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STORIA: I MAESTRI: Silvio Spaventa: Un grande borghese

23 Marzo 2017

di Giovanni Russo
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 7 agosto 1969]

La fotografia di Silvio Spa ­venta, che sta accanto al fron ­tespizio del libro di Elena Cro ­ce (« Silvio Spaventa » Edizio ­ni Adelphi pp. 328 lire 3500), sembra giustificare con l’e ­spressione intenta e malinco ­nica, lo sguardo penetrante dietro gli occhiali a stanghet ­ta, il pizzetto alla Napoleone III, una mano sulla catena del ­l’orologio, la caricatura di Ca ­millo Marietti che lo rappre ­sentava, nel gennaio del 1865, in un giornale satirico torine ­se, con un corpo di civetta, e la didascalia: « Angel nottur ­no, sepolcrale e tristo ».

In realtà dalla fotografia, evidentemente ufficiale, poiché indossa una corretta marsina probabilmente confezionata da un sarto di Londra, Spaventa appare, piuttosto, come ce lo descrive il De Amicis, che lo incontrava nel salotto Peruzzi, « torre minacciosa in cui si diceva fosse chiuso un san ­to, ma che per intanto met ­teva paura ».

Questo abruzzese orgoglio ­so e solitario, che fu legato a pochi intensi affetti privati (e soprattutto a quello per il fra ­tello Bertrando, uno dei fon ­datori della scuola hegeliana in Italia) e che dedicò tutto se stesso alla vita pubblica, non è stato mai popolare ai suoi tempi e non lo è neppure oggi. Senza gli studi del nipote Be ­nedetto Croce (Silvio Spaven ­ta era cugino di suo padre e ne divenne il tutore dopo che i genitori di Croce morirono nel terremoto di Casamicciola) le figure dei fratelli Spa ­venta sarebbero probabilmen ­te rimaste circoscritte nell’am ­biente degli specialisti di sto ­ria e di filosofia. E si deve ora alla figlia di Croce, Elena, ani ­mata da una « pietas » quasi familiare, che non fa velo al giudizio storico se, per la pri ­ma volta, abbiamo un ritratto a tutto tondo del personaggio umano di Silvio. Egli emerge tale da suscitare se non paura (come scriveva De Amicis) ri ­spetto e ammirazione, senti ­menti che suggeriscono, pur sempre, di tenersi un po’ alla larga da lui.

Certo non poteva essere sim ­patico agli italiani, che sospet ­tano sempre nella fermezza di carattere una fonte di disturbi e di « grane », questo rivolu ­zionario meridionale che non venne mai a compromessi, che agiva solo secondo coscienza, che, condannato a morte nel ­l’ignominioso processo per i fatti del ’48, dai giudici bor ­bonici, su testimonianze prez ­zolate, in una lettera a Giu ­seppe Massari scriveva parole come queste: « Io sono uno che crede fermissimamente al trionfo della libertà e della ra ­gione dell’uomo: e quand’anco mi sarà tolto di vedere ri ­sorgere l’alba della nostra re ­denzione, io morirò lieto per ­ché non ne dispero ».

Il mito di Spaventa, alimen ­tato anche da studi recenti di storici marxisti, è quello di un borghese conservatore che non capì le esigenze sociali del Meridione e fu, invece, arte ­fice con la « consorteria » toscoemiliana e i piemontesi di uno Stato moderato e sostan ­zialmente oppressore delle ple ­bi del Sud. Antonio Labriola, in una lettera che scriveva a Benedetto Croce, il quale ave ­va raccolto in un volume gli scritti di Silvio Spaventa, an ­ticipava questo giudizio quan ­do affermava che Spaventa era una personalità da « non pro ­mettere né ad eruditi né a ro ­manzieri l’occasione o il gu ­sto di una qualche scoperta » perché era « un gran giurista mancato, un uomo di straor ­dinaria rettitudine, un singola ­re misto di semplicità provin-cialesca e di scolasticismo me ­tafisico, ma punto un uomo po ­litico ». E aggiungeva: « Non mi è chiaro perché Spaventa piuttosto disperato anziché no uomo senza arte e senza par ­te, incline al formalismo logi ­co, privo di studi storici e sociali, in tali condizioni di ­sperate d’Italia, sia stato sem ­pre un liberale moderato e niente altro ».

*

La biografia di Elena Croce è un’esauriente, appassionata e documentata confutazione di questo giudizio: al contrario di quello che Labriola pensa ­va, le scoperte, sia per gli eru ­diti sia per i romanzieri, ci sono e sono, anzi, di una ric ­chezza e ampiezza inattese.

