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PITTURA: I MAESTRI: Zurbarán: Al culmine del misticismo iberico

2 Luglio 2011

di Mina Gregori
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1973]

Un contributo alla lettura e alla comprensione di Francisco de Zurbarán è impresa che richiede una cer ­ta disposizione d’animo e una mente che sappia svin ­colarsi dalle ideologie oggi prevalenti anche nell’inda ­gine storica, e dai pregiudizi e dalle preclusioni che fatalmente ne conseguono. Se vogliamo intendere i ver ­tici della sua arte, dobbiamo accettarne insieme ai ri ­sultati emozionanti di resa realistica e di intensità pittorica quegli aspetti che col realismo appaiono stret ­tamente connessi, e cioè il contenuto dottrinale e il messaggio spirituale che collocano lo Zurbarán accan ­to ai grandi mistici della letteratura spagnola del ‘siglo de oro’. Da quando fu avviata la riscoperta della pit ­tura spagnola del Seicento – una vicenda di fortuna crescente che cominciò con la diffusione europea della fama del Velázquez attraverso gli scritti del Mengs alla fine del Settecento -, la interpretazione dell’arte zurbaranesca come prefigurazione della pittura moder ­na vi ha visto di preferenza la potente concentrazione di un emozionante, intenso e non distraente realismo, i bianchi inconfondibili, filtro precipuo della visione lu ­ministica, e il contributo alla storia della natura morta. Ciò significava eludere il fondamento religioso, interio ­re e confessionale, della sua attività, collegata quasi esclusivamente a grandi comunità monastiche, inten ­derla in termini di pura pittura, al massimo estraendone un significato di mistica immanente, come devozione e dedizione all’oggetto; e in ogni caso evitando di ap ­profondire le sicure connessioni di questi risultati con l’ideologia e le finalità religiose dell’artista.

Francisco de Zurbarán è il pittore che forse più di ogni altro sollecita la riflessione sui rapporti tra l’artista e i committenti, sulla responsabilità che è lecito asse ­gnare all’uno e agli altri nella scelta dei soggetti e del ­l’iconografia, e sulla parte che, con la sua adesione spi ­rituale ed emotiva, il pittore ha avuto nella realizzazio ­ne dell’opera. Caratteristica che gli deriva dalla pre ­valenza costante di una tematica strettamente devozio ­nale, che assolse compiti di didattica monastica ma attinse parimenti alle fonti della mistica, così da pre ­supporre una vicenda interiore che aderì nel profondo a ciò che quei soggetti significavano nello spirito e non soltanto nella lettera.

Le notizie che conosciamo permettono di affermare che, se il Ribera fu assai presto in Italia e, a partire dalla formazione caravaggesca oggi documentata con opere sicure degli anni romani anteriori al 1616, fu in ­serito con continuità in una cultura di sollecitazioni più complesse, non prevalentemente religiose e anche di ­vergenti dal fondo iberico; e se il Velázquez, pittore di corte e affezionato dell’Italia, rappresenta, come fu osservato, un’apertura verso l’Europa, lo Zurbarán re ­stò sempre legato da un vincolo profondo alla vita dei grandi conventi della provincia spagnola. Quale altro significato può avere, infatti, il soggiorno troppo breve, sebbene vi fosse stato chiamato dall’amico Velázquez. che egli fece nel 1634 alla corte madrilena, a cui furo ­no destinate le Fatiche d’Ercole e La difesa di Cadice. i soli soggetti profani che, oltre a qualche ritratto, egli abbia eseguito? Non è dubbio che questo atteggiamen ­to, e il fatto che il pittore non sia mai venuto in Italia, abbiano una stretta connessione con il concentrato, univoco significato della sua arte. Arte che è visionaria e perciò stesso oggettivante e realistica â— che i due aspetti non devono intendersi in contrasto (come il giu ­dizio moderno ha preferito), ma l’uno conseguenza dell’altro -; creatrice di realtà tangibili attraverso l’ascesa ai più alti gradi della contemplazione mistica, così come fu perfezionata dal maggiore seguace di san ­ta Teresa de Avila, san Giovanni della Croce.

