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Se lo share ora fa calare il consenso

1 Novembre 2012

di Massimo Gramellini
(da “La Stampa”, 1 novembre 2012)

L’ultima fatwa di Beppe Grillo colpisce una sua attivista, Federica Salsi, macchiatasi della colpa grave di avere partecipato a Ballarò. Per Grillo i salotti televisivi inoculano il virus del sistema da abbattere e perciò vanno assolutamente evitati: solleticando il punto G di chi vi partecipa, provocano narcisistici orgasmi che hanno un effetto nefasto sulle sorti politiche del movimento. Come rappresentante della comunità maschile, mi scuso con l’interessata per l’allusione gratuita: dubito fortemente che Grillo avrebbe tirato in ballo il punto G se l’attivista di Cinque Stelle fosse stato un uomo. Come piccolo conoscitore dei meccanismi mediatici, devo riconoscere che ha ragione: oggi andare in tv significa perdere voti.

Stavolta sotto la lente infuocata di Grillo non è finita la televisione in generale, ma quei programmi di informazione politica che prevedono la presenza contemporanea in studio di una pluralità di ospiti. Questa formula si sta lentamente estinguendo per mancanza di nuove facce disponibili a ravvivare il gioco. Oggi qualsiasi personaggio pubblico in grado di dettare le condizioni pretende quella che in gergo si chiama «intervista chiusa »: un faccia a faccia col conduttore senza interruzioni.

Oppure, se proprio è costretto a intervenire in un salotto affollato, ricorre allo stratagemma del collegamento esterno o della telefonata in diretta, pur di rimarcare la sua diversità dagli ospiti seduti in studio e costretti a lunghe pause silenziose e a sovrapposizioni continue di voci.
Situazioni normali in qualsiasi assemblea che, dal condominio alla scuola, raduni nella stessa stanza un numero di italiani superiore a uno. Cosa ci sarà mai di politicamente pericoloso nel partecipare a un talk show che, con tutti i suoi limiti, permette di farti conoscere da più persone di quante ne potrai mai riunire in una piazza o in uno stadio?

Non è un problema di conduttori, complici o dichiaratamente ostili. Il veto di Grillo spazia da Vespa a Floris, investe persino il simpatizzante Santoro. E sarebbe banale liquidarlo come la smania di un leader solitario che vuole oscurare le altre stelle del movimento per far brillare meglio la sua. Il disagio verso la tv dei dibattiti nasce da una considerazione più politica: per i cittadini, l’ospite di un talk show è a tutti gli effetti un membro della Casta. Anzi, nella percezione del pubblico la Casta è composta proprio dagli ospiti dei talk show. Non dal banchiere onnipotente o dal direttore inamovibile del ministero, che incidono sui nostri destini molto più di una Finocchiaro o di un Gasparri, ma che in tv si guardano bene dall’andarci. La Casta è il politico che litiga in diretta con l’altro politico, ma che appena si spegnerà la telecamera – gli spettatori ne sono certissimi – ci andrà a cena insieme. La Casta è il giornalista, il sociologo, il professore universitario magari caustico e brillante, ma comunque interno a quel mondo e quindi connivente.

Si tratta di un pregiudizio inconscio, cresciuto a dismisura negli ultimi mesi. Dalla fase del tifo, quando dal salotto di casa si parteggiava per l’uno o l’altro dei contendenti, si è passati alla fase dello schifo, in cui lo spettatore accomuna tutti i protagonisti del teatrino nella stessa smorfia di disgusto. Se questo è lo stato d’animo del pubblico, per essere considerati diversi non basta più andare in tv a dire cose diverse. Bisogna non andarci proprio, perché la sola presenza fisica rappresenta già un’accettazione delle regole del gioco che si desidera scardinare.

Appena un nuovo politico appare nella scatola luminosa, sentenzia il critico televisivo Grillo, «lo share del programma aumenta: tutto merito tuo, trattato e esibito come un trofeo, come un alieno, una bestia rara. Ma contemporaneamente diminuisce il consenso per il movimento a cui appartieni ». Viene così capovolto il teorema Ascolto uguale Gradimento su sui si era basata la propaganda televisiva nel ventennio berlusconiano. Oggi più ti guardano e meno ti gradiscono. Peggio: smettono di gradirti proprio perché ti hanno guardato. Persino una faccia nuova e un comunicatore brillante come Renzi non ha tratto vantaggi dall’assillante presenza televisiva.

