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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

TEATRO: I MAESTRI: Le faccende italiane del teatro

25 Agosto 2013

di Elio Pagliarani
[da “Quindici”, numero 13, novembre 1968]

Allora, registrato e scontato il liberal trionfo di mercato delle farse dialettali milanesi, che sembrano aderire perfettamente alle esigenze di quella borghesia (né il cartellone del Piccolo ap ­pare in grado di offrire concrete alternative), è pacifico anche l’eclettismo qualunquista dello Sta ­bile di Roma, il quale del resto ha il merito di essere fantomatico, di esistere cioè più che altro per quel tanto che serve alla sopravvivenza della propria burocrazia, l’Ente per i Soccorsi ai Ter ­remotati di Casamicciola essendo esempio roma ­no tra i meno aberranti.

Fin qui tutto bene, un po’ meno constatare che Luca Ronconi ha una gran fretta di bruciarsi l’apertura di credito acquistata coi Lunatici: e certo il Candelaio come l’ha dato lui mi sembra una grossa occasione sciupata, sbagliato dalla prima all’ultima scena.

Che occasione! A cominciare dalla Dedica ai letterati: « Voi che tettate di muse da mamma, / E che natate su lor grassa broda. / converrà forse a me gramo / Monstrar scuoperto alla Si ­gnora mia / Il zero e menchia, com’il padre Adamo… »; dall’Antiprologo: « Messer sì, ben con ­siderato, bene appuntato, bene ordinato. Forse che non ho profetato che questa comedia non si sarrebbe fatta questa sera? Quella bagassa che è ordinata per rappresentar Vittorio e Carubina, ave non so che mal di madre. Colui che ha da rapresentar Bonifacio, è imbriaco che non vede ciel né terra da mezzodì in qua… L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizzarro… Tanto che io, con servir simile canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me bisognasse vomire, non potrei vomir al ­tro ch’il spirto: si me fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che l’anima, com’un appiccato. In conclusione, io voglio andar a farmi frate: e chi vuol far il prologo, sel faccia »; dal Propologo: «L’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nu ­me, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tra ­montana stella, ed un bel sol ch’a l’alma mai tramonta: ed a l’incontro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera, versaglio sol di tutti miei pensieri, e bei son gli amor miei non quei d’altrui. Vedrete in una di queste femine sguardi celesti, suspiri infocati, acquosi pensa ­menti, terrestri desiri e aerei fottimenti: co ri ­verenza de le caste orecchie â— è una che sei prende con pezza bianca e netta di bucata… »; dal Bidello: « Prima ch’i’ parie, bisogna ch’i’ m’iscuse. Io credo che, si non tutti, la maggior parte al meno mi dirranno: Cancaro vi mangio il naso! dove mai vedeste comedia uscir col bi ­dello? Ed io vi rispondo: Il mal’an che Dio vi dia! prima che fussero comedie, dove mai furo ­no viste comedie? e dove mai fuste visti, prima che voi fuste? »

Va bene, ho esagerato in citazioni; e mi è già capitato di osservare, a proposito dei significati della commedia di Giordano Bruno, come ne tra ­peli profondo totale disprezzo e fastidio della so ­cietà a lui contemporanea: come egli fosse pie ­namente consapevole che il linguaggio può essere, e storicamente lo fu ed è, manipolato e usato co ­me strumento di sopraffazione â— Bruno appo ­sta esagita il plurilinguismo più scatenato e c’è il proprietario fondiario portatore del linguaggio petrarchesco, e ci sono gli esemplari delle cosche specialistiche, i portatori del linguaggio « scien ­tifico »; e c’è speranza come voglia di beffa, di ­sperata speranza come beffa, che il popolaccio, i lazzaroni tronchino la spirale della sopraffa ­zione o almeno la usino una volta a loro vantag ­gio; e c’è brama, ambizione viscerale, di posses ­so, di donna, di oro, di potere: soprattutto c’c brama di pazzia, pazzia come conquista sociale: ultima citazione, e dal finale: perché madonna Angela, « pastora di tutte le belle figlie di Na ­poli », consigliò a Carubina di sposar messer Bonifacio? « Non importa che sii candelaio, non ti curar che dii tre morsi ad un faggiuolo, non ti fa nulla che non piace troppo, non ti curar che sii troppo attempato, Prendilo prendilo, perché è pazzo ». Che mi pare discorso sensato, al ­meno Carubina non morirà di noia. E pazzia come conquista sociale significa programmato eppur sanguigno e inesausto anticonformismo: e in ­somma rompere le scatole ai potenti, sino alla fine costi quel che costi, che fu programma dal Bruno fin troppo realizzato.

