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PITTURA: I MAESTRI: Rousseau il Doganiere: Un fotografo del surreale

23 Giugno 2012

di   Giovanni Artieri
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1969]

Biografia e opera si confondono, nella vita di Henri Rousseau. Galleggiano entrambe in un clima di fer ­ma irrealtà e di fantasia divenuta solida forma. La stessa natura dei grandi ‘dubbi’, delle fondamentali ‘incertezze’ della sua esistenza reale, è intarsiata di larghe venature di leggenda, di miti ritornanti. Per intenderlo, il Doganiere, è meglio ridursi alla sua semplicità; e chi pensa per idee semplici può vivere nell’immaginazione e scambiarla per ricordo. In real ­tà egli ‘ricorda’ i suoi stessi sogni. Bisogna cercare in questa condizione dello spirito di Henri la chiave del ­le sue grandi ‘bugie’, particolarmente quella messi ­cana. La critica delle date mostra agevolmente come il Doganiere non potette partecipare alla spedizione francese del 1860-62 al Messico.

Del resto, i paesaggi tropicali dei suoi quadri non esistono al Messico, paese di alta montagna, pullu ­lante di giganteschi vulcani, arido e d’un carattere grandioso. Se Rousseau lo avesse visto non lo avrebbe davvero tradotto negli intrichi di fogliame delle ‘fo ­reste’, così come si trovano nel Sogno e negli altri grandi ‘pezzi’ esotici. Né il posteriore ricordo pitto ­rico sarebbe rimasto inerte alle sollecitazioni degli spet ­tacoli visti: le piramidi azteche di Tehotihuacan, i grandiosi orizzonti di nuvole barocche, sulle architet ­ture del barocco coloniale spagnolo di cui è cosparso il paese.

Il viaggio oltremare, la guerra e la vita di quella remota parte del mondo formarono solamente un ca ­pitolo della propria biografia fantastica, ch’egli sosti ­tuiva ai meschini materiali borghesi dell’esistenza quo ­tidiana. Uhde dice, non senza qualche grado di mio ­pia: “Le bugie che inventava erano ridicole e tristi insieme”.

Rousseau perveniva alla pittura dal fondo delle sue notti di guardia alla barriera daziaria, dalla noia e dall’imitazione fertilizzata dal miracoloso dono di una tecnica minuziosa e naturalmente raffinata.

È il caso di altri istintivi celebri; è il caso, per stare in Italia, di Vincenzo Gemito che ripeteva, senza saperlo, dopo duemila anni, la finezza classica dello scultore del Fauno danzante o del Narciso di Ercolano. Era in Rousseau qualcosa di una prodigiosa merlettaia di Bruges o di Burano, per il gusto decora ­tivo degli sfondi di cielo ‘traforato’ dai ricami di fo ­gliame o di nuda ramaglia. I suoi quadri (tutti i maggiori e più significanti) appaiono anche come immense pagine di un fantastico erbario. Per lavorare le foglie s’era costruito un metodo. Andava a cercarne in giro, per boschi e giardini, quante più potesse, di forme e varietà diverse. Ne portava rami interi nello studio, li denudava, ponendosene le fronde dinanzi. Poi le so ­vrapponeva, con pazienza infinita, una per una, sulla tela, copiandole minutamente.