Naturalmente Grillo non andrebbe in tv nemmeno se gli garantissero un’intervista chiusa o addomesticata: gli sembrerebbe comunque un cedimento al Sistema. Ma anche i politici della Seconda Repubblica televisiva – ingordi di ospitate a qualsiasi costo, fin dai tempi in cui si facevano imboccare di polpettine da Funari – cominciano a chiedersi se allontanarsi dal video non stia diventando la loro ultima possibilità di rimanere aggrappati al potere.


Il paradosso di Napolitano e Grillo
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 1 novembre 2012)

Giorgio Napolitano teme giustamente le pesanti conseguenze che potrebbero derivare dall’eventuale deragliamento dei partiti italiani dal binario rigido imposto al nostro paese dai poteri sovranazionali europei. Di qui i suoi richiami alle forze politiche a non offrire alla speculazione internazionale i pretesti per alzare lo spread, la richiesta di non turbare in alcun modo il cammino del governo tecnico di Mario Monti e la sollecitazione a rispettare la scadenza naturale della legislatura ed a condurre una campagna elettorale priva di accenni eccessivamente critici nei confronti di Bruxelles e Berlino. Napolitano aggiunge a questa serie di indicazioni anche la sollecitazione, che evidentemente non può venire dall’Europa, a cambiare l’attuale legge elettorale. Il Capo dello stato non indica il modello a cui dovrebbe rifarsi la riforma del sistema di voto. Ma poiché l’unico progetto in via di approvazione in Parlamento prevede il ritorno al proporzionale, lascia intendere non solo di essere favorevole a tale indirizzo ma anche di considerare la futura legge elettorale proporzionale quella più indicata a far restare l’Italia sul binario fissato dall’Europa.

Nello svolgere questa sua azione di persuasione continua nei confronti delle forze politiche presenti in Parlamento il Presidente della Repubblica è sicuramente animato dalle migliori intenzioni. L’emergenza della crisi non è affatto terminata. Ed il paese può superarla solo rimanendo ancorato ad una Europa che sarà pure quella dei burocratici e dei banchieri ma risulta essere l’unico appiglio esistente a cui aggrapparsi per non finire nei gorghi della speculazione internazionale. Tutto vero, tutto giusto! Peccato, però, che la conseguenza collaterale delle buone intenzioni del Capo dello stato sia quella della sempre più marcata delegittimazione dei partiti italiani agli occhi dell’opinione pubblica del paese. Si tratta di un paradosso. Ma tragicamente reale. Più Napolitano esercita la sua funzione didattica richiamando all’ordine le forze politiche e ricordando loro che non possono andare oltre le rigide delimitazioni del percorso imposto dall’Europa, più i partiti risultano delegittimati e squalificati rispetto ai propri elettori. Che bisogno c’è, infatti, di soggetti politici che non hanno alcuna autonomia di giudizio e di comportamento rispetto ad obblighi ed imposizioni prevenienti da autorità che non sono solo esterne e lontane ma anche del tutto indistinte visto che l’Europa politica non esiste e che al suo posto operano poteri privi di una precisa investitura democratica? Sempre sul filo del paradosso, quindi, si deve necessariamente rilevare che l’azione del Capo dello stato (così come quella di concerto del Presidente del Consiglio) rinforza le difese esterne del paese ma smantella progressivamente quelle interne. In questa luce si deve obbligatoriamente concludere che il vero leader dell’antipolitica non è Beppe Grillo, che con la sua azione demagogica di protesta esprime un sentimento reale di disagio di una parte consistente e crescente degli italiani, ma è proprio Giorgio Napolitano, cioè l’uomo che nella preoccupazione legittima di difendere il paese da possibili ritorsioni esterne sta dimostrando agli italiani che la politica dei partiti tradizionali non serve a nulla (tranne che ad arricchire chi la continua a realizzare). Da questo paradosso è quasi impossibile uscire. Perché se si vuole superare la crisi sulla strada indicata dall’attuale Europa si deve seguire Napolitano. Ma se si segue Napolitano non si può fare a meno di delegittimare e smantellare l’attuale sistema dei partiti. L’unica soluzione è quella di una riforma istituzionale in senso presidenzialista.
Ma come potrebbero mai partiti delegittimati dall’antipolitica compiere una riforma così profondamente politica?