Capire Francisco de Zurbarán significa intendere che egli rappresenta il punto d’arrivo dei processi ascetico-mistici che furono vissuti, teorizzati e descritti con mirabile varietà di esperienze nella Spagna del gran secolo. Ho detto punto d’arrivo perché, sebbene la tematica mistico-religiosa del Murillo sia ricchissi ­ma, egli appartiene ormai a una visionarietà sfocata e approssimativa per quanto concerne la rappresentazione oggettuale, e tale da inserirsi nello stesso clima di quegli scrittori spirituali che, come Maria de ígreda, rappresentano il mondanizzarsi della mistica spagnola e il suo evolversi nel Seicento, secondo la brillante defi ­nizione dello Hatzfeld, verso una visionarietà femmini ­le. Anche partendo dai gradi più accessibili, coincidenti con le pratiche degli Ejercicios di sant’Ignazio, la ten ­denza alla visualizzazione degli assunti mistici che si in ­eriva nelle esigenze, nate nel clima della Controrifor ­ma – ed è nota l’influenza che la spiritualità iberica ebbe anche nell’ambito del Concilio di Trento â— di avvicinare le sfere dell’umano e del divino, fu una spinta determinante per il realismo dell’arte religiosa spagno ­la. Tale atteggiamento sembra essersi esteso a quella esaltazione potentemente riproduttiva dell’oggetto che caratterizza nella prima metà del Seicento.

Queste considerazioni porterebbero ad affermare che il suo prevalente accento realistico e in particolare l’arte dello Zurbarán risalgono a motivazioni che tro ­vano la loro ragione in modo esauriente in una situa ­tone locale. Le vicende dei protagonisti della pittura realistica spagnola si collocherebbero perciò al di fuori della diffusione del caravaggismo, e ne sarebbero un fenomeno soltanto parallelo, ma del tutto indipenden ­te. Un’interprelazione come questa dimostra che non si è inteso che la pittura religiosa del Merisi rispecchia nel modo più radicale l’esigenza del suo tempo di tra ­durre visivamente la rievocazione del tema sacro, e che il realismo vi è tanto più intenso quanto più profondo e moderno fu il processo di interiorizzazione da lui operato.

Gli orientamenti dei maggiori spagnoli del primo Seicento, il seguito serrato, come anelli ben connessi di una catena, dai primi documenti caravaggeschi, ante ­riori al 1616, del Ribera a Roma, e dalla loro intensità materica, per passare subito dopo alla potenza concen ­trata dei quadri giovanili del Velázquez, certamente non ignaro di questo come di altri risultati della pittura caravaggesca, e, di qui, ai primi approcci dello Zurbarán col tenebrismo a Siviglia, dimostrano che la cultura artistica spagnola trovò in quel momento già attuate nel caravaggismo le soluzioni figurative per le tendenze realistiche cui aveva dato nuovo impulso la visionarietà dei mistici, e che, nell’ambito della letteratura religiosa oltre che nelle arti, risalivano localmente a una radi ­cata tradizione.

Allo stesso grado del Greco, lo Zurbarán ci appare come l’interprete degli scrittori spirituali del secolo d’oro, ma anche grande mistico egli stesso. Gli eventi noti della sua vita, il periodo a Llerena in Estremadura, le commissioni dei cicli sivigliani, a cui seguì il tra ­sferimento nella capitale andalusa, il ritorno in provin ­cia dopo la chiamata a Madrid, lasciano immaginare con ampio margine di attendibilità un uomo vissuto, come un altro grande artista, lo scultore Martí­nez Montaí±ez, all’ombra dei monasteri e in consonanza interiore con il clima che vi si respirava.

Se ancora nel periodo della Controriforma la Chie ­sa tollerava le vecchie leggende fiorite nel Medio Evo sul dogma e sempre vive nell’ambito della vita conven ­tuale, la letteratura spirituale scritta in volgare aveva infuso nuova vita alla simbologia tradizionale, conver ­tendola in metafore e in immagini poetiche, non senza l’influenza delle possibilità espressive, equivalenti a più complesse implicazioni psicologiche, della lirica italia ­na del Cinquecento. Mediante i nuovi simboli ideati per descrivere il mistero e il divino, il linguaggio dei mistici aveva reso accessibile ai più la visione di mondi la cui profondità oltrepassava di gran lunga la sfera della razionalità rinascimentale. La vita spirituale dei conventi era stata profondamente trasformata dalla vastità e dalla spinta del nuovo movimento e dalla ten ­denza a sostituire la preghiera liturgica con le pratiche individuali. L’aspetto più impressionante di questi at ­teggiamenti è l’importanza attribuita alle visioni, allo spirito perenne di preghiera animato da quelle presen ­ze angeliche che san Francesco di Sales avvertiva in gran numero. È noto, tuttavia, che il misticismo spa ­gnolo si caratterizzava per gli stretti legami con l’asce ­tica, tramite necessario per pervenire allo stato beatifi ­co, e non escludeva la vita attiva. Si esaltava lo stato umile come fondamento della vita conventuale, ciò che da ragione del diffondersi del culto di san Diego de Alcalá, il converso addetto alle cucine la cui biografia è un seguito di prodigi. La fervida ripresa della vita religiosa aveva dato altresì nuovo impulso alle tradizio ­ni teologiche che caratterizzavano le posizioni dei più importanti Ordini monastici.

