Quattro articoli21 Marzo 2012 Abolito l’art. 18, quasi Comunque si concluda l’estenuante trattativa sul lavoro, che vede im pegnato il governo con le cosiddette parti sociali, segnata mente i sindacati, dobbiamo dirci che il problema centrale non sarà risolto: il lavoro stesso, la capacità e la voglia di farlo. Non entriamo nel merito dei punti oggetto del ne goziato, anche perché la discus sione è in corso e proseguirà chis sà fino a quando, e il tutto è suscet tibile di cambiamenti. Inoltre, da gli esecutivi si possono attendere regole adatte ai tempi, ma non pre tendere che basti un loro interven to per migliorare le sorti dell’eco nomia e favorire l’agognata cresci ta. Per risorgere ed essere competi tive sul mercato globalizzato, ma non disciplinato da norme comu ni, le imprese abbisognano di b en altro che non l’eliminazione del l’articolo 18, che è soltanto l’em blema di un Paese vecchio e con servatore, quindi refrattario se non ostile a qualsiasi cambiamen to. Lo Statuto dei lavoratori ha più di quarant’anni. Fu approvato a furor di popolo in un’epoca in cui si pensava che il socialismo fosse una macchina imperfetta ma per fettibile, la sola in grado di funzio nare e di rendere giustizia al prole tariato. Ne erano convinti tutti, an che i nemici del comunismo, che, difatti, cercarono di introdurre in Italia (direi in Euro pa) elementi di tipo sovietico onde ritar dare la vittoria della dittatura del popo lo, considerata inevitabile. La storia poi ha cambiato direzione. Cogliendo di sorpresa il mondo intero, la grande utopia si rivelò un fallimento, un vero bidone. Nonostante ciò, quegli elementi di tipo sovietico, spazzati via quasi ovunque, in Italia sono rimasti in vigore e costituiscono un freno allo svi luppo, costringendo le aziende a osser vare leggi distoniche rispetto alla realtà attuale. L’abrogazione del famigerato articolo 18, pertanto, è sì necessaria per segnare una svolta di mentalità, ma oc corre sapere che non sarà determinante ai fini del rilancio economico. Per ottenere il quale servono un mutamento ra dicale di abitudini, una scuola all’altez za delle esigenze del mercato, studenti in grado di comprendere che laurearsi in scienze politiche o in scienze della co municazione non è utile a loro stessi (e nemmeno alle aziende), una disponibi lità generale a imparare mestieri tecnici e artigianali che garantiscano un’occu pazione. È un controsenso che il Paese abbia un tasso di disoccupazione intorno al 9 per cento e quasi cinque milioni di lavo ratori stranieri (500mila dei quali si so no messi in proprio), inquadrati secon do prassi contrattuali. Significa che al trettanti connazionali, ossia tutti coloro i quali non hanno un posto, lo hanno ri fiutato perché non era di loro gradimen to. Ergo, non manca il lavoro, ma il desi derio di farlo. Ecco la differenza tra le ge nerazioni del passato e quelle di oggi: una volta, almeno per cominciare, si ac cettava qualsiasi attività retribuita pur di non gravare su famiglie (la maggior parte) disagiate; adesso che le famiglie hanno più mezzi, parecchi giovani pre feriscono farsi mantenere da mamma e papà piuttosto che sporcarsi le mani. È un discorso urticante, mi rendo con to. E proprio per questo temo che non sia peregrino. Ciò detto, va da sé che ur ge la riforma del lavoro spesso annuncia ta e mai realizzata. Ce la faranno Mario Monti ed Elsa Fornero a portare a casa il risultato? Vedremo. La materia è talmente scottante che minaccia di incene rire il governo. Il quale, pertanto, non sa rà più di professori bensì di pompieri. Ri nuncerà – col pretesto nobile di agire in ossequio alla democrazia parlamentare – al decreto e alla fiducia, e predisporrà un disegno di legge da dibattersi alle Ca mere. Campa cavallo. Altra modesta metafora: la palla pas sa ai partiti che avranno l’obbligo di as sumersi la responsabilità di modificare il testo del provvedimento (magari svuo tandolo dei contenuti qualificanti) o di bocciarlo oppure – difficile – di approvar lo. Il ministro Fornero si era sbilanciata: con o senza l’assenso dei sindacati con durremo in porto la riforma, inclusa l’eli minazione dell’articolo 18. Figurarsi. L’esecutivo sta già innestando la retro marcia. Ha il ferreo proposito di tergiver sare. Decide di decidere a metà. Neppu re i democristiani avrebbero fatto di me glio. Poi ci si domanda perché l’Italia non va avanti. Per forza, se anche Monti è un gambero… Toh, il Fatto scopre ora quei pm politicizzati Tutta colpa della cozza pelosa. Lo sapete come sono i frutti di mare, no? Rischiano