Quattro articoli: e ancora sul caso Napolitano23 Giugno 2012 di Marco Lillo Il giornale chiede a Giorgio Napolitano una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione intervenuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino. Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Capo dello Stato? Alla Cortese Attenzione del consigliere del Quirinale Pasquale Cascella Gentile consigliere Pasquale Cascella ho provato a contattarLa telefonicamente ma non riesco a ottenere risposta a voce o via sms al cellulare. Il Fatto chiede al Presidente della Repubblica una dichiarazione ufficiale sulla seguente conversazione intervenuta il 12 marzo scorso tra il consigliere Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino. 1. Il Presidente conferma o smentisce di avere chiesto a D’Ambrosio di chiedere a Mancino se questi aveva parlato con Martelli? 2. Il Presidente si dissocia dalle affermazioni di D’Ambrosio che connette la richiesta suddetta (colloquio Mancino-Martelli extra processo) con il contrasto di posizione tra i due ex ministri in vista di un confronto nel processo? 3. Qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa intercettazione secondo il Presidente? 4. E qual è l’interpretazione “non tendenziosa” di questa seconda affermazione contenuta nella conversazione intercettata il 5 marzo sempre tra D’Ambrosio e Mancino? 5. Il consigliere giuridico del Presidente, per evitare il confronto a Mancino, considera l’ipotesi di intervenire prima sul collegio del Tribunale, poi ripiega in via ipotetica sul pm e infine sul procuratore nazionale antimafia. Il Presidente si dissocia o ritiene lecito intervenire su un collegio del tribunale o su un pm per evitare un confronto tra un testimone qualsiasi e un altro testimone più amico (Mancino) che rischia un’incriminazione? 6. Perché il Quirinale dovrebbe occuparsi e preoccuparsi del contrasto di posizione tra due testimonianze di due ex ministri in un procedimento penale? 7. Più volte D’Ambrosio afferma di avere chiesto al Procuratore nazionale Piero Grasso di intervenire per un coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta più conforme alle aspirazioni di Mancino e di avere ricevuto in risposta un diniego. D’Ambrosio afferma in un’altra conversazione con Mancino: “Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’… lo vedrò nei prossimi giorni, vediamo un po’. Però, lui… lui proprio oggi dopo parlandogli, mi ha detto: ma sai lo so non posso intervenire… capito, quindi mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di… come la procura nazionale sta dentro la procura generale, di vedere un secondo con Esposito”. 8. Ritiene il Presidente di essere stato indotto in errore dal suo consigliere o ritiene giusto intervenire sul procuratore generale per chiedere al procuratore nazionale (che recalcitra) di rafforzare il coordinamento tra procure al fine reale però – da quello che dice il suo consigliere giuridico al telefono – di evitare un confronto scomodo a un testimone? Sul caso Napolitano ancora qui. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, chiede l’impeachment di Napolitano, qui. Repubblica fabbrica fango poi incolpa il Cavaliere La complottite è una malattia pericolosa che comporta spiacevoli effetti collaterali. Uno è la perdita della memoria. Un altro è una sorta di labirintite, un disturbo dell’equilibrio che costringe a ondeggiare. Il terzo è una tendenza patologica al gioco delle tre carte. Situazione alquanto sgradevole. Per rendersene conto basta sfogliare Repubblica . Il giornale di Ezio Mauro dovrebbe essere tonico, rinfrancato dai tre giorni di Bologna carichi di idee, galvanizzato per l’asse con il capo del governo «scippato »ai concorrenti del Corriere della Sera. Invece, che succede? Succede che proprio Repubblica dà per prima (onore al merito) la notizia delle pressioni di Nicola Mancino sul Quirinale perché ammorbidisca i magistrati di Palermo che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia negli anni delle stragi. Benché semioccultato a pagina 22 sull’edizione del 15 giugno scorso, l’articolo scatena il finimondo. Ed è uno scoop degno di Repubblica , tipico del suo stile, basato su intercettazioni telefoniche che non sarebbero dovute uscire dagli uffici della procura siciliana. Brogliacci cui il governo Berlusconi voleva mettere il bavaglio con una legge che scandalizzò il Paese e contro la quale il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari aizzò una martellante campagna di