In questa trasposizione gioca â— come s’è detto â— la memoria di altre foglie ‘viste’ e ‘ricordate’. Guar ­dava attentamente ogni sorta di illustrazioni; dovette soffermarsi anche su quelle di un libro famosissimo in quegli anni, Il mondo prima della creazione dell’uo ­mo, dell’astronomo e volgarizzatore Camille Flammarion. La ‘foresta’ di Rousseau contiene, infatti, li-forme assurde delle araucarie e liane giganti apparse nelle epoche geologiche. La sua natura vegetale non è quella del Messico, ma d’un’età ancora priva di pre ­senze umane. D’altronde, se avesse ricevuto diretta ­mente e dal vero un’impressione così potente come quella della foresta equatoriale, non l’avrebbe lasciata dormire nella sua coscienza per tanti anni. Henri era di natura vigile alle sue proprie reazioni (si ‘copiava1 dall’interno, oserei dire); non si può concedergli una dimenticanza simile. Che pensasse costantemente alla pittura e ai quadri, a ciò che sognava di dipingere o a quel che aveva dipinto, lo dice l’abitudine sua di te ­nere accanto al letto colori e matite, per annotare, appuntare i ricordi ‘visivi’ da sveglio o in sogno. Ad Apollinaire diceva: “Tu comprends, quand je me réveille, je peux faire risette à mes tableaux”.

Nel 1907 andò ad abitare in una stanza della rue Perrel, nel quartiere di Plaisance. Dipingeva l’lncantatnce di serpenti. Era amico di molti pittori ‘pro ­fessionisti’ di maggior fama e innamorato â— si disse – di una modella polacca da lui chiamata Yadwigha, un nome â— forse â— inventato per amore dell’esotico. È la donna ritratta nella positura della Maja desnuda di Goya e dell’Olympia di Manet, distesa su un divano nel mezzo della foresta immaginata nel qua ­dro Il Sogno. È un tipo chiaramente slavo, lunghe trecce, mento sfuggente, corpo magnifico. Henri do ­veva esserne affascinato. La dipinse anche, sempre nuda, all’impiedi nel quadro Eva.

Un altro grande amico suo era Queval, un for ­matore in gesso, qualcosa meno di uno scultore. Abi ­tava al piano di sotto e certamente divideva pasti e silenzi col Doganiere. Saliva alla sua porta (vi si leg ­geva su una targhetta: “Cours de diction, musique, peinture et solfège”), bussava. Nel vasto ambiente, do ­minavano, senza cornici, alcuni quadri maggiori: Le nozze in campagna; il grande ritratto presunto di Clémence, la prima moglie; La zingara dormiente, offer ­to in vendita nel 1897 al municipio della natia città di Laval e rifiutato. In un angolo si vedeva, appeso, un violino. In quello spazio non avveniva nulla, tran ­ne il misterioso nascere di quelle pitture.

Rousseau non inclinava alla politica, né alla pole ­mica. Pensava per idee semplicissime. Aveva dipinto la guerra e perciò â— diceva â— per impedirla la pros ­sima volta sarebbe bastato mandare la madre di un soldato da un “re” a consigliare di vietarla. Nel fio ­rire trionfante della laicità, della moda positivista, egli celebrava l’unico culto, se così può dirsi, della sua vita suonando dinanzi al ritratto della prima moglie.

Sua ambizione somma era di passare per un Vero’ pittore. Quando cominciarono a scoprire il valore dei suoi quadri, pretese da Vollard, per il quale lavorava, un compenso giornaliero di venti franchi pagabile an ­che la domenica e le feste. La considerazione dei suoi amici, compreso Apollinaire, “aveva” dice Uhde “sempre un tono leggermente comico, conteneva una certa degnazione e mirava a indispettire i pittori di professione”.

Mandava dal 1886 al Salon des Indépendants, ma i suoi quadri ottenevano soltanto un successo di ilarità. Molti critici di avanguardia li trovavano ridicolmente passatisti e accademici; i critici ortodossi inaccettabilmente rivoluzionari.