Nello spettacolo di Ronconi ci sono stracci e vento, e un qualche espressionismo caotico abba ­stanza grandioso e buffonesco e talvolta grotte ­sco, il che può anche addirsi al Bruno, bisogna riconoscerlo, ma non c’è proprio altro, non un’un ­ghia di rabbia o brama di pazzia. Certo, c’è Mario Scaccia, bravissimo a fare e a strafare e a divertirsi a dimostrare che quando lui deve mettersi all’ombra tutto lo spettacolo cala, diven ­ta piuttosto meschinello. Ad ogni modo gli resta ­no per quest’anno a Ronconi ancora una mezza dozzina di regie e si potrà valutare senza ulte ­riore sospensione di giudizio quanto arrosto c’è dietro il suo fumismo, e la sua schietta ambizione.

Perché a livello « ufficiale » non è che ci sia molto di meglio: un mesto, ben fatto, intimistico e del tutto inutile (nel senso che lascia il tempo che trova, e non trova beltempo) Goldoni: Una delle ultime sere di Carnovale, impeccabile regia di Luigi Squarzina, coi soli peccati teatrali del secondo inserto di autobiografia goldoniana e del Giancarlo Zanetti inadatto alla parte, che è del protagonista. E una scena bellissima, da antolo ­gia: quella del gioco della Meneghella; ma, ap ­punto, da antologia. E un pizzico di autobiogra ­fismo squarziniano.

In una situazione meno ufficiale e sicuramente più avventurosa, assolutamente notevole, invece, il Tito Andronico diretto da Aldo Trionfo, ovvia ­mente sperperato in stagione estiva (il che vuol dire, bravo chi l’ha fatto, bravo chi l’ha fatto fare, ma poi non si è trovato un solo Stabile che gli abbia offerto riparo invernale, nonostante l’invenzione della coproduzione stabil-teatrale). Qui il regista dispiega una tale quantità d’inven ­zione, che riesce non soltanto a farsi perdonare la maggior parte dei suoi compiacimenti e vizi estetistici, ma buona parte di quelli a renderli necessari, com’è dei più robusto manierismo ba ­rocco. E poi c’è Glauco Mauri che è così poco affabile e accattivante, lievemente fastidioso, si ­curamente grigio, e con questi mezzi si impone, vien fuori alla distanza come un orso di buon senso ormai scocciato, fino al festino antropofago. E dei ragazzi scatenati, bravissimi, come Mar ­zio Margine e almeno altri due, di cui ora non ricordo il nome. E Franca Nuti, bella e alta, quando fa la fattucchiera ha una torre in testa e fascia a tracolla. E Goti capelloni e Aaron del Black Power: più di un beneassennato rimase basito, senza fiato.

E insomma, se limitiamo per questa volta lo sguardo alle faccende italiane c’è ora ben poco d’altro, Carmelo Bene scherzando troppo con Don Chisciotte, il gruppo ’63 segnando qui marcatamen ­te il passo, dopo alcuni felici esperimenti già di tre o quattro anni fa di teatro da camera, e l’infeli ­ce sortita di Arbasino regista.

Ma c’è da segnalare un fatto che mi pare per adesso del tutto positivo, e abbastanza inconsue ­to nell’intera storia del nostro teatro, voglio di ­re l’inquietudine degli attori, soprattutto dei più giovani attori, che si manifesta in molti modi: era presente nel nervosismo della prima vene ­ziana di Una delle ultime sere di Carnovale, nel ­la risposta attiva della compagnia alla censu ­ra veronese per il Tito Andronico e il « viva Braibanti » di Aaron-Graziosi, persino nell’autentico entusiasmo di alcuni degli attori, Adriana Inno ­centi in testa, del men che modesto spettacolo di Enriquez sul movimento studentesco. Per non di ­re dei convegni, come quello di Cesenatico (dove non c’ero, coincidendo esso con prime veneziane) e, più, dei nuovi gruppi di cooperative di attori che sorgono e stanno sorgendo. Ora non importa che ci sia anche tanta confusione, o che qual ­cuno possa porsi nella sua ingenuità la contestazione-al-Lido-di-Venezia come modello, l’elemento positivo è dato dalla responsabilità personale, in ­dividuale, di cui gli attori si sentono carichi. Non c’è più solo il problema della « parte », come fu per troppo tempo: e questo altro, che ora sentono agire con preminenza, non potrà alla lunga non funzionare anche nell’interesse della « parte ». Ve ­ro è che, per non parlare di più concreti e ur ­genti rimandi, e limitare il discorso all’interno, avendo gli attori acquisito sulla scena più spazio, rispetto alle parole, la loro persona essendo fisi ­camente più libera e attiva, anche proprio come elemento spettacolare, essi si sentono più perso ­nalmente impegnati, sanno di avere più peso e di essere perciò chiamati a un’altra, più specifica responsabilità. Donde l’inquietudine, donde auten ­tici fermenti di avanguardia a teatro.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart