PITTURA: I MAESTRI: Tiziano: Lo spazio del tempo19 Febbraio 2019 di Corrado Cagli Tiziano e il nostro punto di vista sulla sua opera e la sua straordinaria vicenda. Il luogo: il brano di un secolo sbranato come mai altro secolo fu ; sbranato al punto da ritrovare lacerati i tessuti connettivi di quegli organismi che, nati nel quinto secolo avanti Cristo, avevano imposto un corso (non torrentizio ma fluviale) alla storia dell’uomo, fino a ieri. Se il quinto secolo, colmo di spiriti determinanti (Confucio, Buddha, Piatone, Pitagora), vide Lao-Tzû gettare il seme del Tâo col Tâo-tê-king, il nostro secolo, il ventesimo dopo Cristo, assiste nei suoi primi decenni alla fine del taoismo, anzi al suo oblio. La storia colloca il nostro punto di vista su Tiziano in un luogo del tempo lacerato da sismi profondi, illuminato dal tramonto apparente dei soli metafisici preesistenti. Stelle polari alla loro navigazione, archetipi al loro operare, Tiziano e Raffaello hanno guidato i più gran Âdi pittori europei fino a tutto il secolo decimonono. I maestri dell’Ottocento in Francia, Ingres e Delacroix â— neoclassico l’uno, neoromantico l’altro â—, siano pure a capo di correnti antitetiche e divergenti, ugualmente attingono alla stessa fonte, ugualmente ri Âsalgono a Raffaello. Come da Raffaello hanno preso le mosse i fenomeni più disparati (Poussin, David, Ingres, Delacroix), così da Tiziano è illuminata e mossa una marea di pittori, fino al grande Renoir, fino al nostro Mancini; marea che si frange però non appena tange il nostro secolo. Non è da escludere che il brano di secolo sbranato nel noi ci troviamo a vivere operosamente ci presenti la clessidra del tempo capovolta e ci mostri le cose vicine remote e le remote, semmai, poco lontane. A noi il secolo decimonono, malgrado le sue vivaci imprese formalistiche, appare più remoto (comunque estraneo) che non segno o simbolo che ci pervenga da Altamira o dalla Dordogna. Courbet pensava al Prado operando, e, come Ingres o come Delacroix, ergendosi a protagonista di una tra Âdizione già dal museo decantata, si muoveva in limiti angusti, nello spazio di un tempo breve. Michelangelo aveva già detto a suo tempo che chi va dietro ad altri mai gli va dinanzi. Il nostro punto di vista (clessidra del tempo capovol Âta) è inevitabilmente nuovo, e la nuova pittura del se Âcolo ventesimo (relativamente a quella del secolo de Âcimonono), fiorendo in tempi non di restaurazione ma in tempi di primordio, altri problemi ha e altri obiet Âtivi si pone. Che si attinga al magma, nell’illimite sondare del Âl’inconscio, che si proceda per affinità elettive a esplorare giungle e labirinti di culture popolari, Africa. Nuova Guinea, Nuragici, Precolombiani, che si con Âsulti la sfinge della macchina, dei fumetti, della fotografia, del polistirolo espanso, non può significare se non l’accettazione della propria condizione storica e umana e l’appassionata volontà di esprimerla. Se la condizione storica e umana è così nuova, il lin Âguaggio che la potrà significare non potrà essere che inesemplato. Non a caso lo strumentale stesso della pittura è oggi cambiato. Se queste le ragioni del temporaneo disinteresse psicologico e tecnico dei maggiori pittori moderni per quei sommi che come Tiziano hanno per secoli illuminar’ . come soli, le stagioni dell’arte, qui mi chiedo con il Poeta: renaîtront-ils d’un gouffre interdit à nos sondes comme montent au ciel les soleis rajeunis après s’être lavés au fond des mers profondes? *  *   * La memoria dell’uomo risale il tempo a ritroso, inse Âguendo il tufo, la terracotta, lo statuario di Carrara, il pario, per secoli; affidandosi al rame, al bronzo, al peperino, al porfido per millenni: e l’uomo d’oggi dia Âloga (tramite le immagini tramandate in quelle mate Ârie poco labili) con antichissime generazioni. Alla pittura sempre si rivolge, attraverso il tempo, sia pure un tempo meno lungo di quello che la scultura può sfidare, per ritrovarsi con gli antichi e percepirne il messaggio. Malgrado la pittura soffra le ingiurie del tempo più che la scultura, può a volte descrivere an Âch’essa ampie parabole nello spazio dell’eternità , in virtù di cicli tradizionali che tramandano, di gente in gente, un linguaggio pittorico quasi come si trasmette un linguaggio parlato. Ho detto ‘quasi’ perché il lin Âguaggio parlato conosce ben altra usura e di continuo si trasforma se l’uso che del linguaggio fa il popolo, nei trivi come nelle scuole, nelle campagne di guerra come nei tribunali, può aver mutato il latino in italia Âno nel corso di non molte generazioni. Un linguaggio pittorico perviene a volte a trascendere la durata della sua stessa nazione, come può essere ac Âcaduto a quello del tempo di Fidia, come potrebbe accadere a quello del tempo di Lorenzo il Magnifico, perché un linguaggio pittorico non è dissimile da un pensiero filosofico o da un movimento religioso. Della pittura del tempo di Pericle opere non ne sono rimaste, eppure la pittura greca ha spinto dall’imo dell’oblio tentacoli, dalle sue radici ai suoi rami, fino