Soltanto alla svolta del secolo si avvertì, senza nemmeno molto capirla, l’essenza di quella pittura. Sono scrittori e poeti â— Apollinaire, Jarry, Jacob â— a cer ­care di sorprenderne il mistero. L’attribuiscono a “un primitivo moderno”, le sorridono per la sua “igno ­ranza”, la gratificano d’una strana qualificazione: “adamismo”. Come s’egli, il Doganiere, dipingesse armato della “ingenuità di Adamo, prima del pomo”. ” Questa produzione puerile ” dice Thomas Craven ” è una disgrazia per l’arte; essa non ha diritto all’atten ­zione degli adulti e non ha maggiori diritti di essere considerata il balbettio di un fanciullo, che è â— an ­ch’esso â— pura espressione”. E più oltre (in Modern Art, Cubes, and Cones): “Rousseau non ha nulla da offrire all’intelligenza: la sua arte come sorgente di co ­noscenza è sterile; e come fonte di piacevoli sensazioni si esaurisce rapidamente. Egli ha il fascino di un vio ­linista cieco che suoni dolcemente a orecchio; o di un vecchio sprovveduto che cerchi di imitare il gar ­rito musicale di un bimbo”.

Degas, Odilon Redon, Toulouse-Lautrec, Pissarro non ci hanno tramandato i loro giudizi critici sul Do ­ganiere. Nell’88 un critico dimenticato, Gustave Coquiot lo trovava “peintre naturaliste qui s’élève parfois au beau style classique”; ch’è giudizio meno fuori sen ­so di quanto appaia.

Pochi s’avvedevano della rivoluzione alla quale, nell’estremo decomporsi dell’impressionismo, perveni ­va il Doganiere. Pochi coglievano il significato di quel ­la pittura così stupendamente ‘sbagliata’: tutta piatta, frontale, collocata sotto il cristallo d’una campana invisibile, nel vuoto assoluto. Nei quadri di Rousseau non esiste la luce, ma qualcosa ‘capace di illuminare’. In essi il sole (talvolta un sole rosso, simile â— dice Apollinaire â— a un mezzo melone d’acqua) è sospeso come una lampada chirurgica ‘senz’ombra’. Le per ­sone, le cose, gli animali, le piante dei quadri di Rous ­seau non aggettano ombre; la loro consistenza e peso terrestre assumono, per questo soltanto, una natura surreale.

Al tempo in cui il Doganiere dipingeva comincia la storia della fotografia. Dai negativi di Nadar si svolge la pittura impressionista. La cinematografia se ­guirà, tra non molto; ma il Doganiere ne anticipa (I giocatori di pallovale) la prima modulazione grafica e ritmica, come nei tentativi iniziali di Mack Sennett e Polidor. Nei paesaggi urbani le figurine nanizzate si muovono con l’artefatta e sfasata cadenza della Loco ­motiva che entra nella stazione o dell’arrivo dei pom ­pieri in una ‘comica finale’.

La pittura del Doganiere esce così da una inestricabile mistione di intuiti e di imitazioni, di sco ­perte grandiose e di banalità soverchianti. Era diffi ­cile, anche per i contemporanei, valutarla specialmen ­te nella condizione dimessa e quasi di mendicità in cui nasceva. I gruppi post-impressionisti di estrema avan ­guardia lo capirono; ma confusamente.

Matisse, Braque, Picasso, Cocteau, i cubisti e i da ­daisti e, da solo, Gauguin, avvertono che il Doganie ­re, il piccolo, pacifico Doganiere, parla proprio, e per ­fettamente, il linguaggio nuovo alla ricerca del quale si sono messi da tempo. I suoi paesaggi sono visibili, ma non li bagna nessuna luce. (Anche la luna spande una irreale farina luminosa nella notte del Sogno e tra gli intrichi delle foreste, ma non un vero chiaro ­re.) Le sue prospettive non esistono. Le dimensioni entro le quali fa sorgere e balzare dal fogliame le tigri e i leoni, gli incantatori e i suonatori di piffero, non rientrano nella geometria di Euclide.

Lo scandalo maggiore (e quello che fa ridere i frequentatori degli ‘Indipendenti’) consiste nella ‘si ­multaneità’ relativistica dei protagonisti e dei loro so ­gni, entro il quadro ; oppure della persona vista in momenti vari e contemporanei. ‘Simultaneità’ è pa ­rola la cui alba è prossima, nelle tele dei cubisti (che vogliono vedere ‘tutto’ l’oggetto nello stesso momen ­to) e nei manifesti dei futuristi.

