milano di Carrà. E quel pubblico, che davanti agli artisti truffatori e bari non si peritava a ridere e sghignazzare, ignorando la più elementare regola dell’arte che allorquando l’artista bara o truf fa la sola ed unica vittima è lui stesso, posto di fronte alla innocenza, la parola di un bam bino aveva la forza di congela re il riso su molte labbra. Tan to che al momento della chiusura Giovanni Papini regalò a quel giovinetto, quale ricordo, la riproduzione di un quadro con questa dedica « al più gio vane e più intelligente visitato re dell’esposizione futurista ». E siccome il più intelligente visitatore di quella mostra fu il pittore tredicenne Primo Conti, ebbi anch’io il piacere di conoscerlo e di parlare con lui e di essere invitato a visitare il suo studio nella via dei Della Robbia. E il ricordo di quel ragazzino che in pantaloncini corti venne ad aprirmi la porta per mostrarmi la sua opera incise nella memoria un’immagine incancellabile e vagamente misteriosa, venata di una indefinibile malinconia di fronte a un destino che già si annunziava di sempre giovane senza avere conosciuto la giovinezza. Primo Conti mi mostrava ritratti, nature morte e autoritratti nei quali l’artista pareva vedersi scevro da qualsiasi segno di giovanile giocondità, quasi volendo bilanciare la precoce maturità della mente sull’immaturità della persona, e dimostrando fino da allora questa apertura sicura verso i nuovissimi problemi dell’arte figurativa, e che formavano l’ambizione e l’ardore di quella giovane schiera alla conquista di nuove, espressioni e di una nuova forma. E fino da allora, pure combattendo anche lui quella battaglia interiore col passa to che sull’artista italiano in combe con una forza tirannica e non soltanto per la grande ope ra ma ancor più per quella dei suoi scaltri e non sempre di sinteressati custodi, arbitri del portafoglio borghese che lasce ranno intravvedere come una fi sarmonica dalla voce incantatrice e l’apertura illimitata, sem pre pronti ad uccidere il bue grasso per il ritorno del figliol prodigo alla casa paterna, e ad inghiottirlo affettuosamente fra le loro braccia. E laddove l’aspirazione di una espressione nuova non era so stenuta da quella fede che può animare soltanto una forza na tiva, ma rappresentò uno sforzo della volontà, rimarrà facile ar retrando sopra una posizione più confacente, comoda e di screta, in qualità di artista com plementare operarvi magari onorevolmente e con sincerità pure sapendo che la storia non passerà di lì per la ragione sem plicissima che di lì è già passata e indietro non torna. E dalla nuova giacitura guarderà poi dall’alto quelle sue prime pratiche e sorridendo quasi per farsi perdonare di una giovanile leggerezza che lo aveva portato a cedere ad una moda fallace e passeggera; ma la vera leg gerezza giovanile fu quella di credersi chiamato ad un compi to più elevato della propria sta tura; e pronunzierà la parola moda con un sorriso di supe riorità, quasiché Giotto, Raf faello o Cézanne non abbiano rappresentato anch’essi al loro tempo, una moda e quanto mai diffusa. Primo Conti non rinnega né tanto meno sorride della sua opera giovanile che in piena ma turità riafferra per agitarla giovalmente come una fiaccola con sicurezza e baldanza, per quan to in età matura non è rasse gnato a portare una lanterna, confermando il vaticino di quelli che lo amarono la pri ma volta.
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