Il freno tirato del governo
di Giovanni Sartori
(dal “Corriere della Sera”, 1 novembre 2012)

Premesso che Monti ci ha salvati, tuttavia non capisco bene né come stia cercando di governare, né come possa davvero ridurre la disoccupazione riportandola a livelli fisiologici.
All’inizio Monti governò spesso e volentieri per decreto e con frequente ricorso alla fiducia. Ma poi ha sempre più cercato di governare in sintonia con il Parlamento. Farebbe bene se il suo tempo (il tempo del suo governo) non fosse oramai corto, e se il Parlamento non fosse oramai in febbre elettorale, e cioè nel momento nel quale i parlamentari sono al loro peggio. Una ipotesi è che Monti sia ora frenato dal presidente Napolitano, uomo di lunga esperienza parlamentare che resta legato a quel suo passato. Ma proprio non so. So però che di questo passo Monti arriverà al termine del suo mandato con poco di concluso e troppo ancora da concludere.

Ma vediamo i problemi. Non c’è dubbio che il primo e inderogabile problema di Monti sia stato di salvare il Paese dalla insolvenza e dalla catastrofe finanziaria evidenziata da un debito che è oramai arrivato al 126 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo. A questo punto un Paese non ha più soldi da spendere per investire, dal momento che tutti i suoi introiti sono assorbiti dal pagamento dei servizi, del suo personale e degli interessi dei suoi debiti. Questa era senza dubbio la prima inderogabile priorità da affrontare, e Monti l’ha affrontata con successo pieno in termini di riconoscimento internazionale. Ma con meno successo in termini di entrate fiscali.

Se si punta, come è doveroso, sulla lotta alla evasione fiscale bisognerà derogare alla linea dei tagli eguali per tutti. Se il Fisco deve incassare di più, allora deve essere rafforzato e non indebolito. Risparmiare sulla Guardia di finanza è come fare il notissimo dispetto alla moglie.

Comunque, fin qui il governo Monti ha (più o meno bene) affrontato il problema prioritario che doveva affrontare. Resta l’altro problema, che è di tutt’altra natura, di come affrontare e ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile. Su questo punto quasi tutti gli economisti ciurlano nel manico. Scrivevo (voce nel deserto) quasi vent’anni fa che la disoccupazione nei Paesi diciamo «ricchi » diventa una conseguenza inevitabile e facilmente prevedibile (anche se il grosso degli economisti non lo ha previsto) della «globalizzazione » mal fatta, male o punto meditata, che abbiamo attuato.

Ripartendo dall’inizio, nel secondo dopoguerra l’economia si è man mano divisa in due settori: produttivo e finanziario. Il primo si interessa ai beni tangibili; il secondo è di carta (carta moneta, si intende). E le ultime generazioni degli economisti si sono buttati e specializzati nel secondo, che è anche l’economia dei guadagni smisurati, dei «soldi facili ». Così l’economia di moda, in auge, fa finta di non vedere, o effettivamente è cieca e non vede, che la disoccupazione dell’Occidente è frutto della differenza, della grandissima differenza dei costi di lavoro tra Paesi benestanti e Paesi malestanti. La regola, o diciamo pure la legge, è che «a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro (anche dieci volte meno) andranno a disoccupare i Paesi ad alto costo di lavoro ». Ovvio? A me sembra ovvio. E questa è la causa primaria , di fondo, della nostra disoccupazione crescente. Si capisce, questa legge non è senza eccezioni e per ora non tocca tutti i Paesi di Eurolandia. Ma la linea di tendenza, purtroppo, è questa. E non raccontiamoci la favola che la nostra economia produttiva (di beni) ripartirà tra un anno o due. Mi vorrei sbagliare. Ma temo di no.


Ingroia lascia l’Italia, qui. Qui anche il giudizio negativo di Camilleri sul comportamento di Napolitano.


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Bart