Improvvisamente, mediante i quadri del Doganie ­re, viene a trovarsi giustificata e resa comprensibile la ricerca d’un classicismo nuovo, di forme e di colori che Gauguin si spinge a cercare nei mari del Sud Pa ­cifico. L’esperienza di Matisse e dai fauves tiene con ­to, forse senza saperlo, dell’infantilismo e dell” esoti ­smo’ del Doganiere. Anche i suoi quadri più sbagliati e orrorosi (come le copie delle teste infilate nel buco di una sagoma dipinta, dei fotografi ‘umoristici’ di periferia; questo passaggio temerario dalla caricatura al mostruoso espressivo) contengono un significato e una lezione. Picasso, ancora invischiato nel miele ele ­gante del suo breve ‘periodo’ rosa, ne tiene conto; per liberare, finalmente, i suoi saltimbanchi inabilitati sui trapezi e sciogliere le figure congelate nell’incanto di una irremovibile calligrafia.

Certamente Henri capiva poco o nulla delle teo ­rie, così complicate e sottili, di cui discutevano tra loro i pittori ‘professionisti’ e i critici. Lui non soltanto non sapeva di essere ‘nuovo’, ma si riteneva e voleva es ­sere ‘vecchio’, come i grandi modelli del Louvre. La ‘novità’ più clamorosa della fin di secolo l’aveva colta a suo modo, ponendo nei cicli di alcuni suoi quadri dirigibili, aeroplani e aerostati.

Tutto sommato, Henri conferma la sua fiducia nel ­la civiltà borghese, nell’epoca florida e persine troppo sazia di benessere del secolo XIX. Qualche suo qua ­dro ricorda le etichette dei liquori medicinali premiati alle esposizioni universali. La sua pittura, ossequente alle leggi e all’ordine costituito, canta senza parole un inno al Progresso, come appare nei quadri del ballo, Excelsior. È un pacifista, appunto, per aver dipin ­to l’orrore della guerra. Un 14 luglio, tre anni pri ­ma della morte, Uhde andò a visitarlo nella sua stanza del rione di Plaisance. Lo trovò in abito festivo, di ­nanzi alla tavola sulla quale aveva disposto dolci e vino, tra bandierine tedesche e francesi. Dinanzi a quei simboli volle brindare. Aveva sistemato, per con ­to suo, il conflitto tra le due sponde del Reno.

Le vendite e una certa agiatezza non modificarono il modestissimo tono della sua vita. La stessa camera-studio, gli stessi piccoli ricevimenti agli amici, durante i quali faceva eseguire dai suoi allievi la Valse Eglantine e la Polka Cecilette. Qualche onesta baldoria, qualche scherzo.

Una volta riuscì a far rappresentare (in casa sua, probabilmente) una commedia in un atto, nella quale si narra la infelice passione di un commesso di ne ­gozio di 54 anni per una ragazza di nome Leonia. Forse lui e un suo amour malheureux. Aveva scrit ­to anche un vaudeville in 3 atti, intitolato Visite à l’Exposition de 1889; un dramma in 5 atti: La vengeance d’une orpheline russe, e uno dei due valzer ci ­tati; in onore di Clémence, la prima moglie.

Ignorava i limiti tra il lecito e l’illecito; o, meglio, introduceva in ogni rapporto la sua dolce logica in ­fantile; così venne, da un imbroglione, implicato in una contorta faccenda di danaro, di cambiali, di falsi, ed entrò in prigione. Ne uscì per ripigliare la sua vita, squallida e ricca, solitaria e animata dagli amici, da ­gli incontri, dalle soirées, dai banchetti. Picasso ne organizzò uno, in suo onore, nella baracca a Montmartre che chiamavano il Bateau-Lavoir, ove aveva messo lo studio. Apollinaire, durante il simposio, vi de ­clamò il famoso brindisi biografico:

Nous sommes réunis pour célébrer ta gloire.
Ces vins qu’en ton honneur nous verse Picasso
Buvons-les donc, puisque c’est l’heure de les boire,
En criant tous en choeur: “Vive, vive Rousseau!”

