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PITTURA: I MAESTRI: Tiepolo: La metafisica dei sensi

9 Febbraio 2019

di Guido Piovene
[Classici dell’Arte, Rizzoli, 1968]

La villa Valmarana ‘ai Nani’ presso Vicenza è una delle ville venete più famose del mondo e una delle più semplici. Si entra in un giardino, molto fio ­rito ma non grande, recintato da un muro su cui stanno ritte le statue degli ometti grotteschi che hanno dato alla villa il nome popolare. A sinistra è la ‘fo ­resteria’, un edificio lungo e basso ; in fondo è la ‘pa ­lazzina’, l’edificio maggiore. L’architettura è sobria. L’insieme rientra nella regola delle ville venete, con ­venienti allo spirito del paese quando vogliono essere nient’altro che dimore di ‘gentiluomini’, e stonate nei rari casi nei quali aspirano ad essere ‘principesche’.

Nei due edifici, palazzina e foresteria, si manifesta il genio di adattamento del Tiepolo. Il Morassi ha ristabilito la data degli affreschi che li decorano: è il 1757, quando il pittore aveva sessantun anni. Ve ­niva dalla Residenza di Würzburg, dove aveva co ­perto di immensi affreschi lo scalone e la sala Impe ­riale. A Würzburg aveva raggiunto, come richiedeva la sede, il massimo della sua eloquenza figurativa e della sua fantasia apologetica. In quella reggia aveva toccato il suo meglio il pittore addestrato a dipingere nello stesso modo le apoteosi dei potenti mondani e le assunzioni della Vergine, in cicli vorticosi nei quali ruotano, mescolati alle nubi, figure alate, simboli, di ­vinità, cavalli scalpitanti nel vuoto. Ma nella villa Valmarana, con il figlio Domenico, adegua i soggetti e lo stile al nuovo incarico di abbellire le stanze della dimora suburbana di un gentiluomo vicentino. Ora il precetto è un altro, la familiarità elegante. Sceglie al ­cuni soggetti congeniali alla sua natura di grande il ­lustratore: i quattro maggiori poemi cari al suo se ­colo, l’Iliade, l’Eneide, l’Orlando, la Gerusalemme, uno per stanza, al pianterreno della costruzione mag ­giore; il sacrificio di Ifigenia, a lieto fine, nella sala centrale. Lascia al figlio Domenico quasi tutta la fo ­resteria. Non sono più vasti soffitti che si guardano da lontano, situati in maniera da esigere scorci virtuosi, portenti illusionistici. Qui gli affreschi sono vicini a chi entra nelle stanze, le figure divine e umane sii stanno accanto quasi alla stessa altezza, e la loro azio ­ne si svolge su piani paralleli ai muri. Si ha già qual ­cosa d’intermedio tra la pittura di palazzo che si as ­socia comunemente all’idea dell’affresco e la pittura più moderna di cavalletto destinata a ornare l’appar ­tamento signorile. Gli stessi temi infatti sono stati svolti altre volte dal Tiepolo, ma quasi sempre in quadri. Il Settecento non è mai tanto attraente come quando lascia le chiese e i palazzi e innesta in un tessuto ari ­stocratico i preavvisi della civiltà borghese, col suo gusto dell’arte come viaggio nella propria stanza, in ­vito all’evasione, strumento d’intonazione dei sogni e oggetto di “consumo immediato del cuore”.