Se la biografia di Elena Croce si fosse limitata a rac ­contare la funzione di Silvio Spaventa come uomo pubblico (da quando, nel 1848, fondò, ventiseienne, a Napoli, il gior ­nale « Il Nazionale » a quan ­do, dopo sei durissimi anni di ergastolo nell’isola di Santo Stefano, divenne deputato al Parlamento Italiano, poi se ­gretario al Ministero dell’In ­terno nel gabinetto Farini-Minghetti del 1863-’64, Consi ­gliere di Stato nel 1868 e Mi ­nistro dei lavori pubblici dal ’73 al ’76) non avrebbe ag ­giunto molto al giudizio che vede in lui l’uomo politico, che, in un periodo delicatissi ­mo, meglio di ogni altro «com ­batté municipalismo e piemontesismo, congiure di sini ­stra e reazione associata al brigantaggio ».

Il fascino di questo libro sta, invece, nel talento con cui l’autrice ha ricostruito non so ­lo la psicologia di Spaventa (compito tremendo se si pen ­sa come egli fosse schivo, chiu ­so, restio a confidenze) ma anche l’ambiente familiare e quello della società in cui visse.

Con infaticabile solerzia, Elena Croce non ha consulta ­to solo il carteggio di Silvio con il fratello Bertrando, ma anche altri finora sconosciuti: dalle lettere che lo Spaventa scambiò, quando era all’erga ­stolo, con una sua lontana cu ­gina desiderosa di sposarlo, Felicetta Ulisse, maggiore di lui di qualche anno, non bel ­la, ma, come dice l’autrice, « sicura dei propri diritti ro ­mantici »; alla corrisponden ­za, che mantenne per tutta la vita, con un’altra cugina più stretta, Marianna, figlia mino ­re del consigliere Croce (che lo aveva ospitato da giovane a Napoli) ed era maritata a Francesco Petroni, ricco pro ­prietario salernitano di idee liberali. La Croce ha poi visi ­tato i luoghi dove Spaventa nacque, studiò e lavorò, e per ­sino l’ufficio del Consiglio di Stato, che egli presiedé negli ultimi anni della sua vita.

Da questa amorosa indagi ­ne, è nato il miracolo che Sil ­vio Spaventa, relegato nell’em ­pireo dei Padri della Patria (un noioso da onorare e da dimenticare) è ritornato, in ­vece, un uomo quasi palpabi ­le, E con lui rivive quella so ­cietà liberale del Sud, niente affatto provinciale, perché, co ­me dimostra Elena Croce, l’unica « provincia » europea era allora, proprio quella del ­la cultura napoletana.

*

Silvio Spaventa non ricercò mai la popolarità e il successo a buon mercato. Questa di ­gnità lo impone alla « consor ­teria » toscoemiliana o a uo ­mini come il Farini, diffidenti verso i « napoletani »; anche se proprio fra i giornalisti pie ­montesi rinascerà l’insulsa ca ­lunnia, di cui ben poco si curava, che lo dipingeva co ­me un « camorrista », lui che fu il vero nemico della ca ­morra. «La caricatura del per ­secutore di camorristi che as ­sume sembianze di capo ca ­morrista, elaborata a Napoli durante la Luogotenenza â— scrive Elena Croce â— acqui ­stava automaticamente, coi fatti di settembre, nuovo cor ­so ». (Si tratta delle dimostra ­zioni a Torino contro il tra ­sferimento della capitale a Fi ­renze). « Si disse che Spaven ­ta, chiamati i suoi sgherri na ­poletani, aveva dato dal suo ufficio, con un colpo di pisto ­la, il segnale perché la trup ­pa aprisse il fuoco sui dimo ­stranti, ed era restato a guar ­dare freddamente, dietro i ve ­tri, fumando un sigaro ».

Cosa sarebbe stata l’Italia del Sud, se uomini come lo Spaventa non fossero stati perseguitati dalla cecità di Ferdinando? Quale sarebbe stata l’Unità se l’apporto di queste energie morali, nutri ­te di civiltà europea, non fos ­se avvenuto in tali condizioni di inferiorità politica e socia ­le del Mezzogiorno?

La storia non si fa con gli interrogativi; ma tale è il sen ­timento di rammarico che sgorga dalla lettura della bio ­grafia di Silvio Spaventa, un libro che è, in realtà, il pri ­mo romanzo, nel senso prou ­stiano del termine, della bor ­ghesia rivoluzionaria e libe ­rale del Sud.

Spaventa (e il suo matri ­monio tardivo lo dimostra) era tenero negli affetti anche se era parco nel mostrarli. « Non era effettivamente un uomo politico, e nemmeno un giurista â— scrive l’autrice a conclusione della sua opera â— perché era un uomo senza mestiere che non aveva nem ­meno il culto del lavoro: aveva soltanto la passione, ap ­punto ‘disperata’, dello spen ­dere se stesso per una causa ».

Il libro di Elena Croce è qualcosa più di una biografia. C’è in questa opera, che con ­ferma in Elena Croce un’au ­tentica scrittrice italiana, una autentica partecipazione a una società, cui l’autrice sente an ­cora di appartenere: la società del Gattopardo di Tornasi di Lampedusa o dei Viceré di De Roberto, la società della « Fine di un Regno » di De Cesare o del palpitante Diario Napoletano di Carlo De Ni ­cola.


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Bart