di rimanerti sullo stomaco, peggio di un editoriale di Travaglio. E in effetti non è facile da digerire il titolo del Fatto di ieri: «Emiliano sotto tiro: obiettivo Lista civica », gridano a tutta pagina i fan del giornalismo per Procura. Nel pezzo si chiarisce che cosa ci sta dietro la vicenda della Puglia: il vero obiettivo sarebbe proprio quello di colpire la Lista civica nazionale proposta dal sindaco di Bari. Pensate: «Emiliano soltanto 20 giorni fa s’era candidato a governare la Puglia dopo Vendola. L’inchiesta della Procura di Bari l’ha sbalzato dal cavallo », insinuano i segugi del Fatto. Del resto che ci volete fare? «Emiliano non è mai stato gradito agli apparati ». Lo vedete come fa male la cozza pelosa? La mangi, non digerisci e finisci per pensare che uno possa finire nel mirino delle Procure perché «non è gradito agli apparati ». Oppure, addirittura, che uno venga «sbalzato da cavallo » sotto i colpi delle inchieste perché propone una Lista civica che «dà fastidio al Pd », come chiosa in prima pagina Marco Travaglio. Possibile? E dire che noi, a forza di leggerlo, ci eravamo quasi convinti che se uno viene sbalzato dal cavallo sotto i colpi delle inchieste è perché è un birbantello. Magari con qualche scheletro nell’armadio. Non è così? Dobbiamo dunque credere che esiste una giustizia politica? Ma quella non era un’invenzione dei berluscones d’assalto? Non era roba da Platinette più o meno barbuti e biondini con le mèches? Volete dirci ora che avevano ragione loro? E ce lo dite proprio voi? Vi confessiamo la verità: non era stata mica facile la conversione. Dopo aver visto quel che era successo in Tangentopoli ci era rimasto più di un sospetto che non tutti i partiti fossero stati colpiti allo stesso modo. Il Pci, per esempio: proprio sicuro che non abbia avuto nulla a che fare con il finanziamento illecito? E neppure con i fondi Enimont? Perché le Procure avevano «sbalzato da cavallo » Psi e Dc e non la sinistra? Ancor più sospetti, poi, ci erano venuti durante i diciassette anni di berlusconismo in politica: tutte quelle inchieste all’improvviso rivolte contro di lui e i suoi collaboratori, forzature giudiziarie di ogni tipo, spiate dal buco della serratura, applicazione ardite di codici e interpretazioni ai limiti della civiltà, e insomma tutto quello che voi lettori del Giornale ben sapete. Avevamo pensato: vuoi mettere che qui ci sia una giustizia politica? Magari per colpire qualcuno «non gradito agli apparati »? Ogni volta che lo dicevamo, però, i robespierre con la ghigliottina al seguito ci rintuzzavano beffardi: «Ma che dite, non è vero, la giustizia giudica, la politica non c’entra ». Le toghe non sono né rosse né nere: sono immacolate, ci raccontavano. E anche se si iscrivono a qualche corrente (magistratura democratica) non è che lo fanno per incidere nella vita istituzionale, macché: lo fanno per stare insieme, perché si vogliono bene, un po’ come gli amici del bridge. Alla base delle loro azioni non ci sono mai simpatie di parte, ma come vi permettete anche solo di sospettarlo? I giudici non hanno simpatie, tanto meno di parte. Non ci sono persone più o meno gradite agli apparati, anzi quando si parla di inchieste non ci sono nemmeno apparati: ci sono solo asceti del diritto, santoni emeriti del codice, esseri superiori, sempre illibati e politicamente asessuati. Dicevano così, ve lo ricordate anche voi, no? E lo dicevano con tale insistenza, con tale foga, da una Samarcanda a un Annozero, che alla fine avevano quasi convinto anche noi. Ma ecco la sorpresa. Proprio sul più bello, proprio quando stavamo per iscriverci anche noi alla setta dei puri più puri dei puri, ecco che ti salta fuori all’improvviso questa storia di Emiliano. E la lista civica. E quelli che lo «sbalzano da cavallo ». E gli «apparati » che non gradiscono. Così, all’improvviso, cambia tutto. A tal punto che uno legge il Fatto e sembra di sentir parlar Cicchitto. Voi capite: è una situazione difficile da digerire più delle cozze. Perché quelle saranno pure state pelose, è chiaro. Ma mai pelose come le ipocrisie di certa gente. Ammazzaitalia Se c’era un motivo per credere che i tecnici avrebbero fatto meglio dei politici era che i primi non avrebbero dovuto rispondere agli elettori. Non avendo clientele da coltivare e piazze da tenere buone, i professori avrebbe – ro potuto decidere senza vincoli, facendo la cosa che ritenevano migliore per il Paese. Pur troppo, questo vantaggio il governo se lo sta mangiando, impantanandosi in una serie di trattative e di