È questo il Tiepolo che mi piace di più, o almeno quello che frequento più volentieri, mentre di fronte all’altro Tiepolo, quello chiamato a dare prova d’una bravura di scenografo senza eguali, passo con una ammirazione distratta. La qualità pittorica e l’estro inventivo rimangono sempre gli stessi, ed aveva ra ­gione quel ministro di Svezia, che lo raccomandava al re decantandone “l’esuberanza infinita, il colore splendente, la rapidità incredibile”, per cui “impie ­gava meno tempo a dipingere un quadro che un altri ‘ a stemperare i colori”. Non riesco però a trovare nes ­sun aggancio con queste opere di alta recitazione in ­torno a cui sento crepitare gli applausi. Non riesco, per esempio, a prendere contatto col Tiepolo pittore di grandi scene religiose. Il Tiepolo era certo religioso come persona, ma il sentimento religioso è subito con ­gelato quando lo esibisce in pitture. Il suo genio pit ­torico prendeva irresistibilmente altre vie. Correva dov’era portato, nel fantastico e nel sensuale, distan ­ziandosi dal proprio oggetto. Non ho mai potuto, del resto, provare simpatia per la pittura religiosa italiana dopo la Controriforma, fuorché nei casi dove esprime la nevrastenia e il terrore. La trovo tanto più irritante quanto più si propone di essere espressiva e di contagiare i devoti, coi suoi volti sforzati al fervore, al languore, alla compunzione affettata, all’estasi lagrimosa, cioè a quello che religioso non è. Le qualità pittoriche, che il Tiepolo sfoggia nei cicli lievitanti di figure alate, sono per me come inibite dal contesto te ­dioso e vado a ricercarle in altri contesti. Do quasi tutta la pittura religiosa del Tiepolo per quadri come il Mosè salvato dalle acque conservato a Edimburgo, e specialmente come l’Alabardiere, che occupava il margine destro della composizione, e che ora ritagliato come un quadro a parte sta in una casa di Torino, coi suoi monti nevosi veduti in lontananza dietro ciuffi di canne. Il Tiepolo migliore è per me quello delle pause, quando si tira indietro, e si concentra sulla vena che in lui ravviva tutto, una sensualità che sembra rendersi misteriosa a se stessa, si diffonde e frantuma, gira intorno alle figure nude ma batte con più forza su quanto le circonda, si eccita specialmente su brani di ‘natura morta’, e genera così un brivido di meta ­fisica profana. Il pittore, che fu descritto di carattere accomodante, spiritoso e bonario, allora spreme nel suo stile elementi vitali più consoni alla sua natura, sensualità, lirismo, soggettivismo, egotismo sottile. In quelle soste, tra le quali la villa Valmarana è la più importante, elaborava i suggerimenti raccolti nelle sue peregrinazioni in Europa, come uno che mette da par ­te un vino prelibato per portarselo a bere in camera. Il Morassi ha osservato le novità, stilistiche e coloristiche, rispetto alle opere anteriori, che il Tiepolo di sessantun anni inaugurava negli affreschi di villa Val ­marana: il predominio dei colori smorzati e freddi, dei “toni da pastello”, “azzurri di fiordaliso”, “lillà amaranto”, “giallini tenui che tirano al grigio perla”, “verdi siderei”. Solo che, preferendo il Tiepolo più nostrano, rileva in quegli affreschi un principio di “inquinamento”, un’intrusione della moda del rococò francese, dovuta alle influenze subite in un ambiente come quello di Würzburg, à la page con l’Europa. Io non vedo un inquinamento, ma un reale progresso, e mi chiedo che cosa sarebbe stato il Tiepolo se fosse nato in altro ambiente, di cultura più fresca, più adatto a favorire l’espressione lirica che quella cele ­brativa e oratoria.

