LETTERATURA: I MAESTRI: “Quindici” discute26 Maggio 2012 Perché lascio la direzione di « Quindici » «Quindici » è un giornale fondato sulla fiducia in terna, non sulla routine professionistica. Un gruppo di scrittori lo ha inventato dal nulla, e io sono uno di questi. Credevamo di poter fare una cosa che al largasse un poco la nostra udienza, e l’abbiamo fatta. Abbiamo avuto successo, più di quanto noi stessi spe ravamo. Il merito non è mio, né del direttore edito riale. Il merito è della fiducia reciproca che ha sor retto tutti noi. Io stesso, quale responsabile, non ero che un fiduciario del collettivo. Nessuno mi ha tolto la fiducia, e io la conservo da parte mia per tutti i collaboratori. Dunque perché, «sul più bello », ho deciso di andarmene? E difficile da spiegare, e mi ci proverò. Forse occorrerebbe un lungo discorso, una cronistoria mi nuziosa. Negli ultimi tempi mi estenuavo, più che a raccogliere il «materiale », in lotte sempre meno allegre per bloccare le infiltrazioni di materiale oscuro e demagogico. Il mio crescente disagio na sceva dalla sensazione sempre più opprimente di es sere entrato, quasi senza accorgermene, nella Orto dossia del Dissenso. Sia chiaro che io sono stato felice di pubblicare nei numeri scorsi certi documenti: le carte rivendicative degli studenti dell’Università di Torino, la teologia della violenza, la protesta dei cit tadini di Orgosolo, sono fatti che noi abbiamo por tato per primi all’attenzione di una grande cerchia di lettori, fatti che era giusto parlassero con il loro linguaggio. Ma il materiale di cui è composta una rivista è forse meno importante dell’atmosfera in cui viene proposto, il passaggio dal documento, o dal l’argomento, «giusto » al documento, o all’argomento, «facile » avviene in maniera percettibile ma subdola. Comincia il ricatto psicologico della cosa di cui si deve parlare. Il Dissenso diventa una merce che bisogna fornire. Non si ragiona più se non col Dissenso Comune. Il disagio s’è precisato: è il rifiuto di prestarsi al consumo del Dissenso. Mancano i nessi, è confusa la prospettiva politica. Allora lo stesso «materiale » che posto in una precisa coscienza riceverebbe la tua incondizionata approvazione, ti appare come puro alibi, deposito di angoscia, rogna politicosa. Un giornale come il nostro dovrebbe essere aperto a errori e fantasie, testimonianze contradditorie e sani litigi (questo, infatti, è puntualmente avvenuto); ciò che «Quindici » non può sopportare, senza snatu rarsi, è anche il solo sospetto della pressione irrazio nale e della prevaricazione (esercitate ora per soddi sfare l’ipotetico lettore, ora perché tira il vento). Il giornale non è un fatto compiuto, la sua struttura interna potrà anche essere riveduta. Ma la mia impres sione è che sta diventando un’altra cosa da quella che volevamo, e, naturalmente, posso sbagliarmi. Co munque sia, prima che comodi equivoci siano messi in giro, dico esplicitamente che non ci si può costrin gere perpetuamente nel falso dilemma: «credi o no alla rivoluzione? » â— perché sappiamo tutti benis simo (e abbiamo lottato negli anni scorsi per saperlo fino in fondo) che, sia chiaroveggente o sprofondi nell’incertezza, lo scrittore vive sempre sul filo e po trà rivelarsi rivoluzionario nell’incertezza o pompie re nella chiaroveggenza; ma poi, chi è che vede tanto chiaro, oggi? Pesci rossi e tigri di carta Un tale, che da molto tempo non vedeva il signor K., lo salutò con le parole: «Ella non è per nulla cambiato ». «Oli! », esclamò il signor K. impallidendo. Brecht, «Storie da calendario » Potrebbe sembrare bizzarro mettersi a fare un discorso «storico » su avvenimenti che risalgono al l’inizio del presente decennio. Ma le cose cammi nano in fretta, le valutazioni «storiche » non le abbia mo cominciate noi, ci piovono addosso, e d’altra parte bastano fatti come quelli dell’ultimo anno, in Italia e nel mondo, per consegnare alla storia le vi cende di due anni fa. Nel giudicare questa operazione anche i critici più avveduti e responsabili sono caduti in una trap pola imperdonabile, poiché hanno accettato un’arma polemica apprestata da una cultura che, se era rifiu tata dal Gruppo, è rifiutata anche da loro (e sto pensando alle analisi sul Gruppo 63 condotte da Gian Carlo Ferretti