mercanteggiamenti degni della prima Repubblica. Non solo: come ai tempi di Andreotti, pur sapendo di dover varare una riforma, Monti e i suoi ministri, invece di im boccare la via maestra del decreto, preferisco – no prendere quella lunga e pericolosa della legge delega. Questa sarebbe la via, almeno secondo le indiscrezioni. Un modo democri stiano per non assumersi la responsabilità della scelta. Un sistema paraculissimo per la sciare al Parlamento il compito di varare il provvedimento. Se ciò corrisponderà al vero, se cioè si per derà tempo con un iter parlamentare lungo e inadeguato alla situazione, vorrà dire che do po settimane di discussioni, il presidente del Consiglio si è trovato di fronte a un bivio: o approvare una riforma del mercato del lavoro che scontenti i sindacati oppure partorirne una non degna del nome per lasciare tutto come prima. E posto di fronte alla decisione, il premier non ha fatto quello che ci si sarebbe aspettato da chi in poche settimane si è gua dagnato il soprannome di Rigor Montis. Inve – ce di tirare diritto e cancellare l’articolo 18 an che a costo di dare qualche dispiacere a Su sanna Camusso e alla sua band, Monti ha deciso di mettere la questione nelle mani di Ca mera e Senato, non senza aver prima registrato un verbale che tiene conto dei prò e dei contro alla riforma. In pratica, più che il capo di un esecutivo decisionista, Monti si rivele rebbe un notaio, rilevando le posizioni delle parti. Se così fosse non è dato sapere a cosa siano serviti i mesi trascorsi a discutere con le confederazioni. Che bisogno c’era di tutte le riunioni cui abbiamo assistito? Perché spre care tempo e fatica per scoprire chela Cgilera contraria? Per sapere che i sindacati non voleva no cancellare la norma che difen de i fannulloni non c’era bisogno di scomodarela Forneroe costrin gerla a lunghe trattative. Se il pre sidente del Consiglio mi avesse fatto una telefonata glielo avrei ri velato io gratis. 0 forse Monti pensava che bastasse una delle sue freddure a far rompere il ghiaccio fra governo e sindacati? Era in somma piuttosto noto che Camusso e compagni avrebbero fat to le barricate preferendo rompe re piuttosto che firmare la loro condanna a morte sindacale. Se poi fosse confermata la noti zia che gli indennizzi obbligatori saranno estesi anche alle aziende sotto i 15 dipendenti, la riforma, come abbiamo già scritto, si rive lerebbe una Controriforma. Dunque a cosa sono serviti questi mesi? La domanda fa il paio con quella posta qualche giorno fa da Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera. L’economista, con un editoriale, ha fatto infuriare il pre mier, suo ex compagno di univer sità e di articoli per il quotidiano di via Solferino. Ma cosa ha scritto di così grave il professore della Boc coni? Niente di drammatico, semplicemente ha invitato il premier a darsi una mossa, perché il tempo stringe e l’economia invece di da re segni di ripresa ne dà di peggioramento. È di ieri la notizia che nei primi mesi dell’anno il Pii, già sot tozero nel 2011, è calato ancora un po’. Segno evidente che la cura Monti non sta facendo effetto, ma anzi aggrava le condizioni del pa ziente. Nonostante lo spread sia sceso, la tempesta finanziaria si sia calmata e le Borse diano segni di ripresa, l’encefalogramma della nostra economia è sempre piatto. Anzi, più che piatto scivola come su un piano inclinato. E il governo che cosa fa? Sem plice: se fossero confermate le in discrezioni sulla legge delega pe ril mercato del lavoro, significhereb be che sta prendendo tempo. È successo con le liberalizzazioni, questione che gli è appunto stata rimproverata da Giavazzi. Invece di avviare in fretta le misure per una maggior concorrenza, le nor me si sono impantanate nel dibat tito parlamentare. Forse, dopo mesi, ora ci sarà il voto, ma soltan to perché l’esecutivo ha posto la fiducia. Non si poteva fare prima? Le liberalizzazioni sono già un brodino caldo, se poi arrivano quando il paziente è in coma a che servono? La stessa fine si rischia con il mercato del lavoro. Dopo le lun ghe trattative, se Monti deciderà di mettere la riforma in una legge delega, segnalando al Parlamento le opinioni discordanti fra le parti, finirà con un rinvio. Immaginia mo già la via crucis che attende le nuove norme: prima di disseppel lirle da sotto una valanga di emen damenti ci vorranno mesi. Come i lettori sanno, noi sin dall’inizio abbiamo nutrito dubbi sulla procedure di nomina del nuovo governo, ma alla fine ci era vamo rassegnati pensando che le carenze istituzionali