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Tre articoli

27 Marzo 2012

Non si vede più l’urgenza del governo tecnico
di Fabrizio Cicchitto
(da “Giornale”, 27 marzo 2012)

Da una attenta lettura del documento sulla riforma del mercato del lavoro elaborato dal ministro risulta chiaro che il suo obiettivo è quello di proporre una nuova mediazione sociale fra le parti, e certamente non un’operazione unilaterale di rottura sociale.
L’ipotesi di mediazione riguarda da un lato la regolarizzazione della flessibilità in entrata – e quindi le varie forme di lavoro a termine e di precariato – e dall’altro, un aspetto della flessibilità in uscita regolata dall’articolo 18 (quella riguardante i licenziamenti per ragioni oggettive e economiche) mentre le altre (i licenziamenti per discriminazioni o per ragioni disciplinari) rimangono inalterate.
Come è noto le forme di lavoro a tempo e precario, risalenti all’elaborazione di Treu e di Biagi, sono derivate dal tentativo di assicurare comunque un percorso occupazionale alle nuove generazioni in una situazione di assoluta emergenza che non è il frutto della malvagità sociale degli imprenditori e dei governi.

Orbene il testo del progetto governativo ridimensiona fortemente le varie forme di lavoro a tempo determinato e precario per proiettare tutto verso il lavoro a tempo indeterminato il cui sviluppo è incentivato appunto dall’aumento di flessibilità in uscita per ragioni economiche. Ma è evidente che se cade quest’ultima condizione salta tutto l’impianto e la logica del provvedimento. Ma c’è anche un aspetto politico. Finora tutte le proposte del governo Monti, dal primo decreto firmato sull’aumento della tassazione sulla casa e sulla riforma delle pensioni a quelli sulle liberalizzazioni e sulle semplificazioni hanno avuto una loro motivazione in termini di urgenza non tanto per una valutazione temporale (in molti casi l’urgenza in senso stretto non c’era) ma per l’emergenza dei mercati e dell’Europa. Adesso questa decretazione per ragioni d’urgenza viene meno proprio sulla riforma del mercato del lavoro la cui immediata necessità è invece contenuta proprio nella lettera della Bce del 5 agosto 2011. Tutto ciò è in contraddizione non solo con la logica di natura emergenziale, per i mercati e per l’Europa, ma anche con la logica di fondo che dalla sua nascita ha caratterizzato il governo Monti.

In questa circostanza la decretazione d’urgenza viene meno per una scelta di mediazione politica rispetto ad una parte del Pd e alla Cgil. Noi non ne traiamo la conseguenza di una crisi di governo, come paventa Casini, ma è evidente che questo impasse deriva proprio dalla mancata decretazione d’urgenza che a sua volta vanifica il tentativo di soluzione insito nel testo del governo e che questo «blocco » non deriva certo dal Pdl. A questo punto si impone una riflessione su tutta la materia perché così come essa è impostata rischia di andare a finire su un binario morto, in una situazione accentuata da contraddizioni anche istituzionali. Detto tutto ciò esistono anche due problemi politici di fondo. A nostro avviso, malgrado il conflitto aperto sul tema del lavoro, bisogna fare di tutto per portare a compimento sia la riforma istituzionale, sia la riforma elettorale.
Per ciò che riguarda la legge elettorale l’esigenza della riforma è duplice: essa deriva non solo dalla necessità di fare in qualche modo eleggere i parlamentari dai cittadini, ma anche per il fatto che un certo tipo di bipolarismo è finito e va sostituito non con un impossibile consociativismo, ma con un bipolarismo di segno nuovo, auspicabilmente più civile. Questo bipolarismo può essere fondato in primo luogo sulla dialettica fra i maggiori partiti per la quale, a nostro avviso, è adeguato, salvo ulteriori approfondimenti, il progetto fondato su un intreccio fra sistema tedesco e sistema spagnolo sul quale si è lavorato. Infatti non è affatto vero, che il bipolarismo si esprime solo e soltanto attraverso l’attuale legge, mentre qualsiasi altra legge elettorale segnerebbe la sua fine. Infatti, in ogni caso, il Pdl e il Pd sono e saranno alternativi anche se il sistema di alleanze dell’uno e dell’ altro oggi sono in crisi.