È una cattiva abitudine quella di paragonare il Tiepolo a Paolo Veronese, vedendo in lui il pittore che ha fatto rivivere in parte il suo predecessore, e in generale la grande pittura italiana dei grandi secoli che si era interrotta. Il paragone tra i due maestri co ­minciò molto presto. Un poeta milanese anonimo, esal ­tando il soffitto del palazzo Clerici, chiamò il Tiepolo “imitatore” del Veronese, nel senso positivo di conti ­nuatore ed emulo. Ambedue i pittori appartengono a uno stesso firmamento figurativo e il Tiepolo ha preso molto a Paolo Veronese, un artista operante a livello più alto. Ma i due artisti si muovono in direzione dif ­ferente anche quando i soggetti e gli scopi della loro arte si presentano affini. Ripeto alcune frasi scritte da me sul Veronese nel volume di questa collezione dedi ­cato a lui. Nessun elemento di quelli che noi chiamia ­mo espressionistici, nel “cosmo a struttura cristallina” dei quadri, o affreschi, del Veronese. “Le sue figure non si sforzano di dirci nulla, non fanno nessuna pres ­sione su chi le guarda, non cercano di proiettare in noi qualcosa che hanno dentro … Non sono né serene, né calme, né drammatiche; semplicemente sono, han ­no la pienezza dell’essere nel loro mondo parallelo … ” ; esse guardano all’interno del loro mondo, e mai verso di noi. Il Veronese non è mai illusionistico. Il suo mondo “è intero, completo, compatto, non inganna e non simula; si compiace di esistere, seriamente, na ­turalmente, senza lacune né fessure da cui si guardi altrove”. È un mondo surreale, strutturato e organiz ­zato secondo leggi sue; non vi si adattano qualifiche come lirico, favoloso, allegro o triste, sensuale, pate ­tico, idillico, fantastico, o qualsiasi altra che lo metta in rapporto immediato coi nostri appetiti sentimentali. Ma lirico, sensuale, fantastico, favoloso, illusioni ­stico, teatrale, sono parole che si adattano al Tiepolo. La sua arte ci preme addosso, ci fa violenza, per ob ­bligarci a sentire qualcosa: esaltazione religiosa, am ­mirazione per un principe, per uno Stato, per una famiglia fastosa, o, nei casi che prediligo, fantasie o sensazioni di genere più privato. Il Tiepolo vuole stu ­pirci, sconvolgerci, o sedurci. Si sovrappone alla na ­tura, quella dei suoi stessi dipinti, illuminandola di luci che producono suggestione. Accenno, per esempio, alla “levità e lucentezza delle figure che si scorgono in lontananza”, e ai secondi piani. In essi, a contrasto coi primi, dove le figure campeggiano con forte colore e rilievo, le figure “perdono peso, si fanno più chiare e diafane”, o addirittura scoloriscono e diventano gri ­gie. Queste alterazioni volute, pari a quelle che com ­pie una regia teatrale con il gioco dei riflettori, sono fatte per comunicare al riguardante il senso dell’ir ­reale, del patetico e del sognato. Nel Veronese, ammesso l’artificio totale d’un mondo immaginario, non si trovano mai artifici parziali, arbitri illusionistici; tut ­to vi è terso e fermo, il vicino e il lontano.

Queste mie osservazioni non mirano a sostenere certi giudizi restrittivi sull’arte del Tiepolo, riapparsi anche di recente. Nessun pittore veneziano del tempo può paragonarsi al Tiepolo. Anche nelle opere che sento meno congeniali, la pittura barocca, come nei fuochi d’artificio, tocca il massimo dello splendore pri ­ma d’estinguersi, e compone con esse il proprio fa ­stoso sepolcro. Ho sempre avuto una forte predile ­zione per le opere dove l’arte mostra più chiaramente di essere una creatura di carattere anacronistico, e perciò anche per le opere fin d’époque, in cui sfavilla un’epoca in via d’estinzione o già estinta, e sembra essere più vitale che mai, e invece erige un monumento alla memoria di se stessa. Volevo solo stabilire il ca ­rattere incomparabile di un pittore intellettuale, com’era il Veronese, con un pittore sensuale, com’era il Tiepolo; e dire che la sensualità tiepolesca si raffina e acutizza quando il suo discorso si smorza.

Quando il Tiepolo è di questo tipo, ha un van ­taggio su tutti gli altri pittori veneti: è quello che ri ­mane di più nella pelle. È come il ricordo di una relazione. Ne ho un’esperienza personale simile a quel ­la di un paesaggio o d’una droga, essendo, come ho già scritto una volta, un veneto non veneziano, e non di formazione veneta in senso generico, ma tra il Pal ­ladio e il Veronese, con appendici tiepolesche. Fa parte di quell’esperienza il sentire come nel Veneto il Settecento sia così naturale, da essere quasi prepa ­rato e previsto anche da quello che precede, e che forma con esso una specie d’impasto unico e senza data. Il Tiepolo, di questo Veneto, era il genio più fa ­miliare, e lo cercavo soprattutto in quella città diluita che nel Veneto è la campagna e nelle ville suburbane. A Venezia cercavo il Tiepolo soltanto negli affreschi di palazzo Labia, già tutti intrisi dallo spirito della favola sensuale. Qui il Tiepolo toccava un soggetto congeniale a lui, gli amori di Antonio e Cleopatra, la regina orientale che scioglie la perla nel vino nel ban ­chetto in cima a una scala su cui sale un nano de ­forme e sotto l’alto palco dei musicanti, l’incontro con Antonio, sullo sfondo del porto dove un oggetto so ­vrastante, la polena scolpita, ha più forza di sugge ­stione della figura umana. Quando tratta Cleopatra, o Armida, o la principessa egiziana che ritrova Mosè, l’arte del Tiepolo si affina, e si affina anche la sua idea della bellezza femminile. In quel prolungamento di Venezia che è il Brenta, lasciavo in disparte la villa di Stra, così poco intonata con la sua pompa principesca ad un paese senza principi. L’affresco del Tiepolo a Stra, l’Apoteosi della famiglia Pisani, par ­tecipa alla vanità della costruzione intera. La fatuità vanesia delle famiglie venete, che ingigantiscono ai propri occhi quanto più si dissolve il potere dello Stato e il loro, è tutta in quest’apoteosi dove la famiglia Pisani rappresenta se stessa assunta negli empirei su cuscini di nubi tra gli squilli delle trombe angeliche. Confronto con quelli del Tiepolo gli affreschi dei Ve ­ronese a Maser, dove non fa l’apoteosi della famiglia Barbaro, ma un oggetto di rappresentazione. Lasciato Stra, correvo al mio vero Tiepolo, che ha dissemi ­nato i suoi affreschi nelle semplici ville: la villa Cor ­dellina, per esempio, a Montecchio (dove mi affasci ­na quell’ ‘oggetto parlante’, come la polena di nave dietro l’incontro di Cleopatra ed Antonio, che è il pa ­diglione contro cielo dietro Alessandro Magno), e villa Valmarana in primissimo luogo.

Qui ritrovavo il Tiepolo del colloquio privato. Chi è portato a guardare da un angolo soggettivo i qua ­dri, usandoli come incentivi dell’immaginazione, si trova a suo agio con lui. La villa guarda una valletta che è come un distillato del paesaggio veneto, tanto più grande quanto più piccola è la visuale, perché tutto sprofonda nel repertorio senza fine della sen ­sualità. Davanti alle finestre i prati e i vigneti sal ­gono verso il crinale dei colli. Trovavo negli affreschi gli stessi pungoli fantastici che raccoglievo dal pae ­saggio, semplice e insieme mitologico. La sensualità del Tiepolo è davvero totale, imbeve tutto ciò che appare, arriva per tutte le vie, è il carattere del suo mondo reale o immaginario. Circola e ci compenetra senza parere, non assume mai forme grezze, si dissi ­mula sotto gli involucri più diversi. Sensualizza egual ­mente tutti i personaggi dei poemi, guerrieri o belle donne, giovani o vecchi; così ci insinua dentro la loro presenza, li tramuta in fantasmi del nostro sangue e in prototipi d’una memoria prenatale. Agamennone. Achille, Angelica e Medoro, Andromeda, Rinaldo e Armida, Enea e Didone, entrano in una mitologia fa ­miliare. Mi soffermavo specialmente su Rinaldo e Ar ­mida. Dovunque tocca quel soggetto, la pittura del Tiepolo giunge all’acuto lirico, avvenga questo nelle tele di New York, di Chicago, o di Losanna, o di Berlino. Le statue dei giardini dietro i due amanti paiono se ­mivive, persone tramutate in pietra da un sortilegio, immobili ma pensanti. Da queste figure poetiche pas ­savo senza salto alle divinità, e penso specialmente al piccolo affresco in cui Marte e Venere parlano su un divano di nubi. C’è una speciale verità nella mitologia del Tiepolo, quella per cui le figure e i nomi divini sembrano scaturire da una memoria interna come realtà della natura e apparizioni della vita. La mito ­logia stessa intrideva per me il paesaggio del Veneto, specialmente i suoi cicli, e il Tiepolo è un pittore di cicli, anzi ha reinventato le innumerevoli varianti di quella faccia unica che è la volta celeste. È forse Tunica pittura, la sua, che si trasporta dentro il ciclo, e immagina di vederlo come potrebbe un essere in ­sieme carnale e celeste, che avesse in ciclo la propria dimora profana; col ciclo, i suoi abitanti, Marte e Venere in conversazione. Questo mitologo sincero, pit ­tore metafisico dei sensi e del sangue, tocca le corde del patetico, dell’idillico, dell’elegiaco. Il grande se ­colo finisce di consumare in lui il piacere dell’irrealtà sentita come cosa vera. Egli trasmette in chi lo guarda un vapore di compiacenza sensuale nella propria vita, un forte attaccamento a se stesso nelle fantasie e nei ricordi, un orgoglioso sentimento d’immortalità per ­sonale associata alla carne.

 

 


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Bart