La fioritura dei testi mistici del tempo di Filippo II era stata preparata dall’impulso all’ascetica dato da scrittori come Juan de ívila e Ignazio de Loyola e da precoci esempi della letteratura mistica come l’Abecedario espiritual (1528) del francescano Francisco de Osuna e la Subida del Monte Sií³n por la ví­a contem ­plativa (1535) di Bernardino de Laredo, che furono certamente, assieme ai rapporti con Juan de los íngeles e con san Pedro de Alcántara, uno dei tramiti attra ­verso i quali la spiritualità francescana pervenne a san ­ta Teresa de ívila e alle massime esperienze della mistica carmelitana. In una continuità diretta del pen ­siero medioevale, le fonti agostiniane e francescane, la concezione, risalente a san Bonaventura, del misticismo non già come visione intellettuale, ma come unione affettiva, l’atteggiamento di trasporto fondato sull’a ­more di origine francescana furono l’alimento e l’ispi ­razione della grande santa. Nel suo mondo di visioni e di immagini prevalgono il senso della realtà e degli aspetti concreti, l’amore delle creature, il cui ascenden ­te francescano si ritrova in scrittori coevi come Luis de Granada, e in un mistico più tardo come il Molinos e nelle sue esortazioni a trovare Dio in ogni cosa.

I motivi diffusi nei libri spirituali ci aiutano a co ­gliere le allusioni mistiche racchiuse nelle nature morte di Fray Sánchez Cotán e fors’anche in quelle di Van der Hamen y Leí³n, ma più chiaramente nei capolavori dello Zurbarán: non parlo soltanto delle ineffabili re ­dazioni dell’Agnello, chiara allusione del Cristo, e del-l’Ariete â— altro simbolo cristologico – pronti per il sa ­crificio, ma della Natura morta già Contini e di altri esemplari con oggetti e vegetali. In termini più gene ­rali, la letteratura religiosa, rivolta a lettori digiuni di teologia, e per questo capace, ora di accenti popolari e rustici e di allusioni continue a quella vita agreste che è l’essenza della provincia spagnola, ora di ingenuità quasi infantili e di indicibili delicatezze, espresse una gamma di atteggiamenti verso la realtà e il divino che rappresentano la introduzione più congrua alla grande fioritura dell’arte spagnola del Seicento.

L’accesa e immaginifica poesia della letteratura spirituale aveva promosso altresì una grande varietà di temi iconografici e di devozioni speciali, e la loro larga diffusione nei monasteri. Oltre che lo stilista assoluto che conosciamo, lo Zurbarán fu l’interprete della di ­mensione conventuale di questi culti, nell’intento di co ­glierne i significati più riposti e interiori, in una fonda ­mentale semplicità di spirito e in una tensione senza cedimenti che si ispira a un rigore dove hanno larga parte l’ideale spagnolo del sosiego e lo spirito estatico. Questi aspetti, e la capacità di fare di ogni oggetto raf ­figurato una perenne offerta, di evidenziare i simboli sui quali dovrà indugiare lo spirito meditativo del ri ­guardante, fanno di lui il massimo iconografo di que ­sta vita intensa e immaginifica, e il riduttore di eventi e sentimenti ineffabili alle esigenze di un messaggio comprensibile e popolare. Né, senza tenere aperto il costante rapporto con la letteratura spirituale, potremo intendere quei temi ispirati a una tenerezza monacale e domestica, il cui vertice è certamente l’episodio più volte ripetuto del Cristo giovinetto che medita sulla premonizione della Passione contemplando il dito pun ­to dalla corona di spine che tiene sul grembo. L’esem ­plare di Cleveland è la redazione più complessa e poe ­tica di questo soggetto spirituale che non si ritrova nel ­la pittura italiana. All’eco, sospesa nell’intimità della stanza, dei pensieri del Cristo partecipa la Madonna, la testa appoggiata alla mano per alludere a un atteg ­giamento pensieroso e malinconico secondo una precisa tradizione iconografica. L’espressione di dolore e di pianto ratténuto dimostra nella sua complessità psico ­logica come si sia proceduto nel secolo inoltrato nella rappresentazione dei sentimenti, superando i risultati avviati alla fine del Cinquecento dagli innovatori della pittura.