stampa. Nei giorni successivi Repubblica ha dedicato pagine e pagine al nuovo scandalo che coinvolge gli ultimi tre inquilini del Colle.Finché,l’altro giorno, è lo stesso Giorgio Napolitano a condannare «la campagna di insinuazioni e sospetti di alcuni giornali ». A quel punto la complottite fa salire la febbre a largo Fochetti. Bisogna innescare la retromarcia senza darlo a intendere, e soprattutto senza rinunciarea riempire le pagine di verbali e trascrizioni di telefonate compromettenti. Un doppio binario dove è arduo mantenere l’equilibrio. Ora, dopo l’esternazione presidenziale,si rispolvera la macchina del fango che «gioca allo sfascio », come si leggeva ieri in prima pagina. Carlo Galli scrive addirittura di «attentato alla democrazia », se si dovesse giungere a «una crisi che mini l’autorità e il prestigio del capo dello stato ». Il dito accusatore è puntato contro una «troika »: il pm palermitato Antonio Ingroia ( eroe quando indagava Berlusconi e Dell’Utri, eversore quando sfiora il Colle), l’ex pm Antonio Di Pietro e Beppe Grillo, campioni del «populismo isterico » e dell’«antipolitica generalizzata ». Accanto all’analisi di Galli, Repubblica stampa un retroscena di Claudio Tito intitolato «Il bersaglio è il Quirinale ». Chi sarebbe dunque il mandante? Ai tre soggetti già individuati se ne aggiunge un quarto. L’ipotesi è che «dietro ci possa essere anche il tentativo di indebolire la più alta carica dello stato per rendere più fragile il governo ». E chi ha interesse a svigorire Monti? Ma è chiaro: lui, Berlusconi, leader di «quel Pdl che in queste ore è tornato a sventolare la bandiera delle elezioni anticipate », il quale non nasconde «che il principale ostacolo alle urne è rappresentato, guarda caso, dal Quirinale ». Insomma, Repubblica sforna la notizia dell’anno che danneggia il Quirinale, ma dopo aver incassato il cicchetto del Colle vuol fare credere che è tutta una «manovra oscura » ordita dal Cavaliere che, come un burattinaio, manovra quelle docili marionette notoriamente al suo servizio come Ingroia, Di Pietro, Grillo, Travaglio, le procure. Repubblica mette in moto la macchina del fango ma poi fa intendere che gli spargiletame sarebbero altri. Tutto questo, beninteso, mentre lo stesso giornale continua ad alimentare sospetti sui collaboratori di Napolitano pubblicandone le telefonate. Sono gli esiti infausti delle contorsioni da complottite acuta. Non è la moneta unica il segreto della democrazia Un mio stimabilissimo amico, Angelo Panebianco, che considero uno dei migliori editorialisti italiani (se non il migliore), di tanto in tanto si addentra nel campo minato che sta ai confini della materia di sua competenza. Non dico che parli senza conoscenza di causa, non sarebbe da lui, ma che farebbe meglio a non usare l’accetta, a essere meno drastico nei giudizi quando non parla di scienza politica ma di economia. Non è la prima volta e sono certo che non sarà l’ultima; l’eredità crociana consiste anche in questo, nel far credere alla gente che quella economica non sia una scienza ma un optional, una materia da serve (come sosteneva il mio amatissimo professore di filosofia al liceo). Credo che in molti casi le serve siano più utili degli economisti, ma penso che non siano esse a dilettarsi della «scienza lugubre » (Carlyle). Dice Panebianco: «Persone stimabilissime (vedi sopra), da Paolo Savona ad Antonio Martino, lo pensano e lo dicono (meglio tornare alla lira) ». «È però lecito ipotizzare che se l’euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l’economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese ». Ora, vorrei far notare al mio amico Angelo che un eventuale ritorno dell’Italia alla lira non equivarrebbe necessariamente al crollo dell’euro. Potrebbe, forse, indurre, altri Paesi a fare altrettanto, ma non è detto. Il titolo che la redazione del Corriere ha affibbiato all’editoriale di Panebianco è il perlomeno singolare «Moneta unica e democratica »: non spetta certo a Panebianco, ma certamente al direttore del giornale più venduto d’Italia spiegare cosa, di grazia, abbia di democratico l’euro, una costruzione controllata da persone che nessuno ha eletto. Draghi non è a capo della Bce per volontà del popolo sovrano, ma per accordi fra politici di paesi che ritengono di avere diritto di contare più degli altri. Il capo della Bce non risponde che a Dio del suo operato, è, per usare un termine inglese di difficile traduzione, totalmente unaccountable, al di sopra di qualsiasi