nella sua Letteratura del ri fiuto (ed è solo un esempio, credo il più rispetta bile, tra tanti). Questa trappola consiste nell’argo mento sviante: «il Gruppo si è posto come Gruppo di scalata al potere letterario, per impadronirsi, dal momento che accettava la civiltà dell’industria cul turale, dei suoi strumenti fondamentali, televisione, case editrici, giornali ». La confutazione di questa trappola non ha il senso di una virtuosa affermazione di purezza: è anzi il riconoscimento di una compromissione di origine. E cioè: il Gruppo non è nato come Fatto di ribellione di giovani inesperti esclusi dal potere, emarginati dal sistema. Quasi tutti i protagonisti del Gruppo, prima di quella aurorale riunione di Palermo 63, nel sistema c’erano già e già amministravano il potere (ovviamente: se di potere si può parlare a proposito della gestione degli spazi tradizionalmente sovrastrutturali). Erano già direttori di collane editoriali, di trasmissioni televisive, collaboravano già a riviste e giornali, con un margine tale di scelta â— con un margine talmente «opulento » di decisionalità â— che di lì nasceva la loro crisi. Il problema era infatti: come discutere questo potere che erano stati obbli gati a gestire? Dico «obbligati » perché si tratta di un evento gene- razionale: giovani formatisi negli anni cinquanta, gli anni della grande pace e del ventennio bianco, quando le lotte universitarie erano nel chiuso tepore degli organismi rappresentativi, e lo spazio esterno era quello della burocrazia partitica, o un impegno privato di approfondimento culturale. Ma anche la scelta dell’approfondimento culturale (il che signi ficava prendere coscienza delle nuove dimensioni di una società industriale, dei nuovi sistemi di comu nicazione all’interno della società, e quindi delle nuove dimensioni dei processi sovrastrutturali) con dannava a una forma insensibile di inserimento: usciti dall’università (per maturazione o per fuga) non nasceva il problema di una lotta arcigna per l’esistenza. Giornali e case editrici, mezzi di massa e istituzioni venerabili erano lì a offrire le possibilità di un discorso all’interno â— con la stessa facilità con cui lo studente anarchico del secolo scorso era condannato a correggere bozze e a scrivere notte tempo indirizzi sulle fascette dei giornali, o a farsi istitutore dei figli degli aristocratici. Avevamo tutto. Alcuni di noi erano già persino (cosa desiderare di più dalla vita) giudici del Premio Strega. Cosa desiderare di più? Si poteva decidere di per fezionare la condanna. Visto che come Rastignac non si aveva avuto il tempo di dire Parigi a noi due e Parigi era nostra, si poteva tentare di diventare anche Nucingen. Essere ancora più dentro ai gior nali; distribuire noi e noi soltanto i premi; confe zionare libri, visto che chiunque ce li pubblicava, che raggiungessero tirature da miracolo economico. Il Gruppo 63 nacque invece perché alcune persone, dall’interno delle istituzioni, avevano fatto una scelta. Su due fronti. Su quello della politica culturale spicciola e su quello della cultura come atto politico. Sul primo fronte il progetto consisté nel fare saltare le strutture invisibili del piccolo cabotaggio culturale: sottomettere il piccolo sistema della società lette raria (che era, questo si, un gruppo di potere) a una critica del suo funzionamento onanistico ed erma frodita. Impresa piccola, tutto sommato, ma la più immediata possibile. Sia chiaro che, poiché si par tiva da posizioni di potere, il rischio non era enorme. Si buttava via quello che non interessava possedere in più, per allergia e per vergogna. Si perdevano alcune chanches, qualcuno di noi le ha perdute. In ogni caso non si restava sul lastrico, neppure a volerlo. Non siamo stati affatto degli eroi. Sul secondo fronte, l’operazione era più complessa e profonda. Attra verso il piccolo sistema della cultura ufficializzata si era sottoposto a critica il grande sistema della società borghese; ma con la coscienza che in quel momento, con la situazione internazionale congelata nella coesistenza e la situazione politica interna congelata nell’opzione tra centro sinistra e rifiuto passivo del centro sinistra, per noi â— nati e cresciuti come ope ratori soltanto culturali â— non c’erano modi diretti di