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STORIA: I MAESTRI: Libia. Il deserto tinto di verde /4

13 Agosto 2011

di Paolo Monelli
[dal “Corriere della Sera”, domenica 6 aprile 1969]

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE

Tripoli, aprile.

 

Ho visto per la prima vol ­ta i cammelli quindici gior ­ni dopo il mio arrivo, andan ­do da Garian a Jeffren. Presso Garian, a Tigrinna, uno dei borghi costruiti dal ­l’ente per la colonizzazione â— e nella campagna intorno gli italiani coltivavano il ta ­bacco e il grano, e avevano piantato ulivi nuovi accanto ai millenari dell’altopiano, e accanto ad ogni ulivo un mandorlo, che fiorisse presto e rallegrasse gli occhi nel tempo invernale â— eravamo andati a cercare una famiglia di coloni, l’ultima delle mol ­te che v’erano ancora nel 1950. Non abbiamo trovato più nessuno, né chi ce ne po ­tesse dire qualcosa. La casa era abbandonata, l’uscio e le finestre sbarrati alla meglio con tavole. Nel borgo sono andati a stare gli arabi; nel ­l’edificio della scuola italia ­na hanno messo la loro scuo ­la; la chiesa sulla piazza è diventata cinematografo, sul ­la porta un manifesto a co ­lori annunciava la pellicola di quella settimana, « A mezza ­notte butta giù il cadavere », parlato in italiano, con dida ­scalie in arabo. Mi ha detto il maestro che durante lo spettacolo chi capisce la no ­stra lingua ride subito, se la battuta è da ridere, o subito reagisce; poi viene la secon ­da ondata, di quelli che han ­no letto la didascalia in ara ­bo; non mi ha detto se si manifesti anche una terza ondata, degli spettatori anal ­fabeti. Appare dall’annuario statistico ufficiale del 1967 che gli analfabeti sono il 73 per cento della popolazione al di sopra dei sei anni d’e ­tà (il 57 per cento gli uo ­mini, il 91 per cento le don ­ne; cifre destinate a ridur ­si considerevolmente dato l’impegno con cui il governo cerca di rimediare a questo stato di cose. Nel ’61-’62 le scuole elementari erano 131 mila, nel ’67-’68 erano salite a 255.516).

Ho dovuto venire un po’ nell’interno per ritrovare i cammelli (che qui sono dro ­medari con una sola gobba, il cammello a due gobbe è proprio dell’Asia Centrale): dalle città, dai borghi lungo la marina sono tutti scom ­parsi, o quei pochi rimasti è difficile vederli. Erano un gruppetto di otto o dieci, pas ­sata la piana di Assaba, là dove l’altopiano comincia a degradare rompendosi in go ­le rocciose verso la gefara (pianura stepposa), brucava ­no un po’ d’erba sul pendio sotto la strada; due erano più piccoli degli altri, bianchi, di aspetto più gentile; mi han detto che sono quelli di cui gli arabi si nutrono più vo ­lentieri, dànno una carne pre ­libata, ma altri preferiscono la carne dei cammelli da ca ­rico o da corsa perché dico ­no che infonde forza e ardi ­mento a chi ne mangia.

 

Le nuove strade

 

Quando venni la prima vol ­ta in Libia, l’anno 1926, ebbi l’impressione che i cammelli fossero più numerosi che gli uomini. Da quel breve viag ­gio (non si poteva andare molto lontano nell’interno, da soli tre anni erano state ri ­prese Garian e Jeffren sul ­l’altopiano, la nostra occupazione era di poco più vasta di quella che nel 1922 i fran ­cesi della vicina Tunisia de ­finivano « occupazione bal ­neare », ridotta come si era nel corso della prima guerra mondiale a Tripoli a Zuara e a Homs), da quel breve viag ­gio, considerando quelli che erano allora i tre elementi predominanti del paese, le palme, gli uomini e i cammel ­li, riportai soprattutto una impressione di immobilità se ­colare.

Le palme: i soli alberi ol ­tre a rari ulivi che si vedes ­sero allora in Libia, raggrup ­pati nelle oasi, al sommo de ­gli altissimi steli le ferme ruo ­te di foglie grevi nel cielo, fisse, come per grande stan ­chezza; ci vuole un vento travolgente perché ondeggino un poco. Gli uomini: che ave ­vo visto più spesso accocco ­lati davanti alle casupole nel ­le lunghe ore del pomeriggio, ristretti in una angusta lista d’ombra; e anche quando in ­gombravano le vie o le piazze, per spettacolo, per faccende, si scotevano solo quanto è ne ­cessario, o stavano ore e ore ritti l’uno accanto all’altro, solo gli occhi vivi nel volto fermo; e le pieghe dei baracani cadevano giù dure e de ­finitive come quelle delle sta ­tue sul fastigio delle chiese barocche. E infine i cammel ­li: che erano dappertutto, avanzavano sulle piste della steppa o per le vie cittadine col lento passo dondolante, erano folla ai mercati e ac ­canto ai pozzi delle oasi, o sdraiati e subito impietriti come fossero così da secoli, con occhi velati e la piega sprezzante e superbiosa delle labbra.