La frequenza del tema della sacra Famiglia allude alla personificazione intima e domestica della Trinità, quelli ricorrenti di Gesù bambino e giovinetto, della Preghiera, del Sonno, e dell’Educazione della Vergine sono simboli e modelli dell’infanzia intesa come purità e innocenza. E se il Cristo che porta la croce rievoca una visione descritta da sant’Ignazio, il soggetto dell’Incoronazione di san Giuseppe si ispira agli scritti di Giovanni Battista de Lectis, nell’ambito della ripresa del culto del santo, che, caro a Teresa de ívila, fu dif ­fuso dalla Spagna da carmelitani, francescani e gesuiti.

Un racconto, accolto e diffuso nel Seicento dagli Annales Ordinis Minorum del Wadding, riferiva che, in una ricognizione compiuta nel 1449 nella cripta del ­la basilica di Assisi, Niccolo V aveva scoperto il corpo di san Francesco, in posizione eretta, rivestito del saio, con le mani giunte e gli occhi aperti e perduti in uno sguardo che sembrava scrutare l’aldilà. Sollevando la tonaca, egli poté vedere che dalla piaga del piede scor ­reva ancora il sangue. Questa leggenda ci dà la chiave – come ha avvertito il Mí¢le – per una emozionante e retta lettura del San Francesco del Museo di Lione, che lo Zurbarán rappresentò come figura isolata e in ­tenta, con la bocca socchiusa, gli occhi soltanto vivi, rivolti a una visione sovrannaturale. L’isolamento scul ­toreo di questa immagine, che è probabile racchiuda in sé anche l’allusione all’annichilimento delle attività in ­teriori ed esteriori e al silenzio delle potenze raggiunti nei più alti gradi della mistica, sarà ripresa in un’altra mirabile realizzazione dell’arte spagnola, la statua del ­la cattedrale di Toledo di Pedro de Mena.

Dalla sopravvivenza e la ripresa di testi medioeva ­li – tra questi la Leggenda aurea, la Biblia pauperum, lo Speculum humanae Salvationis – continuarono ad affluire nel periodo della Controriforma motivi iconografici e temi per la pittura religiosa, ed è caratteristico esempio di questo atteggiamento la disputa apertasi sul Crocifisso. Nella redazione giovanile di Siviglia, lo Zurbarán ha raffigurato il Cristo con i piedi incrociati o infisso con quattro chiodi, così come era stato descrit ­to nelle Rivelazioni di santa Brigida ristampate nel 1606. Il ciclo di san Bonaventura compiuto dal Nostro e da Francisco de Herrera per il collegio omonimo di Siviglia rappresenta la più intensa rievocazione com ­piuta dalla pittura del Seicento del santo medioevale, che fu tra i più cari alla mistica post-tridentina, e so ­prattutto spagnola, per il candore angelico e l’ardore di carità. L’episodio della visita di san Tommaso a san Bonaventura nella sua cella, rappresentato nel quadro _rià a Berlino, è una mirabile trascrizione visiva che, come un exemplum medioevale, contrappone la sua concezione della conoscenza di Dio attraverso l’amore e lo slancio della volontà mossa dalla grazia, al razio ­nalismo di san Tommaso, e, sul piano istituzionale, le posizioni dottrinali francescane a quelle domenicane.

Si è detto della riduzione dell’iconografia zurbaranesca a un significato intensamente e poeticamente conventuale. Tale fine è attuato mediante la semplifi ­cazione strutturale dell’immagine e l’uso bloccante della luce, che evidenziano la semplicità e lo spirito di povertà degli interni spogli e delle poche suppellettili, e. giocando con gli spigoli ombrosi delle pareti, le sta ­gliano contro la chiarità abbagliante, meridionale, degli esterni. I modi alieni da raffinatezze mondane l’i specchiano il tipo di vita degli Ordini di origine medioevale e il ceto che per larga parte popolava i conventi. Da questa semplicità rustica e potente, ma anche atta a trasformarsi in iconografia fissa, derivò la diffusione dell’arte zurbaranesca fino al livello dell’imagerie popolare e coloniale.

È legittimo considerare un probabile significato spirituale e simbolico nel ripristino ‘neocaravaggesco’ e privilegiato dell’uso della luce, adottato dallo Zurbarán. e che lo differenzia notevolmente dal Velázquez e dal Murillo. La luce vista agostinianamente come veicolo inondante di grazia, infuso ed espressione rive-latrice di vita spirituale oltre che di vita fisica, come è motivo ricorrente nella mistica spagnola (Malí³n de Chaide: “Dios es luz del sol en el cuerpo del mundo”), e come suggerisce anche la nota immagine, affatto ‘prezurbaranesca’, del Cervantes, che in El rufián dichoso descrive nella sua cella un monaco “que està a oscuras y es de luz”. I contatti, opportunamente ipotizzati dal Soria, dell’artista con le esperienza della invasione passiva degli alumbrados (illuminati), di cui Llerena fu un centro importante tra il 1570 e l’80, e che appaiono attivi a Siviglia tra il 1616 e il ’30, po ­trebbero assumere un peso decisivo per precisare il si ­gnificato del veicolo luminoso nell’opera dello Zurbarán e della sua presenza preponderante.

All’azione formalmente sintetica della luce (e per ­ciò di ascendenza certamente italiana, di contro alla costante prevalenza in Ispagna di una accezione anali ­tica del realismo), ma indubbiamente riduttiva e disci ­plinante nei confronti della visione, deve abbinarsi in modo inscindibile la matrice arcaistica e cultuale degli schemi rappresentativi usati dal Nostro. Si potrebbe dire che egli ha operato una sorta di sublimazione delle immagini devozionali e stereotipe diffuse largamente in Ispagna nel Cinquecento attraverso le incisioni fiam ­minghe. Soltanto in questo senso possiamo ritrovare i suoi precedenti in quei prodotti inartistici e mortifi ­canti che sono le immagini sacre di Hernando Sturm e di Sánchez Cotán, pittore altrettanto sciagurato negli assunti religiosi, quanto notevole nelle nature morte. ‘Stampe di Fiandra’ ingrandite e pervase da un comu ­ne spirito meditativo sono i Santi certosini immaginati dallo Zurbarán con immedesimazione profonda (e sap ­piamo che egli divise la vita dei monaci a Jerez, quando dipinse per loro) in lenti e silenziosi cortei, che certamente alludono alle regole della comunità di quell’Ordine, ma non possono non ricordarci, in una rievocazione significativa, anche le teorie dei mosaici bizantini di Ravenna. ‘Stampe di Fiandra’ ingrandite e genialmente modificate sono le sue celebri Sante ag ­ghindate nei costumi dettagliatissimi della provincia spagnola e che sembrano preludere al gusto arcadico, o in panneggiamenti serici la cui ampiezza fastosa è aggiornata sulle incisioni di ambito rubensiano. Appa ­rentemente incomprensibili nel corpus del pittore per la loro mondanità, queste immagini riflettono un altro aspetto fondamentale della letteratura spirituale spa ­gnola tra il Cinque e il Seicento, quel ” costumbrismo pintoresco ” che colora la Conversií³n de la Magdalena di Malí³n de Chaide composta tra il 1578 e l’83; un genere destinato ad affermarsi (di qui la sua impor ­tanza come indicazione di avvio alle imminenti inter-pretazioni figurative dei soggetti religiosi) per l’imma ­ginazione circostanziata, al fine controriformistico di parlare ai sensi, simbolicamente spinta all’iperbole – ciò che corrisponde in pittura alla rappresentazione ingrandita ed essenziale degli attributi della santità e dei martiri â—, giocata sui contrasti di gale e povertà, go ­dimenti mondani e sofferenze fisiche e ascetiche. Essen ­ziale per intendere, le Sante dello Zurbarán, lo spirito del ” costumbrismo pintoresco” ci offre la chiave per penetrare anche nel meccanismo emotivo della lucidissima e sconvolgente Tentazione di san Gerolamo di Guadalupe, i cui nessi col Ribera gettano qualche luce sulle analoghe motivazioni della pittura napoletana. Se le figurazioni isolate di Santi, che la bottega del ­lo Zurbarán produsse largamente per soddisfare le ri ­chieste della provincia meno colta e delle colonie, assumono un valore paradigmatico della continuità di certi aspetti ‘sottosviluppati’ della devozionalità catto ­lica, tuttavia gli esemplari autografi ritrovano il pro ­cesso per dare a tali immagini e al loro significato una nuova vita interiore e, come ho già detto, per subli ­marli. Il loro carattere di figurazioni ‘senza tempo’ si esprime anche nella inevitabile tendenza arcaizzante di fondo, che è uno degli aspetti capitali dell’arte del Nostro. L’abbiamo già notata nell’uso della luce, ma si dovrà indicare anche nel colore, nelle larghe campiture che trionfano sulle superfici dei panneggi, superbe co ­rruzioni e concrezioni luminose che, se certamente non ignorano la lezione del Ribera e, mediatamente, del Reni, acquistano un significato decisamente ‘neomedioevale’ nei toni puri e di preferenza a stesura unita. Se è vero che soltanto l’opera può rivelarci la storia vera e più profonda di un pittore e il senso autentico lei documenti che ci sono rimasti, vediamo come deb ­ba situarsi, così come si legge nei dipinti, la posizione dello Zurbarán nell’ambito dello sviluppo delle ideolo ­gie mistiche e religiose, nonché nelle loro connessioni con la vita conventuale. Negli anni in cui egli operava, era ormai lontano il momento di tensione e di passione intrepida in cui la Chiesa era passata al contrattacco per far fronte alla gravissima crisi provocata dalla ri ­forma luterana. Alle storie edificanti, ai miracoli dei santi, alle rievocazioni impressionanti dei martirî, la cui iconografia si era diffusa in Ispagna con i galeoni di dipinti che giungevano dall’Italia (la Toscana ave ­va avuto grande parte in tale diffusione tra la fine del Cinquecento e i primi del secolo seguente), e attraver ­so l’opera di pittori italiani come i Carducho, e italia ­nizzanti come il Ribalta, vennero sostituendosi in pre ­valenza i soggetti estatici, i cui precedenti in Ispagna si potevano largamente trovare nell’opera precorritrice del Greco. L’azione vi è assente, oppure travolta dalle visioni, in un atteggiamento che contrappone la mistica spagnola, con le sue filature arabe e tedesche, all”azione’ umanisticamente intesa, sempre apprezzata dalla tradizione italiana. I martirî non sono rappresentati nel loro momento più drammatico, ma già consumati, come nella figura isolata del San Serapio di Hartford, oppure visti attraverso la mediazione del contemplan ­te, in immagini ormai stoicamente composte, ma non per questo meno emozionanti, come l’Apparizione di san Pietro crocifisso a san Pietro Nolasco del Museo del Prado. Trasformate nell’equivalente figurativo di ciò che il linguaggio degli iniziati ha chiamato invasio ­ni mistiche, le visioni si spalancano nell’interno di una cella e sullo sfondo di un Presepio o di un edificio, ri ­baltano il ciclo sulla terra con una violenza e un con ­trasto sconosciuti ai pittori italiani, per i quali la con ­vivenza delle due sfere dell’umano e dell’ultraterreno non manca mai di comporsi secondo un’ottica di origi ­ne classica che assicura e idealizza il trionfo dell’uma ­no. Nulla ci fa intendere meglio della pittura spagnola dal Greco allo Zurbarán il valore totale e la profondità abissale delle esperienze dei grandi mistici.

Avviato da santa Teresa (“Nada te turbe / Nada te espante / Todo se pasa / Dios no se muda”), e anche più intensamente da san Giovanni della Croce, il processo per arrivare alla contemplazione estatica mirava al raggiungimento di una pace interiore che non si sottraeva al pericolo di rendere secondari i va ­lori della fede e dell’azione, il problema della salvazio ­ne e della lotta col peccato. Gli sviluppi di questa nuo ­va spiritualità, largamente diffusa nel Seicento nelle forme di quell'”amour désintéressé” che sarà caro a Fénelon e a Bossuet, avrebbero portato alle posizioni quietiste del Molinos condannate dalla Chiesa, e coin ­cidenti con l’annullamento delle attività interiore ed esteriore, e con una visione dell’amore spirituale peri ­colosamente sganciato dalla legge morale.

Il percorso di Francisco de Zurbarán appare chia ­ramente teso a raggiungere e a rappresentare lo stato di quiete dell’anima posseduta da Dio, ma sarebbe im ­proprio, nonostante i suoi probabili rapporti con gli alumbrados, identificarne l’opera, come è stato tentato, con le posizioni quietiste. Vasta e appassionante rap ­presentazione di una vicenda interiore, essa ci appare altresì come un corpus di mirabili exempla della vita monastica, di perentorie istruzioni impartite dai santi protettori e ispiratori degli Ordini, di episodi edificanti il cui significato istituzionale, ascetico e pedagogico, riflette con pari intensità l’aspetto attivo del misticismo spagnolo.

 


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Bart