Dedichiamo un’ultima considerazione a due personalità che consideriamo entrambe di alto livello e potenzialmente «amiche », cioè a Pier Ferdinando Casini e a Roberto Maroni. Le differenze all’interno stesso del Pd, e fra questo e l’Idv e la Sel sono enormi, ma non pesano sulla campagna per le amministrative e possono anche essere superate di qui alle Politiche.
Invece le differenze fra il Pdl, l’Udc, la Lega finora stanno svolgendo un ruolo negativo per le amministrative. Ora Casini e Maroni possono essere abilissimi sul piano tattico, ma possono anche rischiare di commettere un gravissimo errore strategico: per un eccesso di schermaglie tattiche specie nei confronti del Pdl alla fine possono finire di consegnare il governo del Paese alla sinistra. Allora tutte le forze moderate e riformiste di centrodestra, Pdl in testa, devono fare i conti anche con gli errori commessi, ma fra l’autocritica e il suicidio c’è una notevole differenza.


Siluro con il loden su Bersani
di Mario Sechi
(da “Il Tempo”, 27 marzo 2012)

Ora il piano per liquidare Monti è scoperto. Quel che abbiamo anticipato ieri, per una concatenazione di eventi, s’è rivelato in tutta la sua concretezza. Mario Monti e il Pd sono ai ferri corti. Il premier non vuol farsi fare la festa dai democratici. E l’infelice definizione di Repubblica, «editto di Seul », la dice lunga su come sia stata presa a sinistra la sortita di Monti sui «dopo-lavoristi » del Pd, quelli che la riforma del lavoro, meglio dopo e come diciamo noi. Eppure bastava leggere le cose che da giorni s’accumulavano dalle parti del Pd contro Monti per capire che prima o poi il Prof avrebbe reagito per legittima difesa. Monti non aveva gradito il tono di Bersani, gli avvertimenti e la minaccia diretta. Chiamato a fare «il lavoro sporco » dai partiti, SuperMario non ci sta a prendere le torte in faccia da se n’è lavato le mani. La doccia coreana per Bersani è arrivata nel pomeriggio, mentre il suo partito era riunito in una direzione la cui sceneggiatura rosibindiana aveva previsto (quasi) tutto, dal «libro Cuore » di Veltroni e D’Alema, alla citazione fumettara di «Willy il Coyote » di Max, fino all’unanimità sulla relazione del segretario. Roba che non si vedeva dai tempi della falce e il martello. «Se il Paese non è pronto, potremmo andarcene. Non sono come Andreotti, non tiro a campare ». Swoooossh…. parte un missile terra aria con il fregio del loden verde sulla testata. Velocità di crociera massima, tempo di arrivo qualche minuto, target: Bersani Pierluigi, segretario del Pd. Colpito. Ma non affondato. Stavolta la corazzata Potemkin democratica non fa macchina indietro. In casa del Pd hanno letto il dispaccio, si sono guardati in faccia e chiesti: e ora che si fa? Qualche settimana fa Bersani avrebbe abbozzato, bofonchiato qualcosa in «crozzese » e incassato il colpo. Ma è passato un secolo e la partita è cambiata. Monti non è un compagno, tantomeno di viaggio. Il Pd ha cambiato schema di gioco, ha aperto una campagna napoleonica che prevede la presa di Palazzo Chigi, l’occupazione del Quirinale (prenotato dall’imperatore in esilio, Romano Prodi) e la costruzione del «doppio forno » democratico (sinistra-centro) per i decenni che verranno. Quel che è accaduto ieri è un’accelerazione improvvisa che Monti, stretto all’angolo, ha meditato con la sua solita calma, ma poi ha fatto balenare nell’aria come una sciabolata. D’altronde, la sua Giovanna D’Arco al titanio, Elsa Fornero, l’aveva detto di non aver intenzione di rimetterci il macinato fresco: «Non ci faremo fare la riforma a polpette ».

