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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

PITTURA: Dal quadro al racconto: Autoritratto ridente

17 Novembre 2007

racconto di Lucetta Frisa

[Gli ultimi libri di poesie pubblicati da Lucetta Frisa sono: “L’altra”, Manni, 2001 e “Se fossimo immortali”, Joker, 2006]

Non hanno quasi bussato. Penetrati in questa casa dove non so se esistano ancora porte e finestre.
    Entrate, accomodatevi. Vi guardo ma non vedo una faccia che possa chiamarsi così. Tutto grigio. Grigio anche l’abito.

È un colore, il grigio? Per me è assenza, vuoto. Oppure limbo, purgatorio, quotidianità – forse tempo non vissuto o speso male, la   sua miseria, il suo peso. Sulla mia tavolozza non l’ho mai cercato.   Voi siete solo ombre dalla voce noiosa e pigolante. Piombàti qui da un interregno a ghermire la mia ultima cassapanca. Apritela pure. È vostra. Ora anche lei è diventata grigia, per me.
    Turbanti orientali dal broccato consunto, un mantello tutto polvere e muffa e un bastone che servirono per autoritratti fortunati. E questo cappello di pelo scuro? Mio padre non voleva indossarlo per farsi ritrarre, si vergognava. Un po’ di vasellame, di quello buono che piaceva a Heinrickie, ma non lo usava mai. Troppo bello, diceva, e poi Tito avrebbe potuto romperlo. Ce n’è più poco infatti, ma non per colpa sua.
    Non piangere, Cornelia. So che giocavi di nascosto con queste cianfrusaglie.   Davanti allo specchio come facevo io davanti alla tela, diventavi regina, imperatrice, dea, e ti pavoneggiavi, comandavi a dei servi immaginari e ridevi, ridevi felice.
    Il fulgore degli oggetti, i loro insidiosi veleni, il loro calore, da cui ancora dipendi. Desiderio e accumulo è il destino di chi è giovane. Io, il passato, l’ho messo nelle tele per potermene staccare.
    Addio, grigi signori senza sguardo. Non tornerete più perché non c’è più niente da prendere. Resto solo io se vi interesso, e il mio cavalletto, pennelli, tele, colori.   Ma questi miei occhi troppo stanchi non posso darveli.
    Ora che se ne sono andati, Cornelia, dammi una mano a spostare il cavalletto. Senza quella brutta cassapanca guarda quanto spazio. L’aria è più preziosa delle cose, le avvolge tutte finché un giorno, non si sa come, riesce a entrarci dentro e loro si aprono, se ne vanno per sempre dalle stanze come dalla memoria.
    Vedi che cominci a ridere?   È l’aria che ti è entrata nella testa. È bello, no? Sembra di guardare dall’alto di una terrazza mentre una parte di noi è ancora sotto ad arrancare, come un insetto con le ali strappate.
    Molte volte, ridendo, ho segnato a che punto del tempo mi trovavo. Ogni volta con un sorriso diverso. Io e Saskia ridevamo molto – io avevo lei e un regno di cose. Lei timida, compunta, intimorita dalla mia esuberanza. Le ho dilapidato la dote, lo so. Non mi ha mai perdonato. Di tutto quanto guadagnavo e compravo dovevo poi liberarmene: godere e distruggere, senza misura. Acquisire e buttare via. Sono fatto così.
    Ho dipinto questa inquietudine – l’inquietudine di tutti quelli che ho incontrato, l’inquietudine che è dentro l’aria e ci contagia.

   

Prima c’era più luce, nei miei quadri. Ma i volti non sapevano coglierla tutta, perché ero ancora giovane inesperto. Poi, poco a poco, dal buio come dal passato, li facevo emergere col loro sorriso. La mia mano meno sicura, una scossa leggera la univa a quel volto che perdeva i contorni, perché la piccola luce che nascondeva in sé potesse uscire e vibrare unita all’altra, più grande,   che tutti ci avvolge.
    L’uomo è condannato a dissolversi. In lui ci sono cose che appartengono al mistero e iniziano a mostrarsi solo verso la fine della vita. Forse a quel punto raggiunge veramente quello che è. Con il suo destino, il suo carattere: senza maschere.
    Ma io non sono né un filosofo né un poeta. So solo tenere bene in mano i pennelli. Quasi per caso, la tecnica e l’esperienza toccano qualcosa di essenziale.
  Furiosamente ho fissato i volti nell’attimo che li amavo perché sapevo che presto o tardi li avrei perduti.
  Forse il segreto sta nel fissare un punto, intensamente. Poco a poco diventa più luminoso, e intorno, tutto sparisce. Ho fatto così con la mia pittura. Ho concentrato lo sguardo.   Ed è così anche quando ami tanto qualcuno. Quel punto si allarga finché la sua luce contamina tutto, abbaglia, e l’aria che lo circonda ne è come risucchiata. Poi subentra una sorta di sperdimento. Ma dopo, ritornano, ineluttabili, i contorni del presente, e tante volte l’oscurità. E ogni volta, è un po’ più profonda.
    Quante volte ho spostato il cavalletto. In quei pochi centimetri evitavo il precipizio del tempo, seguivo docile il suo ritmo e non mi fermavo. È diventato un rito, ormai.
    La prima volta fu per Saskia, subito dopo il funerale. L’ho messo più laterale alla finestra. C’era più aria. E dopo quel penoso processo di Geertge, mi trasferii addirittura in un’altra stanza. C’era più luce. E poi per tua madre – non volevo perderla e continuavo a ritrarla in tutti i modi – e   infine per Tito.
    Un gesto, un piccolo gesto per dare aria alla mia vita e all’uomo pazzo che sono sempre stato.
    E adesso, Cornelia, ridiamo insieme ?

Nota
Il presente racconto me lo ha suggerito l’omonimo dipinto di Rembrandt che si trova al Stedelsches   Kunstinstitut a Francoforte. Cornelia è l’ultima figlia del pittore, sopravvissuta ai diversi lutti familiari.


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