Ma ormai l’autocarro sta uccidendo le carovane. Stra ­de battute arrivano fino al ­le grandi oasi del Sahara, ma anche sulle piste del deser ­to gli autocarri vanno più veloci e portano più roba. In tre anni, dal 1965 al ’67, co ­me leggo nell’annuario stati ­stico citato, i cammelli sono diminuiti di trentamila in ci ­fra tonda; erano 286.427 nel ‘65, 255.853, nel ’67. E’ da te ­mere che non sia remota la loro scomparsa quando sarà compiuto il programma di strade del secondo piano quinquennale, e gli autocar ­ri giungeranno comodamente fino ai confini col Ciad, e di vasti spazi del Sahara si fa ­ranno campi coltivati.

Il cammello era uscito per ­fetto dall’eocène, settanta mi ­lioni di anni fa, fatto appo ­sta per questi deserti e que ­sto clima, con un incredibile sopportazione del sole info ­cato e del gelo notturno; sot ­to la pianta dei piedi ha pan ­nicoli adiposi ed elastici per cui non affonda nella sabbia per quanto sia soffice, e si porta al seguito la cantina ed i viveri (voglio dire che i grassi contenuti nella gobba e grandi sacche acquifere nello stomaco gli permettono di stare per giorni e giorni senza bere e senza mangiare beccando tutt’al più gli stec ­chi di un arbusto spinoso). E’ uno dei più antichi ani ­mali domestici, sono almeno seimila anni che gli abitato ­ri del deserto se lo tengono accanto alla tenda con l’asi ­no e le pecore, gli serve nei lavori della terra, per tra ­sportarsi, per cacciare, aver ­ne il latte e la lana, nutrir ­sene se viene a morte; biz ­zarro e scontroso, facile ad affezionarsi a chi gli regali un pugno di datteri.

 

L’oleandro velenoso

 

L’inglese sir F. Palgrave scrive che è stupidissimo ani ­male, e solo per la sua stupidi ­tà, grande e poderoso com’è, si è fatto schiavo dell’uomo. Altri affermano che è intelli ­gente, furbo, dotato di lunga memoria come la mula del papa, e come questa se subi ­sce un’offesa prima o poi se ne vendica. Lo zoologo Giu ­seppe Scortecci nella sua ope ­ra Animali, come sono, dove vivono, come vivono racconta che andando un giorno con una carovana tuaregh dal Fezzan al confine algeri ­no si trovarono ad attraver ­sare un Uadi ove crescevano molti oleandri, pianta velenosissima per i cammelli. « Un dromedario giovane vi si ac ­costò e fece l’atto di brucar ­ne le foglie; se ne accorse uno dei tuaregh e lo allon ­tanò. Poi gli abbassò la te ­sta, gli circondò il collo con un braccio e prese a parlar ­gli a bassa voce; e al tempo stesso con la mano libera gli avvicinava alle nari un ra ­metto della pericolosa pian ­ta. In seguito mi disse che aveva avvisato il dromedario di non avvicinarsi più agli oleandri perché erano piante cattive ». Bastarono quelle carezzevoli parole, per tutto il tempo che durò il viaggio, il dromedario avvertito non si accostò più alle piante di oleandro.

Ho già detto che ciò che pareva utopia cinquant’anni fa, che si potesse far cam ­pagna fertile d’uno dei can ­toni più desolati dell’Africa, steppa fulminata da un ardentissimo sole o abbacinan ­te mare di dune che mon ­ta e trabocca da ogni parte, quel sogno di Faust si è già avverato con la trasforma ­zione del gebel cirenaico, del ­la fascia costiera da Misu ­rata al confine tunisino, del ­la gefara fino ai piedi del ­l’altopiano di Garian, dopo il non sperato ritrovamento delle acque sotterranee. Ora non pare azzardato prevede ­re la messa a cultura di va ­ste parti del Sahara, dopo la scoperta di cui ho detto di enormi masse d’acque pro ­fonde sotto le oasi di Cufra, e dopo i riusciti esperimenti di una società petrolifera americana nell’erg (deserto di sabbia) di Hascian, con la bonifica di oltre tremila et ­tari ottenuta inaffiando le dune con un olio ricavato dal petrolio grezzo che ne ar ­resta il movimento e le ras ­soda, sì che piante rigogliose hanno attecchito in pochissi ­mo tempo; ritrovato rivolu ­zionario rispetto all’antico, di contenere le dune con sie ­pi di un’erba speciale chia ­mata diss.