E dunque il piano per liquidare Monti va avanti. Se non ora, quando? Slogan democratico e antiberlusconiano, come si conviene a una forza che sente la vittoria in tasca. Ieri abbiamo seguito le impronte digitali lasciate in giro con imperizia da Bersani, oggi restiamo sulla «crime-scene » dei compagni, perché da almeno 48 ore in casa Pd c’è un pirotecnico Massimo D’Alema che va letto, interpretato, delibato come un vino da grandi eventi. Max è un genio del comando, fa niente se ogni tanto le sue imprese finiscono nel guiness dei fiaschi militari. Lui sa come si fa a galvanizzare le truppe e condurle alla vittoria. Giuliano Ferrara, uno con il cervello fino, ha visto benissimo il piatto in cottura e l’ha scodellato così: «Rischiamo di ritrovarci un governo laburista con Vendola ministro ». «Yessir, ring the bell », sissignore, suoni il campanello e si accomodi: stiamo entrando nella fase creativa del primo governo italiano di sinistra-centro, con la sottile differenza che i democrats non sono neppure i lontanni epigoni di Tony Blair. In attesa che il centrodestra si svegli – e Pier Ferdinando Casini faccia qualcosa di centrista – le grandi manovre sono in corso. La vasta operazione militare è guidata con solito rumore di trombe e tamburi dal generale delle armi e delle munizioni, Massimo D’Alema. Bersani si presenta in manica e camica, sorseggia una birretta e legge, ma D’Alema è quello in divisa grigia che inforca gli occhialini e scrive i piani, ha le carte topografiche, sposta brigate, cannoni, mette in campo la cavalleria corazzata, la fa ripiegare, emette bollettini veri e falsi, lancia ultimatum e soprattutto penultimatum. Una furia creativa che ha un solo obiettivo: «Dopo Monti, tocca a noi andare a Palazzo Chigi ». Dalemate? Può darsi, ma è determinato come non mai. Purissimo fuoco d’artiglieria salentino. Quattro colpi su tutti. Uno: «Chi ci ha teso un agguato ha fatto la fine di Willy il Coyote ». Chi? Non ha importanza, ciò che conta è evocare il Nemico. Due: «Non possiamo arrenderci all’idea che le riforme non si faranno, non dobbiamo metterci il bastone tra le ruote da noi ». Ergo, seguitemi e poche storie. Tre: «Noi siamo stati la forza del rigore, abbiamo avuto ministri dell’Economia come Ciampi e Padoa Schioppa. Per competenza e rigore siamo maestri, non allievi ». Caro Monti, non ci impressioni, veniamo prima, durante e dopo i tecnici. Quattro: «Sosteniamo il governo Monti e prepariamo una prospettiva politica convincente, una svolta in senso progressi sta rispetto alle politiche conservatrici e neoliberiste ». Stiamo arrivando, siamo cazzuti e non faremo prigionieri. Non bisogna aver trascorso tutta la vita nel Palazzo per capire che D’Alema ha fiutato la vittoria elettorale. E ha anche fiutato che in queste condizioni l’unica incertezza è proprio il fattore tempo, mai rischiare il logoramento di una situazione che ora è ideale. L’emergenza economica nella percezione dei due grandi partiti – anche il Pdl la pensa sotto sotto così, ma ora ha la Santa Barbara con le polveri bagnate – è finita da un pezzo. Lo spread altalena, ma il mercato del debito appare sotto controllo e tutto il resto non si farà. Non a caso ieri Maurizio Sacconi lanciava un aut aut: «Sulla riforma del lavoro si confrontino i partiti con il governo, o sarà il Vietnam ».