incidere sulle strutture di base (sì certo, alcune scelte politiche, alcuni assensi a un partito piuttosto che a un altro, ma, lo si è detto, queste erano le decisioni individuali che non ci coinvolgevano come gruppo di elaborazione culturale â— e gli eventi e la formazione ci portavano invece a pensare in termini di elaborazione culturale). C’era una sola strada: criticare il grande sistema attraverso una critica della dimensione sovrastrutturale che ci apparteneva e che potevamo gestire: di qui la decisione di un discorso sul linguaggio, la persuasione â— mai rinnegata â— che un rinnova mento delle forme comunicative e la distruzione delle forme assestate costituisse un modo autonomo e rilevante di criticare e sconvolgere quello che le forme culturali esprimono e â— se si ha un minimo di fiducia nella dialettica tra sovrastruttura e strut tura â— contribuiscono a determinare. La contestazione integrata Vogliamo dire che questa contestazione attuata sulle forme della cultura rappresentò il primo passo di quella contestazione più ampia che oggi coin volge gli aspetti più concreti e decisivi del tessuto so ciale? Proprio non mi sentirei di condividere un orgo glio così consolante. Ma che anche in quei nostri discorsi qualcuno abbia trovato suggerimenti e mo delli di un discorso diverso, questo non mi sento di escluderlo, perché nell’ordine delle sovrastrutture (è una mia vecchia tesi) non esiste blocco riformistico, e ogni catena di idee produce esiti imprevedibili e a lungo termine, persino quando a breve termine viene prodotta e smerciata attraverso i canali con sueti di un sistema delle merci e dei consumi. Una persuasione era chiara, e costituì pietra dello scandalo: che se a livello della letteratura, dell’arte, della filosofia, a quel livello della «cultura » che è il livello della comunicazione globale di cui una società si nutre (per generarsi in quelle strutture che comunicazione non sono, e che condizionando la comunicazione ne sono condizionate) si deve con durre un discorso di rottura, non serve comunicare nei modi consueti la volontà di rottura (suonare il piffero alla rivoluzione) ma bisogna rompere i modi stessi della comunicazione. Questa fu la «poetica » del Gruppo 63, l’unico punto di consenso in una co munità di persone che, per il resto, avevano ciascuna il proprio progetto. Di fronte a questo atteggia mento â— su due fronti â— vi furono due tipi di rea zione. La prima (talmente ingenua e vile che non varrebbe la pena di parlarne se non avesse offerto le «trappole argomentative » di cui si diceva a chi invece fa un discorso più responsabile) fu quella del cosiddetto establishment culturale che si vedeva messo in questione. Da chi? Non da chi aspirava ad entrarvi, ché la repressione sarebbe stata facile; ma da chi c’era già dentro. Per cui apparve comodo confondere le acque e indicare nelle azioni «terro ristiche » del Gruppo 63 e dei suoi compagni di strada il gesto di chi, escluso da un potere, tenta con mezzi insoliti di darvi la scalata. Se fosse stato così, saremmo stati o dei rivoluzionari o dei Lucien de Rubenpré, in ogni caso dei Vautrin. Siccome eravamo dentro, la posizione non appariva classifi cabile. Di qui il tentativo di dire che eravamo fuori e protestavamo, mentre si protestava contro di noi perché eravamo dentro ma non accettavamo il gioco. Da questa trappola deriva poi il giudizio frettoloso sugli eventi successivi: «e poi anche loro si sono in tegrati ». Qui sta l’equivoco: eravamo già integrati, e tutto quello ch facevamo esprimeva il disagio di chi non si trova a proprio agio nella casa paterna. Quindi non siamo stati dei rivoluzionari. Aprendo il secondo fronte abbiamo tentato, con molta buona volontà e la «ybris » di chiunque si scelga un modello, di essere degli enciclopedisti del secolo dei lumi. Ma nessuno ha mai pensato che quello che face vamo costituisse una somma di gesti letterari pri vati â— come se fossimo gli ultimi rampolli degli ermetici impegnati a trovare un tavolo libero alle Giubbe Rosse per scrivere, di rosso, solo i propri pesciolini elzeviristici. L’impegno culturale del gruppo era, a chiare let tere, un impegno civile; e non nel senso che è civile l’impegno del poeta che, veggente, propone messaggi alla società per impieghi futuri e