controllo o valutazione. Gli Stati che usano l’euro hanno delegato la loro sovranità in politica monetaria non a un’entità sovranazionale democraticamente eletta ma a un «tecnico » selezionato con criteri poco trasparenti e di certo non democratici. La tesi di Panebianco, correttamente riassunta in un sottotitolo è che «Senza il vincolo esterno dell’euro » la democrazia italiana e la stessa unità del Paese sono «su un piano inclinato ». Che la democrazia italiana non goda di buona salute è vero, così come è vero che la questione meridionale è del tutto irrisolta, ma in nome di Iddio cosa c’entra l’euro con la soluzione, peraltro mancata, di questi problemi? Luigi Spaventa, da parlamentare dell’estrema sinistra, in un memorabile discorso contro la moneta unica aveva paventato che essa avrebbe danneggiato soprattutto l’Italia e in particolare il meridione. Non so se egli sia ancora di quest’idea, ma è indubbio che i fatti gli stanno dando ragione. Panebianco parla come se, salvato l’euro, sarebbe salva l’Europa, l’Italia e l’economia mondiale. Qui mi spiace di non potere essere inglese, nel qual caso direi: «Ho il timore di non potere condividere la sua opinione »; essendo orgogliosamente italiano, sono costretto a dire «Angelo hai torto marcio »! L’euro è una costruzione sbagliata che rischia di fare precipitare l’Europa e il mondo in una crisi tale da fare apparire la Grande Depressione come un’inezia, una quisquilia, una pinzillacchera. Il forsennato diktat tedesco di pareggiare il bilancio a questi livelli di spesa pubblica sta spingendo tutti i paesi dell’eurozona ad accrescere le imposte nel tentativo (vano) di raggiungere le spese. Crede davvero Panebianco che portare la pressione tributaria al 52% del pil farebbe bene all’economia italiana? Crede che renderebbe più democratico e unito il nostro Paese? Angelo, fammi il piacere di occuparti d’altro, ti leggerò sempre con piacere e ti telefonerò la mia ammirazione subito dopo la lettura! Martin Feldstein, stimato economista, malgrado il fatto che insegna a Harvard, tana del sinistrume chic più disgustoso d’America, ha recentemente sostenuto (guarda caso, proprio sul Corriere, 17 giugno): «L’unione di bilancio (il fiscal compact, cioè) mi sembra wishful thinking. Il trasferimento su basi permanenti delle politiche di bilancio di tutti i Paesi – cioè tasse, spese e indebitamento – a un’entità centrale europea sarebbe una rivoluzione di enorme portata: stiamo parlando del cuore della sovranità politica ». Credono davvero Panebianco, Monti e tutti gli altri sostenitori della inesorabilità di tenere in piedi l’euro che sia sensato delegare la sovranità politica nazionale non agli Stati Uniti d’Europa ma a un opaco e antidemocratico accordo inter-statale sia il meglio per l’Italia, l’Europa e il mondo? La Germania non dia lezioni a nessuno «Il più pericoloso leader europeo ». D’accordo, non è stavolta l’Economist a prendere di petto Angela Merkel. Ma al New Statesman non mancano i quarti di nobiltà, con quasi cent’anni di vita e la tradizione di battaglie socialiste e liberal. Sull’ultimo numero il settimanale londinese mette in copertina la Cancelliera nei panni di Terminator, con la faccia tutta cavi d’acciaio e occhio artificiale, la tuta in pelle, tra le macerie del Vecchio Continente. Una settimana fa era stato invece l’Economist in persona a picchiare duro: in prima pagina la nave a picco dell’economia mondiale e l’appello disperato del comandante «Per favore, ora possiamo accendere i motori, signora Merkel? ». Questo è il clima di là dalla Manica, non nell’allegro (per i tedeschi) Club Med. Se gli umori della stampa valgono qualcosa, e nella Germania attuale certamente valgono, sentite che cosa rispondono i giornali teutonici: l’Handelsblatt riproduce la stessa copertina dell’Economist, ma a tirare già la nave sono cinque sacchi di zavorra con le bandiere di Italia, Spagna, Grecia, Usa e Francia. Bontà loro, siamo in buona compagnia. Mentre in superficie un’altra imbarcazione naviga maestosa, bandiera tedesca al vento. Due passeggeri dialogano tra loro. Il ministro dell’Economia Wolfgang Schauble chiede: «Dove sono i nostri amici, Angela? ». E lei: «Troppo grossi per stare a galla ». È la conferma di quanto scriviamo da tempo: è in atto a Berlino e dintorni una deriva della classe dirigente, che attraversa anche la stampa, per imporre all’Europa, e magari al mondo intero, il pensiero unico del fiscal compact. A prendersi direttamente cura di noi è ieri