Mentre Angelino Alfano dava il tocco di frusta finale: «O si fa una vera riforma, o non si fa niente ». Come dire, lo sappiamo che qui finisce tutto nelle sabbie mobili di Montecitorio e Palazzo Madama. Il Pd dunque è nelle condizioni migliori per lanciare il takeover sui Palazzi del potere. Ha i voti – l’alleanza Bersani-Vendola-Di Pietro ha oltre il 40% dei consensi – ha gli avversari impreparati e un «terzopolino » che non ha la massa critica per essere una preoccupazione, al limite può essere una stampella per il domani. Pier Ferdinando Casini ieri ha realizzato d’un tratto che sembianze ha il pericolo e cominciato a cercare una soluzione. Non è facile. Alla fine i numeri sono numeri. Ha mandato avanti Rocco Buttiglione in versione apocalittica: «Dopo Monti ci sarà il baratro », ammonito «l’idea che la crisi sia finita » e minacciato il suo piano se si vota con questa legge elettorale: «Mi metterò al centro e lavorerò per una soluzione di larghe intese, come ora ». È un’idea, ma non impedisce il piano per liquidare Monti. Ora o dopo, D’Alema così lo realizza senza colpo ferire. E neppure un sibillino Gianfranco Rotondi che manda avanti un governo Amato post-balneare per chiudere la legislatura in caso di «caduta Monti » può preoccupare più di tanto. L’unico vero ostacolo che può incontrare la sinistra è interno, derivante più dalle dinamiche delle correnti del Partito democratico che da un cartello di partiti che gli si oppone con un’idea e un progetto politico degni di tal nome. Ecco l’imprevisto nella sceneggiatura della direzione del Pd di ieri: lo scazzo sulla riforma elettorale, la lite in diretta. Rosy Bindi che dice a D’Alema che la bozza Violante può andare nel tritadocumenti, Arturo Parisi che suggerisce di azzerare tutto, D’Alema che mette il paletto e non ci sta a farsi mandare all’aria una legge che spera di portare a casa, Letta che si dissocia da Franceschini che sferra l’attacco preventivo al Pdl prima ancora di mettersi al tavolo della riforma e vedere se si chiude. È sulla carne viva della sopravvivenza, le regole, dove e come si vota, chi e come si selezionano i candidati, i seggi e le poltrone, che il Pd appare il Far West che sappiamo. Tutti gringos. Ma come insegna la politica, quando tira aria di vittoria, quando sembra di avere il vento in poppa, alla fine si appianano anche gli screzi, si trova un accordo, si riversano le energie su altri obiettivi e capri espiatori. Il Partito democratico ne ha uno interno enorme che ha già con un po’ di imprudenza anticipato che non sarà più della partita politica, Giorgio Napolitano. Ai compagni non è sembrato vero: «Ha detto che non si ricandida… » commentavano domenica scorsa. Temo abbiano fatto i conti senza l’oste e il fattore. L’oste Napolitano si rivelerà un osso durissimo nei prossimi giorni. E il fattore Monti ha appena iniziato a tirare con lo schioppo. Archiviarli non sarà facile. Il primo è quello che le Camere le scioglie con il suo pugno, il secondo ha in mano il debito pubblico che si avvicina alla quota monstre di duemila miliardi di euro. Si può anche liquidare Mario Monti, ma quella montagna di debiti sulle spalle degli italiani resta.


 A ottobre si vota
di Maurizio Belpietro
(da “Libero”, 27 marzo 2012)

Non so se sia stata l’inesperienza o la presunzione: a occhio, direi entrambe. Sta di fatto che Mario Monti ha commes ­so un errore imperdonabile, che ora ri ­schia di costargli il posto. Lo sbaglio sta nell’aver sottovalutato quelle vecchie lenze dei partiti, gente abituata a tutto pur di rimanere incollata alla poltrona e che certo non si rassegna a vedersi sor ­passata da un professorino, per quanto celebrato da ogni organo di stampa. Il bocconiano credeva che bastasse la crisi economica e la protezione di Napolitano per rendere i politici inoffensivi e ga ­rantirsi un futuro, per sé e il suo go ­verno. Ma appena lo spread si è ab ­bassato, le vecchie cariatidi hanno rialzato la testa. E adesso il presi ­dente del Consiglio rischia grosso, anche di dover fare le valigie e di mandarci a votare a ottobre.