ancora imprevedi bili; ma perché credevamo che il nostro modo di fare cultura fosse un modo corretto, nella situa zione esistente, di agire politicamente. E ci fu chi se ne accorse senza indugi â— solo che è spiacevole citare come testimoni privilegiati i giornali di destra che costruirono, nel loro linguaggio mitologico e apocalittico, l’equazione «avanguardia = comunisti » (come a dire â— allora -â— «cinesi », senzadio e man giacristiani, dissacratori di abbazie e stupratori di vergini per ordine di Lin Piao). E proprio da questo tipo di impegno che era il nostro, si generava la seconda reazione, la reazione al secondo fronte, di chi giocava di bussolotti cercando di dimostrare che con noi era nata la generazione del disimpegno. Certo, se l’impegno era dipingere partigiani fucilati per le ville della Brianza, chi scriveva romanzi senza intreccio in cui non si parlava di partigiani era «disimpegnato » (e che cuccagna se si poteva dimo strare che una copia di questi libri appariva anche sul tavolo del salotto di una villa della Brianza). Se non si chiarisce il senso di quello che era allora il nostro impegno non si capisce neppure perché «Quindici » ora è al punto in cui è. E non capirlo significa smentire quello che allora si diceva sul nostro tipo di impegno. Ora, io almeno, quello che allora si diceva non lo smentisco: vedo (non per comoda consequenzialità ma per sviluppi contraddit tori ed incomodi) una linea continua che lega il discorso di allora al discorso che «Quindici » fa adesso. Ma solo perche, sia chiaro, nei presupposti del Gruppo ce n’era uno fondamentale: che esisteva il diritto di contraddirsi e di mettere in questione, ad ogni istante, le conclusioni raggiunte. Specie se tutti gli altri, a un certo punto, diventavano pericolosa mente e irenisticamente d’accordo. Le contraddi zioni non stanno mai ferme dove si erano incontrate per la prima volta: slittano â— le sventate. Se non si ha il coraggio di andarle a ritrovare più avanti, negando come Sistema quello che un minuto prima era ancora Utopia, allora non si è fedeli alle proprie premesse di un discorso «aperto ». Baby Quindici E veniamo ora alla nascita di «Quindici ». «Quindici » è nato proprio perché a un certo punto le riunioni «rivoluzionarie » del Gruppo 63 erano pronte a diven tare accademia; perché (come si è accorto Ferretti nella parte della sua critica al Gruppo che mi trova consenziente) oltre un certo limite il discorso spe rimentale, proprio perché è riuscito, non è più spe rimentale; perché l’autre diventava míªme, perché il Gruppo si trovava a dover incarnare nella pratica quella dialettica, già teorizzata, di accettazione-rifiuto, di establishment-rottura, che costituiva il nodo poli tico della sua azione. «Quindici », sia chiaro, non nasce come soluzione a questo problema: nasce per intanto come riconoscimento di una nuova fase. E nasce (per caso?) mentre gli eventi fanno maturare anche all’esterno una nuova fase nel discorso politico internazionale. Curiosamente «Quindici » viene pro gettato ancora come uno degli ennesimi strumenti per condurre un discorso di critica al sistema all’in terno del sistema, come rivista in rotocalco finan ziata da una società di editori: e per ragioni che oggi appaiono abbastanza chiare e niente affatto curiose, su questo progetto ci si arena per due anni, in un mondo in cui far nascere una rivista, se ci sono i soldi e i collaboratori, è la cosa più facile del mondo. Oggi dobbiamo riconoscere con soddisfazione che, se c’erano i soldi e i collaboratori, quelle che man cavano erano le idee. «Quindici », pensato come era all’inizio, non aveva più ragioni di nascere. E così, quasi per sbaglio, come per un gesto im pulsivo, per pura nevrosi (è assurdo parlare di deci sione politica consapevole all’inizio del 1967) «Quin dici » nasce come giornale autofinanziato e â— in termini di industria culturale â— noioso e sgra devole. E tuttavia la formula tipografica è in anticipo sulla formula culturale: perché «Quindici », nonostante le crisi e le buone intenzioni, nasce ancora come una rivista fatta da uomini di cultura per gli uomini di cultura. Certo molti ai questi uomini di cultura hanno un impegno politico (ma lo avevano già ai tempi del Gruppo 63) e pensano di intervenire su «Quin