Ma lui, ‘fatto a vino’, come si dice a Napoli, dor ­miva saporitamente.

Anche a noi, Rousseau appare in luce diversa dal ­l’accezione comune. Era un ‘candido’, ma d’un istinto raffinato e ironico. Si guardi il suo colore, gli ineffa ­bili rosa dei suoi fenicotteri e dei suoi nenufari gi ­ganti, i verdi metallici e ‘distrutti’, i fulvi e i bianchi della flora e della fauna, della vegetazione onnipre ­sente. Apollinaire pensava ad essi, scrivendo nei Calligrammes (Les Feníªtres) quel meraviglioso verso:

Du rouge au vert tout le jaune se meurt.

Pensava al Sogno, all’Incantatrice e ai rosa cadave ­rici della Guerra, assai più che ai mazzi di fiori im ­pressionisti di Marie Laurencin, accanto alla quale nel 1909, subito dopo il famoso banchetto da Picasso, il Doganiere lo ritrasse nell’atto di ricevere la bene ­dizione dell’amica e musa, con tre dita levate in aria.

Ricostruiva, dunque, quella pittura del Doganie ­re, non soltanto la ‘forma’ ma il ‘colore’ e, spingendosi un poco più in là, persine il costume. Tutto sommato, gli impressionisti avevano portato, con quella loro os ­sessione della luce, ogni cosa sulla strada della perdi ­zione. Henri dipinge il ritratto di Clémence come il colosso di Rodi delle virtù borghesi e coniugali. Manet pone la modella nuda accanto ai pittori vestiti nella Colazione sull’erba, ma il Doganiere copre Clé ­mence dei più claustrali e decorosi risbuffi della moda sovraneggiata dalla regina Vittoria.

Se davvero vogliamo assumere il Doganiere â— ed era, appunto, questo il concetto in cui da Picasso ad Apollinaire lo terranno tutti â— come stendardo della controrivoluzione anti-impressionista, del ritorno al valore puro del disegno, della decorazione, del colore, della rigorosa affermazione del fantastico sul reale, bisogna ritenerlo un caposcuola al quale occorrerà ri ­tornare.

Dal Doganiere discendono le più delicate e solide creazioni del ‘realismo magico’ e del surrealismo. Egli conferisce peso e volume a ciò che prima era spruz ­zatura puntillistica del mondo reale; mai, dagli im ­pressionisti, veramente oltrepassato.

Quanto al fondo morale, Henri Rousseau, con quella sua vita dedita e incantata, indica la necessità â— da nessuno più avvertita â— di soffrire per l’arte e lavorare a ricercarsi con intensità “caparbia”, come dice lui. Il Doganiere sta all’opposto del ‘facilismo’. È un conservatore la cui pittura meticolosa risparmia il centesimo e sorveglia la crescita del conto in banca. Egli è il contrario di quei soldati del Roi Ubu di Jarry che facevano l’esercizio ognuno per conto suo. Malraux intuisce finemente l’alta qualità del colore ‘co ­struito’ di Rousseau e trova lo “stile delle sue opere altrettanto caparbiamente conquistato di quello di Van Eyck”. Stupisce incontrare tanto alto lignaggio estetico nel figlio dello stagnaro di Laval. Lui non ne sapeva nulla e non ha mai saputo di trovarsi al Louvre accanto ai Van Eyck, ai Van Ostade, ai Delacroix che copiava nella mente e traduceva nel suo linguaggio: al Louvre con l’Incantatrice e la Guerra, recuperata per caso nel 1945. Lo sapesse adesso, chissà quali sa ­rebbero le sue reazioni. Forse le stesse di quel ban ­chetto famoso offertogli da Picasso e Apollinaire.


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