sarebbero al meno state colmate dai vantaggi decisionali. Purtroppo se le cose andassero come abbiamo de scritto dovremmo ricrederci. Per questo oggi ci tocca scrivere ciò che non avremmo mai pensato: caro Monti, smetti di battere la fiacca. Se vuoi fare la riforma del mercato del lavoro, comincia a dare l’esempio e a decidere in tempi brevi. Il resto verrà da sé. Il finto tonto Ma davvero il presidente della Repubblica ha il potere di intimare alle parti sociali di rinunciare a “qualsiasi interesse o calcolo particolare”, cioè di non rappresentare più le categorie che dovrebbero rappresentare, per inchinarsi alla cosiddetta riforma dell’articolo 18 unilateralmente imposta dal governo del prof. Monti e della sig.ra Fornero con l’inedita formula del “prendere o prendere”? Ma dove sta scritto che quella cosiddetta riforma è buona? Ma chi l’ha stabilito che risolverà “i problemi del mondo del lavoro e dei nostri giovani”? Ma chi l’ha detto che “sarebbe grave la mancanza di un accordo con le parti sociali”? Ma, se “sarebbe grave la mancanza di un accordo”, perché il capo dello Stato non dice al governo di ritirare la sua proposta che non trova l’accordo delle parti sociali, anziché dire alle parti sociali di appecoronarsi alla proposta del governo in nome di un accordo purchessia? E che c’entra la commemorazione del prof. Biagi con l’art. 18? Non si era detto che la flessibilità avrebbe moltiplicato i posti di lavoro? Ora che ha sortito l’effetto opposto, anziché ridurla, si vuole aumentarla? E perché mai un lavoratore licenziato senza giusta causa dovrebbe rinunciare ad appellarsi al giudice perché valuti la discriminatorietà del suo licenziamento? E poi: perché mai sarebbe così urgente cambiare l’articolo 18, che riguarda 1’1% dei licenziamenti? E che senso ha rispondere, come fa la sig.ra Fornero, che così si tutelano i lavoratori non tutelati? Per tutelare i non tutelati si tolgono le tutele ai tutelati cosicché nessuno sia più tutelato? E siamo sicuri che, in un paese dove è facilissimo uscire dal mondo del lavoro e difficilissimo entrarvi, la soluzione sia rendere ancor più facile uscirne? E chi l’ha stabilito che la trattativa deve chiudersi il 22 marzo, non un giorno di più? E che libera trattativa è quella in cui il capo dello Stato getta la sua spada su uno dei piatti della bilancia, quello del governo, per farlo prevalere sull’altro? E che senso ha la frase della sig.ra Fornero: “Non si può discutere all’infinito, indietro non si torna”? Infinito in che senso, dopo un solo mese di negoziati? Indietro rispetto a cosa? E il Parlamento? Esiste ancora un Parlamento libero di approvare o bocciare le proposte del governo, o è stato abolito a nostra insaputa? E perché mai il Parlamento ha potuto svuotare a suon di emendamenti il decreto liberalizzazioni, snaturarne un altro con l’emendamento Pini contro i magistrati, mentre l’abolizione dell’art. 18 sarebbe sacra e inviolabile? È per caso un dogma di fede? Siamo proprio sicuri che l’insistenza del governo e del Quirinale sull’art. 18 risponda a motivazioni economiche e non al progetto tutto politico di isolare le voci stonate dal pensiero unico, tipo Fiom, Idv, Sei e movimenti della società civile e di cementare l’inciucio Pdl-Pd-Terzo Polo? Se il governo gode nei sondaggi della fiducia del 60% degli italiani e tutti se ne felicitano, perché ignorare il fatto che lo stesso 60% degli italiani è contro qualunque “riforma” dell’art. 18? È proprio ininfluente la maggioranza degl’italiani sulla scelta di un governo che nessuno ha eletto, anzi di cui nessuno, alle ultime elezioni, sospettava la nascita? E perché mai gli unici che devono rinunciare a rivendicare i propri diritti sono i lavoratori e i pensionati, mentre la patrimoniale non si fa perché B. non vuole e le frequenze tv non si vendono all’asta perchè B. non vuole? Il Quirinale smentisce l’indiscrezione apparsa ieri sul Foglio, secondo cui Bersani sarebbe “sempre più insofferente per l’interventismo del capo dello Stato” che “lo riprende e lo bacchetta” non appena “tenta di smarcarsi dal governo o dagli alleati” (nel senso di Casini e Alfano) “su Rai e giustizia”, per “riportare all’ovile il Pd” in nome della “stabilità del governo”? Ma, se il Parlamento deve ratificare senza batter ciglio i decreti del governo e i partiti e le parti sociali devono prendere ordini dal Colle e dal governo sottostante, siamo proprio sicuri di vivere ancora in una democrazia parlamentare? E in una democrazia? Letto 854 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||