dici » anche con articoli «politici » (e lo si è fatto sin dal primo numero), ma il nocciolo della questione è ancora quello vecchio: «Quindici » nasce come gior nale autoritario di un gruppo di potere culturale che vuole diffondere il proprio «messaggio ». Proprio nel momento in cui come gruppo non ha più alcun messaggio. A questo punto «Quindici » prende la mano ai suoi redattori. Però lo fa attraverso una serie di scelte discusse sino in fondo, perché siamo stati responsabili tutti delle singole scelte. Quello di cui non siamo stati responsabili è il quadro totale in cui queste scelte si sono inserite e che hanno gene rato. Ma è questo il punto: l’esperienza di «Quindici » convinceva quelli di noi che ne avessero avuto ancora bisogno che l’uomo di cultura in quanto tale non è né vate né veggente idiosincratico che abbia diritto al proprio spazio privato. E agito. Era agito prima â— e se anche se ne rendeva conto aveva tentato di agire ciò che lo agiva, tentativo assennato, se la dialettica ha un senso, ma dissennato se si pensava che questa azione annullasse la dialettica. Se si era accettato prima di essere agiti, e da qualcosa in cui non ci riconoscevamo, a maggior ragione si trattava di accettare di essere agiti ora, dai fatti nuovi che riproponevano il discorso politico in altri termini, che aprivano quello spazio di azione che prima non trovavamo â— e che quindi sconvol geva dalle fondamenta il nostro stesso discorso cul turale: perché un conto era parlare di un impegno sulle sole sovrastrutture culturali quando le strut ture venivano gestite al di fuori del nostro controllo, e un conto era parlare di impegno culturale ora che il nuovo orizzonte internazionale, la nuova visione dei rapporti di potere all’interno di una società in rivolgimento, ci permetteva (ci imponeva) di parte cipare anche noi al discorso politico, e non attra verso la mediazione dei partiti â— soltanto â— ma anche in proprio attraverso atti di invenzione, nel quadro di una globale prise de la parole. Se ora potevamo e dovevamo partecipare al nuovo discorso, questo ci imponeva anche di rivedere, con la nozione di impegno culturale, la stessa nozione di cultura. Le cose stanno ora a questo punto: che «Quindici » non ha compiuto quest’opera di revisione, e questo rimane un programma, anche piuttosto oscuro. Ma «Quin dici », diventando così come è ora, ha posto le pre messe imprescindibili per questo discorso. Rifiutare «Quindici » così come è ora significa non riconoscere che dobbiamo fare un discorso diverso; e significa che anche i discorsi già iniziati non avevano senso. Scrivere un giornale Nell’affrontare il discorso dell’anno 1968, «Quin dici » è parso darsi in appalto. Mentre alcuni dei vec chi collaboratori continuavano a recensire libri di «letteratura », altri collaboratori, per lo più anonimi, inondavano il giornale di documenti sulla «conte- stazione ». Da una parte la letteratura e dall’altra la contestazione: non è una sintesi, è un mostro foco melico. Ma questo discorso lo può fare qualcuno che giu dichi l’operazione dall’esterno (Ferretti, ad esempio, riconosce che il giornale si è posto il problema di uno sviluppo del discorso del Gruppo 63, ma denun cia il fatto che i discorsi politici siano affidati a «ospiti » esterni mentre il vecchio «gruppo egemone » continuerebbe tranquillo a gestire le «residue istanze metodologiche e letterarie »). Non può farlo chi lo ha seguito dall’interno. Perché sa quale sia stato il significato, più volte discusso, di questa scelta. Per intanto non si è trattato di «stare dietro al rapido consumo della contestazione. Che ci sia un consumo della contestazione è vero â— e fatale, anche «Quindici », come chiunque apra bocca su un Fatto rendendolo pubblico e consumabile, vi abbia contribuito, è altrettanto vero (e chi siamo noi per vincere le ferree leggi di una economia di mercato?). Ma quando «Quindici » ha pubblicato i documenti delle agitazioni all’università di Torino non c’era ancora niente di consumato: questi testi non avevano ancora avuto alcun diritto alla parola. Ma se a questo punto ci fossimo fermati, allora veramente avremmo mirato per un momento dove tirava il vento. Mentre stavano disegnandosi nuovi discorsi, por tati da una generazione che non era passata attra verso le nostre esperienze â— e molti dei quali non ci convincevano affatto, sia ben chiaro, e lo si è detto â— il problema era di fare parlare tutti usando le colonne del giornale come un materiale mobile di riflessione. Attenzione: non era rifiutare di sce gliere. Perché politicamente si era scelto. Era, talora, per alcuni, rifiutare di scrivere subito un articolo che sciorinasse la teoria del presente. Ma rifiutare di scrivere un articolo, per lasciarlo scrivere ad altri, non era rifiutare di scrivere il giornale. Ci sono direttori e redattori, che per anni hanno scritto un quo tidiano, tutto intero, senza stendere una riga, né firmarla. Quando avevamo deciso di fare «Quindici » avevamo in fondo capito che si poteva anche non scrivere libri e fare invece un giornale; cioè costruire uno spazio in cui molti scrivano. Si era scelto perciò di aspettare a intervenire nei modi che ci sono proprii e di farlo invece nel modo più acconcio permesso dalla situazione e dalla sua complessità: contribuendo a offrire documenti che ci coinvolgevano quanto i lettori. Ciascuno di noi, se voleva, poteva scrivere «opere » (poesia, trattati di filosofia, pagine critiche): ma anche un giornale è un’opera, e tanto più quanto più, attraverso discus sioni redazionali, si è continuamente capaci di «ap paltarlo » a qualcuno che non siamo noi ma che â— come scrive â— impegna culturalmente e politi camente anche noi. Che poi alcuni di questi documenti non potes sero soddisfare alcuni dei redattori, che fossero «demagogicamente » ammassati e contraddittori, è verissimo. Che bello poter scegliere solo quello che «vale »… Ma il salto politico-culturale del giornale stava proprio qui: nel rifiutarsi di continuare il me todo delle discriminazioni autoritarie che la «Kultura » compie sulla gente che li fa. La nuova condizione per cui la gente parla e discute i centri di potere che prima parlavano in sua vece, esige che si promuova un parlare generale non inizialmente discriminato. Perché non solo ascoltandolo ma partecipandovi cambierà anche il nostro modo di parlare. In questo quadro i nostri interventi perso nali erano di tre tipi. Erano gli interventi sporadici che qualcuno faceva sui temi del momento. Erano la prosecuzione provvisoria del discorso «culturale » precedente, proprio perché il problema non era di rinunciarvi, ma di trovarvi una nuova dimensione, con calma. Ed era il discorso che qualcuno di noi, in campo prettamente politico, o nell’università, o in altri luoghi, faceva come membro di quella nuova base che aveva preso la parola (per cui non era neces sario firmare le proprie parole su «Quindici », ma bastava dirle altrove, e «Quindici » prima o poi avreb be raccolto anche quelle). E che poi «Quindici » ab bia accentuato il discorso politico mentre era stato fondato da un gruppo che aveva polemizzato contro le false nozioni di «impegno », questo fatto poteva stupire solo chi, appunto, aveva inteso la nostra pole mica sull’impegno come una scelta del disimpegno politico. Ma nessuno nel Gruppo aveva mai detto questo. Aveva detto: l’impegno culturale ha strade che non coincidono necessariamente con l’impegno politico immediato. E dunque è perfettamente naturale che su un giornale si parlasse in termini di impegno politico immediato (a cui pochissimi di noi avevano rinunciato) senza coinvolgere immediatamente il discorso «letterario ». Il Gruppo 63 non ha mai detto «non fate politica »; ha detto «non crediate di fare letteratura â— e quindi politica â— raccontando nei vostri romanzi come fate la politica ». Il che è di verso. Il Gruppo 63 non aveva mai detto «lo spazio del letterato è uno spazio privato e profetico che non ha nulla a che vedere con la realtà »; ha detto «il letterato capisce la realtà e la trasforma quando la aggredisce con mezzi linguistici che la mettono in crisi alle sue radici comunicative â— o al suo livello di manifestazione sovrastrutturale ». E quindi basterebbe dire che «Quindici » si è assunto il compito di riempire i bisogni dell’azione politica immediata senza chiedere ai suoi letterati di dare subito l’equi valente poetico della situazione, per mettere il cuore in pace a chiunque. Eppure sappiamo che neanche questo è vero. Il discorso politico che «Quindici » ha accettato di fare, riconoscendo che anche i suoi collaboratori vi erano coinvolti, pone ora la necessità di una riformula zione dello stesso discorso culturale. 63-69: Venti anni dopo E dunque i collaboratori di «Quindici » dovranno convincersi di essere chiamati a riempire uno spazio specifico, che non può essere soltanto quello della loro adesione politica a un movimento collettivo, né la costruzione (che rimane importante) di uno spazio-giornale in cui i vari discorsi si allineino e si scontrino. Quale sia questo nuovo discorso non può essere detto ora. È compito di una elaborazione collettiva, in cui probabilmente diventerà difficile riconoscere i vecchi veterani dell’avanguardia da altre forze (non più «estranee » â— e perché mai? quando si sono chiuse le iscrizioni?) Cosa dovrebbe fare «Quindici » nei prossimi nu meri? Ci saranno dei casi (in questo numero, con Via reggio, Firenze, i documenti dei Comitati di Base della Pirelli, l’inchiesta sul Congresso PC) in cui «Quindici » potrà fornire del materiale che altrove non sarebbe reperibile con uguale ampiezza. Sarà il nostro secondo modo di intendere l’impegno civile e politico. Il giornale come «manifesto » e come offerta di materiale. Non sarà un «appalto » a forze offerta di materiale. Non sarà un appalto. Dovrà essere il nostro modo di scrivere un giornale, anziché con parole, con intere colonne di piombo. Ma questo piombo non sarà una «merce »? Ora bisogna intenderci sul significato della parola «merce ». Certo, abbiamo il dovere di fornire quella «merce » che la maggioranza dei lettori avverte come utile. Ma questi lettori non sono degli estranei massmediatizzati ai quali imponiamo merce in scatola mentre noi di nascosto ci mangiamo pollastri ruspanti. Sono coloro coi quali ci interessa oggi discutere, perché se anche a noi interessa la «merce » di cui «Quindici » oggi abbonda, riteniamo che a loro deb ba interessare anche quella «merce » in cui noi credevamo ieri e che sapevamo produrre così bene da soli (dalla poesia ai saggi critici): perché o inte ressa anche a loro o qualcosa (in noi o in loro) è sbagliato. Ma già la distinzione tra noi e loro è arti ficiosa, a questo punto, e sembra pericolosamente vicina alle discriminazioni generazionali apocalitti camente agitate dai rotocalchi scandalistici, tra i singhiozzi di Giovanni Mosca. Credo che, al punto in cui siamo, il discorso detto «demagogico » non sia neppure più il discorso privato del Movimento Studentesco. E quello di una nuova fascia politica che si sta creando (transgenerazionalmente), e alla cui presa di coscienza anche i «letterati » dell’ex Gruppo 63 â— e comunque anche «Quindici » â— dovranno contribuire. Altrimenti avremo sbagliato tutto. Anche i discorsi che ci sembravano così giusti nel 1963, che qui trovano il loro sviluppo extralet terario. E non cadiamo in un altro ricatto psicologico: non pensiamo che questo non sia discorso nostro perché sta assomigliando a quello di altre riviste o gruppetti con cui ci divertivamo a litigare (o che ci di vertiva guardare litigare con noi). Sia chiaro: se le contraddizioni slittano, slittano anche le alleanze. E quelli che ieri ci sembravano motivi di divisione possono rimanere soltanto grette affezioni alle acre dini nostre o altrui. E solo nella provincia più depressa che si coltiva tutta la vita lo stesso rancore per sentirsi «uomini tutti di un pezzo ». Balle. Non dobbiamo fare salti mortali per prendere a prestito da nemici fittizi la nostra identità. Anche perché, al di là delle alleanze tattiche o strategiche che la nuova situazione impone, esi gendo un nuovo discorso, meno di gruppo e più di fronte, ci rimane uno spazio personale che solo noi possiamo riempire e che attende di essere riem pito. E veniamo così alla terza modalità del nostro intervento su questo giornale. Sarà quando dovremo mettere a confronto la nostra eredità culturale spe cifica con le nuove realtà che si stanno creando. Quando dovremo chiederci se la nozione di «cul tura » ha ancora un senso e quale â— e se non ci competa di affermarlo e trovarlo anche â— questa volta sì â— a costo di resistere alla tentazione demagogica che imporrebbe di dilazionare una discussione impopolare. I problemi da discutere Nella prima fase del rivolgimento generale che ha