a rimuovere schisti, a fendere strati di iconografia cri Âstiana per gemmare nuovamente, improvvisa nel Par Ânaso di Raffaello, urgente nel Baccanale di Tiziano. Come queste cose accadano nessuno sa, o forse lo san Âno solo quei pittori, quei poeti, che tali cose mirabili hanno fatto accadere, demiurghi attoniti nell’ascoltare gli Dei, ansiosi di trasmetterne le voci agli uomini. Come queste cose accadano Tiziano lo ha saputo in sommo grado, e questo è l’aspetto che più mi ha col Âpito del Vecellio, al tempo di una mostra di centouno opere sue, a Venezia, pochi anni prima della scorsa guerra. Dalle opere giovanili alla ultima sua incompiuta, Ti Âziano continuamente si rinnova, con impeto e vigore crescente; così nella spanna di una sola vita umana, sia pure longeva, occupa con la sua libertà profonda lo spazio di cinque secoli almeno e per ora. In anticipo sulle crisi del tempo di Rubens, in anticipo di circa trecento anni sugli impressionisti francesi (si guardi al Tarquinio e Lucrezia dell’Albertina di Vienna), Tiziano convocava dal nulla, se non dal pro Âfondo del suo inconscio collettivo, la diaspora di Fidia e di Prassitele a splendere sulla laguna. Tiziano si è dunque mosso e ha operato nella sua vita terrena come gli fosse toccato in sorte di vivere dal secolo di Pericle agli albori del secolo nostro. *   *   * Dal tempo del vitello d’oro l’anatema di Mosè ha sop Âpresso ogni aspirazione all’arte della pittura nella lun Âga esistenza del popolo ebraico, che, per millenni, ha affidato la trascendenza della sua vita terrena e il messaggio del Dio di Israele a Sibille e Profeti, prima dell’avvento di Cristo; a poeti, musici e filosofi nella diaspora; e mai, in nessun tempo, a scultori e pittori. Restando fedele alla legge di Mosè, il cristianesimo protestante ha rifiutato le immagini dipinte di ordine antropomorfo, mentre il cattolicesimo si è, fin dagli inizi, pienamente affidato alla pittura, per celebrare e diffondere prima lo spirito, poi l’autorità della Chiesa di Roma. Nasce sull’antico tronco della Mater matuta campana la Madonna delle prime ancone, e mai l’antico mito della Grande Madre è stato così decantato, così divi Ânamente celebrato, come quando sono apparsi Duccio, Martini, Giotto, Leonardo, Raffaello, Tiziano. Ma il cristianesimo, fin dai suoi primordi, a quale tra Âdizione iconografica avrebbe potuto attingere se non a quella greco-romana, anche se in evidente contrasto con gli spiriti religiosi ereditati dai profeti ebrei? In seguito, infatti, è accaduto che la Chiesa di Roma, fatto suo quel linguaggio un tempo ispirato dagli Dei maggiori e minori del Parnaso ionico (Apollo, Dioniso, Demetra, Gea, Pan, Bacco e i loro seguaci), non ha potuto evitare che quel linguaggio stesso pervenisse a tradire quel fine che ne aveva suggerito l’impiego, sempre più allontanandosi dal Sermone della monta Âgna, sempre più avvicinandosi al Cantico dei Cantici, a Davide salmista, al profeta Isaia. La crisi fiorentina accesa dall’arso Savonarola, quan Âdo il Botticelli dava i suoi quadri alle fiamme, è segno manifesto di tanto disagio, e non lo è meno lo spirito discorde che separa gli affreschi della Cappella Sistina del ‘400 (Signorelli, Rosselli, Perugino, Botticelli) dalla Volta prima e poi dal Giudizio di Michelangelo. Il Buonarroti, nella sua furia, ha travolto argini e ponti, proprio come l’Arno delle alluvioni, e il suo Giudizio universale, dominato da un Geova e non da un Cristo, è legato al più minaccioso Isaia che non a Paolo apostolo (fede, speranza, carità ); ma nel Giudizio, se la fede è intensa, la speranza è fioca e la carità non appare in alcun lembo della terribile gheenna. *   *   * È nell’Europa della Riforma e della Controriforma che la paradossale vicenda della pittura strumento di propaganda fide giunge alla conclusione, anche se, dopo il Concilio di Trento, molte scuole e grandi auto Âri tenteranno di prolungare la traiettoria del grande ciclo pittorico religioso. Ma è con Michelangelo che si è conchiuso un tempo che vedeva la pittura asservita non tanto alla fede quanto al potere temporale, che dalla fede aveva trat Âto origine; un tempo che contro Giulio II poneva un Erasmo da Rotterdam e già scuoteva il Dürer a dife Âsa di Martin Lutero. Nel quadro di queste vicende, la figura del Vecellio gi Âganteggia. Se da giovane aveva declinato l’invito del Bembo e si era rifiutato di collaborare con la Corte pontificia, a questo rifiuto risale la vena che sfocerà più tardi nelle ioniche rivelazioni del Baccanale degli Andrii e del Bacco e Arianna. Così nell’età matura come nella sua alta età , la statura morale non gli con Âsentirà di subire le pressioni della Corte di Spagna e tantomeno gli umori della Controriforma. All’oscurantismo incombente reagiva quasi per assur Âdo con l’impeto erotico e l’impegno amoroso della Nin Âfa e pastore di Vienna, e, infine, con il sublime Marsia, quasi alla voce sinistra di Ignazio di Loyola si levasse a rispondere l’antica voce di Omero.
Letto 805 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||