nuovamente Der Spiegel, l’autorevole e diffusissimo settimanale di Amburgo. L’editorialista Jan Fleischhauer, che già identificò nel comandante Schettino «il carattere nazionale degli italiani », titola il suo pezzo «Appello alla mamma ». Riferimento a quel «Schnell, Frau Merkel » («Presto, Signora Merkel ») messo in copertina dal Sole 24 Ore. Iniziativa alla quale hanno partecipato anche politici tedeschi come Gerhard Schroeder e Joschka Fischer. Lo Spiegel usa però un registro diverso, quello canzonatorio: gli sforzi economici prodotti in passato dall’Italia sono «algebra napoletana »; e quanto al al governo Monti, dire che crescita e risparmio si escludano a vicenda «è una cosa da stupidi ». Per la verità nessuno ha mai sostenuto una cosa simile: caso mai non l’Italia, ma il mondo intero (Merkel esclusa) pensa che dopo i tagli serva urgentemente la crescita, e che la recessione si stia divorando il risparmio, pubblico e privato. È stupido questo? Ma è quando affronta l’aspetto sociale della faccenda che allo Spiegel slitta, tanto per cambiare, la frizione. Noi italiani saremmo «convinti che solo la Cancelliera possa salvare il loro paese ». Caro Fleischhauer, la pensiamo esattamente al contrario, e non siamo soli: la vostra Kanzlerin il paese lo sta rovinando, e non solo l’Italia. Chiedere in Francia, Stati Uniti, Spagna, Inghilterra. Quanto all’«algebra napoletana », non si può negare la finanza allegra e l’eccesso di spesa pubblica fino al 2008. Ma che dire del fatto che il debito pubblico tedesco era quattro anni fa al 65,9% del Pil e oggi è all’88? Si tratta di un aumento di un terzo esatto. Nello stesso periodo il debito italiano è passato dal 106,5 al 120%: il 12,6 in più. Un aumento di meno della metà rispetto alla Germania. E questo lasciando perdere il debito occulto di Berlino, che con tutte le spese previdenziali e dei land sarebbe almeno doppio di quello conteggiato. Quanto alle virtù prussiane, possiamo solo sottoscrivere ciò che Monti ha ricordato al termine del summit con la Merkel, Hollande e Rajoy: «Nel 2003 la Germania e la Francia con l’autorizzazione e la complicità della presidenza italiana deragliarono dalle regole dell’euro; abbiamo impiegato quasi dieci anni a ricostituire la credibilità che non venne infranta dai greci e dai portoghesi ». Se fossimo nei panni dei colleghi tedeschi faremmo due cose. La prima: abbandoneremmo l’aria da primi della classe e soprattutto da difensori dell’ortodossia governativa che indossano sempre più spesso, e sempre più volentieri. Noi italiani siamo specialisti nel contrario, nell’autosputtanamento. Ma credete: la spocchia non paga, dà solo fastidio, e spesso si rivela un boomerang terribile. Mentre l’appiattimento acritico sul governo, perfino se fosse il migliore del mondo, non è degno dell’informazione libera, quale ci risulta che ancora sia in Germania. Ma come: ci avete rotto le scatole con il bavaglio in Italia ai tempi del Cavaliere, e adesso proprio voi gettate all’ammasso le vostre migliori menti e le vostre più prestigiose testate? È già accaduto alcuni decenni fa: quando dalla libertà si passò all’autocensura, e quindi alla censura e alla propaganda (con tanto di luoghi comuni, o peggio, sugli «altri »), prima ancora che lo imponessero le leggi e il regime. Rifletteteci. Seconda cosa. Ma siete sicuri di vivere nel paradiso terrestre? Una serie di dati di fonte tedesca rivelano che qualcosa scricchiola anche tra Berlino e Francoforte. L’indice di fiducia delle aziende tedesche è sceso a giugno a 105,3 punti rispetto ai 106,9 precedenti: un calo superiore alle pur pessimistiche attese. Un altro indicatore, l’indice Zew sulle conzioni per l’economia, è crollato di circa 17 punti, il minimo da 13 anni. Gli autori, lo Zew Center for Economic Research, spiega il tonfo con «il peggioramento delle condizioni delle banche particolarmente esposte sulla Spagna e sulla Grecia ». Uno studio R&S-Mediobanca rivela che i derivati, il vizio d’origine della crisi del 2008, valgono ancora la metà del Pil europeo. E qual è la banca con più titoli tossici? La Deutsche Bank, i cui 860 miliardi di euro di derivati, sono pari al 39,7% delle attività; e la stessa DB è tra le 15 grandi banche mondiali appena declassate da Moody’s. Ci credano gli illustri commentatori tedeschi: nessuno è a caccia dei loro soldi. E Dio ci scampi dalla Merkel come mamma. Letto 1628 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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