coinvolto i paesi e i movimenti di tutto il mondo, il discorso sulla prassi politica ha prevalso sulla pratica teorica â— ed è sembrata offuscarlo. Siccome «Quin dici » non è un volantino di istruzioni per l’occupa zione della metropolitana, è su queste pagine che dovremo continuare questo discorso. I movimenti dell’ultimo anno hanno provocato alcune situazioni di fatto ma hanno posto anche alcune domande che non hanno ricevuto ancora risposta, perché la ri sposta è lunga, difficile, e va discussa. Si è rifiutata una Kultura di classe, si è postulata una cultura socialista, ma nessuno si sente ancora di dire cosa dovrebbe essere (posto che tutti sono d’accordo nel sapere che la cultura socialista non èla Kul tura dei paesi socialisti). Tra i collaboratori di «Quindici » vi sono degli scrittori e degli artisti. Che senso ha la loro arte oggi? Devono continuare a per seguire, al di sopra del sommovimento delle strut ture, il loro discorso eversivo sulle sovrastrutture, perché ha ancora una funzione? Devono porsi il problema di un discorso, fatto da loro, subito, con le masse? Come dovrebbe essere questo discorso per non essere del banale e autoritario realismo dida scalico? Come potrebbe essere il discorso futuro dell’artista e dello scrittore in una società liberata? È lecito porsi oggi questo problema? E se non è lecito, chi per vocazione scrive, cosa deve fare? Rifiu tarsi di scrivere e scendere sulle piazze? E quando torna a casa come impegnerà le ore libere? Scriverà di nascosto? Cosa? Per chi? Gli studenti nelle università stanno mettendo in discussione le basi ideologiche della scienza. Chi pratica la scienza e ne ha esperienza deve interve nire in questo discorso? Deve trasportarlo sulle co lonne di «Quindici »? Facendolo con chi? Come far fruttare la propria esperienza provvedendo del ma teriale che non si presenti come la predisposizione autoritaria di conclusioni precedenti? Come mettere in crisi la propria esperienza precedente confron tandola con quella di chi la scienza professional mente non la fa, ma la subisce e vuole invece con tribuire a gestirla? Ma cosa vuol dire (senza essere ridicola) una gestione collettiva dei mezzi di produ zione scientifica? Abbiamo parlato a lungo della nostra azione sulla lingua, o comunque sulle sovrastrutture comunica tive. Pensiamo che sia ancora valida? Ma pensiamo realmente che il sistema globale della comunica zione, in una società industriale avanzata, sia ancora una sovrastruttura e non piuttosto una industria pe sante? Come vogliamo affrontare il sistema globale della comunicazione dal momento che, scrivendo e pubblicando, anche alla macchia, ci siamo dentro? Che senso acquista una analisi corretta di questo sistema nel momento in cui debbono parteciparvi anche quelli che oggi non ne sono gli attori ma soltanto gli utenti? Ma a questo punto cos’è e che cosa fa un intellet tuale? E un poeta? E un filosofo? Se rifiuta di riti rarsi in uno spazio privilegiato (rimanendo servo obbediente di un sistema che lo trascende) questo rifiuto implica la sua volontaria distruzione (per rinascere magari in forme mascherate, senza essere mutato) o in un nuovo contesto di partecipazione collettiva gli rimane una funzione specifica, che non può essere definita per volontà propria e dall’alto? È facile condurre un processo sommario alla Kultura e giudicare di essersene sbarazzati solo perché il professore di sanscrito, disperato, rinuncia a far lezione.La Kulturanon è una tigre di carta. La contestazione di un dominio di classe passa certamente attraverso la prassi rivoluzionaria, ma la contestazione di quella forma specifica del do minio che è la Kulturadi classe passa anche attra verso un discorso sulla cultura â— e non solo contro la cultura, o a fianco della cultura. Tutti questi sono problemi politici. E questo è il compito politico di un giornale di cultura. Questo problema, se «Quindici » riesca o no ad assolverlo, conta assai poco. Un giornale, come è nato, può anche morire. Ma non possiamo eludere il problema rifiutando di ammettere che il giornale è diventato quello che è anche perché il nostro discorso di ieri ha contribuito a portare le cose a questo punto. Non si torna ai pesci rossi. Letto 1993 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||