La buccia di banana su cui potrebbe scivolare è la rifor ­ma del mercato del lavoro, una legge che, così come è stata cucinata, è poco più di un brodino caldo, insuffi ­ciente a curare la malattia di cui soffre questo Paese, ovve ­ro la disoccupazione. Ma no ­nostante lasci le cose come stanno, salvo attribuire ancor più potere ai giudici in materia di licenziamenti, partiti e sindacati l’hanno presa a pre ­testo per rimettere in riga il premier e fargli abbassare un po’ la cresta. Ha cominciato Susanna Camusso, una che ride dinanzi alle freddure di Super Mario, ma poi quando c’è da azzannare non molla. Nata socialista ma convertita per esigenze di segreteria alla corrente massimalista, la ca ­po tosta della Cgil, appena è stato annunciato l’intervento sull’articolo18, haschierato le sue truppe, minacciando scioperi e manifestazioni. Nessuno si sarebbe aspettato una simile reazione. Non i leader delle altre confedera ­zioni, i quali erano pronti a sottoscrivere l’accordo con il governo, e nemmeno il se ­gretario del Pd. Pier Luigi Bersani all’inizio era convinto che Camusso avrebbe fatto un po’ di sceneggiata sinda ­cale, ma alla fine avrebbe chi ­nato la testa.

Le cose sono andate invece come si sa e quando i centra ­lini del Pd hanno iniziato ad essere tempestati di proteste, i vertici del Partito democra ­tico si sono svegliati. All’ini ­zio, probabilmente, nessuno di loro ci aveva pensato: am ­mansiti dalla moral suasion del capo dello Stato, il segretario e i suoi compagni nep ­pure consideravano l’idea di rispedire il presidente del Consiglio là da dov’era venu ­to, cioè all’università. Ma poi, mentre montava il malumo ­re, ecco spuntare un pensie ­rino maligno. In fondo, la cri ­si finanziaria è alle spalle. Lo spread è sceso e la gran parte dei titoli di Stato piazzata. Dunque, si può cominciare a pensare di barattare i licen ­ziamenti facili con il licenzia ­mento di Monti.

Il calcio di benservito e le conseguenti elezioni in au ­tunno presenterebbero, al ­meno per la sinistra, nume ­rosi vantaggi. Tanto per co ­minciare: ritornare al timone di comando. Da quando il professore è arrivato, i com ­pagni di Bersani sono stati costretti da Napolitano a in ­goiare ogni genere di rospo, a partire dalla riforma previ ­denziale, rinunciando a in ­cassare il dividendo di anni di guida berlusconiana. Anzi: da quando a Palazzo Chigi si è installato l’ex rettore, i vertici del Pd vedono allontanarsi ogni giorno di più la possibi ­lità di raggiungerlo, con il ri ­schio di arrivare esausti alla meta e con gli elettori di cen ­trosinistra in rivolta. In effetti, il bacino di votanti del Partito democratico di motivi per mugugnare ne hanno più d’uno. Prima l’allungamento dell’età pensionabile a 67 an ­ni, poi la sventagliata di tasse che non ha risparmiato i ceti più modesti e che in questi giorni fa sentire i suoi effetti, infine la norma sui licenzia ­menti. Finora i militanti han ­no retto, ma se la modifica dell’articolo 18 passa con i suoi voti, il Pd rischia l’esodo. Rompere con il premier, oltre a evitare il crollo di consensi, consentirebbe di cavalcare lo scontento, con quel che ne consegue.

Che il clima sia cambiato se ne deve essere accorto lo stesso Monti, il quale ieri ha alzato la voce facendo balenare l’idea di di ­missioni anticipate, assicurando di non avere inten ­zione di fare l’Andreotti, cioè di tirare a cam ­pare. I pugni sul tavolo del premier però ormai non spa ­ventano molto. Non i mercati finanziari, che hanno chiuso invariati. Non i peones del Parlamento, che da quando hanno superato la data per ottenere la pensione sono meno preoccupati.

Insomma, il premier è a un bivio: o tira diritto con la ri ­forma, mettendo in conto il rischio di fare le valigie, o fa un passo indietro e si arrende a Pd e sindacati. Certo, con il senno di poi l’articolo 18 era meglio farlo subito insieme con la riforma delle pensioni, quando cioè il timore di un crac spaventava tutti e i par ­titi non erano in grado di bat ­tere ciglio. Purtroppo, con il senno di poi non si fa la sto ­ria. A dire il vero, neanche l’inesperienza e la presunzio ­ne fanno la storia. Anzi: qual ­che volta fanno danni.


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Bart