Un articolo di fondo del Libyan Mail, settimanale li ­bico in lingua inglese, sotto il titolo « Il problema peren ­ne » parla dell’antica con ­danna della Libia, la sua tra ­dizionale aridità, la scarsezza delle piogge dal tempo dei greci e dei romani fino a que ­sto secolo. « Oggi â— scrive il giornale â—, con l’avvento dell’età del petrolio non do ­vremmo più preoccuparci delle condizioni climatiche; finché dura la generosa ero ­gazione dei pozzi possiamo sottrarre l’agricoltura alla tirannia del clima impiegan ­do il denaro necessario a co ­struire dighe, predisporre ri ­serve d’acqua, scavare pozzi artesiani e canali, fare in ­somma come fecero gli intra ­prendenti romani nei tempi remoti con opere di cui ve ­diamo ancora le vestigia ». L’autore dell’articolo â— cer ­tamente per partito preso â—, risale da oggi agli antichi romani oltre uno iato di di ­ciotto secoli. Giustizia vor ­rebbe che additasse ad esem ­pio ciò che fece l’Italia in questo campo, gli anni dal 1931 al 1942.

 

Fortunata ricerca

 

Il geologo Ardito Desio, che ha dedicato lunghi anni alla ricerca delle acque sot ­terranee in Libia, narra che quando nel 1914 una perfo ­razione profonda450 metriraggiunse per la prima volta una falda artesiana presso Tripoli si pensò ad un caso fortunato. Nel 1931 si fecero ricerche in profondità nel ­l’oasi di Gadàmes, e dopo due anni di lavoro (1932) da365 metrisotto il piano di campagna si sprigionò un po ­tente getto d’acqua di125 metri cubil’ora. Fino a quel ­l’anno l’oasi di Gadàmes sem ­brava condannata a morire, soffocata dal mare delle sab ­bie avanzanti da oriente; quando vi giungemmo la pri ­ma volta un terzo dell’oasi se ne era già andato, indicato soltanto da uno sbocconcel ­lato muro di cinta; il sab ­bione aveva scavalcato il de ­bole riparo, isterilito gli orti, seccato le palme, continuava a insidiare le culture e il palmeto superstiti. Quel poz ­zo d’acqua perenne permise di rimettere a cultura quasi tutta la parte abbandonata. Quando andai a Gadàmes nel ’34 trovai che al margine del ­l’oasi era sorto un vivaio ove si allevavano esemplari di mandorli, di ulivi, di tame ­rici, di cipressi, di agrumi, di ortaggi, da distribuire agli indigeni a cui era stato affi ­dato il terreno rigenerato.

Altri pozzi artesiani furono scavati poco dopo nell’oasi di Hon nel Fezzan, da una falda artesiana profonda 406 metri, e a Sbabil nella gefara. Solo nel 1935 si ac ­certò che una profonda falda sotterranea correva anche nella gefara tripolina e nella zona di Misurata; la ricerca divenne assidua e fortunata con nuovi apparecchi di per ­forazione rapida e profonda, per cui nella sola zona di Misurata, dal 1936 al 1940, finché scoppiò la guerra, si erano trivellati 35 pozzi per complessivi settemila metri cubi d’acqua. « Via via che si stavano perforando i nuo ­vi pozzi, in un territorio ari ­do e disabitato da innumere ­voli secoli si svilupparono va ­sti comprensori agricoli che in breve volgere di tempo furono popolati da dodicimi ­la coloni raggruppati in set ­te villaggi. Sembrò un mira ­colo la rapida trasformazio ­ne del paesaggio a chi vi ave ­va soggiornato prima che l’acqua sotterranea fosse sta ­ta trovata e utilizzata ».

Quando Ardito Desio tornò in Libia nel 1952 vide che quei pozzi funzionavano an ­cora. Quelli di cui era dimi ­nuita la portata (ma per l’e ­rosione dei tubi prodotta dal ­le acque aggressive), furono vantaggiosamente sostituiti da altri scavati a poca di ­stanza.

 

 

Nell’articolo precedente il salto di una riga ha alterato il senso del secondo periodo del decimo capoverso, che va letto come segue: « A Misura ­ta le autorità del comune al ­le suore elisabettiane, che sta ­vano strette con l’asilo e la scoletta elementare, hanno assegnato un edificio più grande; etc. ».

 


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