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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Il dramma di un film già visto

10 Dicembre 2012

di Luca Ricolfi
(da “La Stampa”, 10 dicembre 2012)

Fine del governo Monti, «perché la situazione è peggiore che un anno fa »: con queste parole Angelino Alfano, in Parlamento, ha dato il benservito al governo dei tecnici. A questo punto ci sono almeno tre domande, ed è bene rispondere in modo chiaro a tutte e tre.

Prima domanda: la situazione è davvero peggiore che 13 mesi fa, quando Berlusconi fu costretto a lasciare?

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?

Terza domanda: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo?

Sì-no-sì sono le mie tre risposte, e provo a spiegare perché.

Cominciamo dalla prima domanda: davvero sotto il governo Monti la situazione è peggiorata? Se guardiamo solo alla condizione economica obiettiva delle famiglie – posti di lavoro, redditi, patrimoni, risparmi, consumi – la risposta è sì. Nel giro di un anno le famiglie in difficoltà, quelle che non arrivano alla fine del mese, sono quasi raddoppiate: erano il 16% nel novembre del 2011, oggi sono il 30%, un livello drammatico, mai toccato in passato.

Seconda domanda: la situazione sarebbe oggi migliore se al posto di Monti fosse rimasto Berlusconi?
Lo escluderei. Direi anzi che qui sta la fallacia logica della campagna elettorale che il centro-destra sta preparando: il fatto che ieri si stesse meno peggio non implica che oggi staremmo meglio se al governo fosse rimasto «lui ». Provo a spiegarlo con un apologo, che farà arrabbiare qualcuno ma che secondo me è aderente alla storia degli ultimi 18 mesi.

C’era una diligenza, i passeggeri avevano fame ma avevano ancora a bordo panini e coca cola. A un certo punto il conducente comincia a giochicchiare con il telefonino, la diligenza va fuori strada ma lui continua a giochicchiare. La diligenza sta per precipitare in un burrone. Allora un passeggero disarciona il conducente e prova a riportare la diligenza sulla strada. Però il viaggio è lungo, la diligenza ha subito dei danni, e non ci sono ostelli in cui fermarsi. Passa un po’ di tempo e i passeggeri cominciano ad avvertire i morsi della fame. Rievocano i bei tempi in cui avevano ancora una scorta di panini. Qualcuno rimpiange il vecchio conducente, perché «la situazione adesso è molto peggiore di una volta ». A voi che cosa sembra? Richiamereste in sevizio il vecchio conducente perché i vostri panini stanno finendo?

Fuor di metafora. Quando, 13 mesi fa, Mario Monti fu chiamato a prendere il posto di Silvio Berlusconi, la diligenza dell’Italia stava per precipitare nel burrone del default, e le famiglie – pur stando un po’ meglio di oggi – stavano però correndo il rischio di perdere tutto: posti di lavoro, redditi, risparmi, patrimoni. Oggi, con la discesa dello spread, quel rischio si è allontanato di un po’: non del tutto e non per sempre, ma abbastanza da non farci vivere nell’angoscia. Insomma: oggi abbiamo un po’ meno panini, ma almeno non siamo finiti come la Grecia.

Resta la domanda più spinosa: se Monti avesse governato in modo diverso, oggi staremmo meglio di come stiamo? Potremmo non essere caduti nel burrone, e al tempo stesso avere qualche panino in più di quelli che abbiamo oggi?

Ebbene, qui la mia risposta è un sì convinto. Monti ha fatto molto di meno di quello che ci si sarebbe aspettati da un presunto liberale come lui. Monti ha ritenuto che il problema numero uno dell’Italia fosse ridurre il deficit dei conti dello Stato e che l’unico mezzo per farlo fosse aumentare le tasse. Ha provato a liberalizzare, ma si è fermato quasi subito e su quasi tutta la linea. Ha molto parlato di ogni genere di riforme, ma di riforme incisive e riuscite ne abbiamo viste ben poche. Se avesse osato di più, tagliando di più costi della politica e sprechi, e risparmiando i produttori di ricchezza, oggi ci sarebbero (leggermente) meno famiglie in difficoltà e (decisamente) più speranze per il futuro.

Qui però bisognerebbe rispondere a una quarta domanda, forse la più importante: chi o che cosa ha ingessato Monti?

Alcuni pensano che l’uomo non sia un concentrato di eroismo, e che le sue ambizioni politiche (presidenza della Repubblica?) lo abbiano reso più timido del necessario nel rapporto con i partiti. Altri pensano che Monti sia subalterno alla Merkel e all’Europa, e si sia preoccupato solo di restituire all’Italia il rispetto degli altri governi (cosa che gli è riuscita alla perfezione, e solo chi non vuol vedere non vede). Altri pensano che Monti sia stato pesantemente condizionato dalla sua maggioranza, e abbia fatto il massimo che i partiti gli permettevano di fare.

Per quanto mi riguarda, penso una cosa molto semplice: Monti ha fatto alcuni errori, ma sia il centro-destra sia il centro-sinistra ne avrebbero fatti – e ne faranno – di più e di più gravi. Il dramma che il ritorno di Berlusconi ci riserva è che ci inchioda tutti, per diversi anni, a rivedere un film già visto: il leader del centro-destra che pensa agli affari suoi, e la sinistra che, a modo suo e suo malgrado, finisce per fare la stessa cosa. Berlusconi, riportando 100 o 200 fedelissimi in Parlamento, penserà a difendere le sue aziende dal fallimento e se stesso dal carcere. Bersani, portando in Parlamento un drappello di 300 o 400 uomini e donne a lui più o meno fedeli, sarà costretto ad occuparsi a tempo pieno degli affari interni del centro-sinistra: come tener buona la Cgil, come agganciare Casini, come non farlo litigare con Vendola, come dare a tutte le sigle che confluiranno nel carrozzone del centro sinistra onori, posti, poltrone e strapuntini. Affari economico-giudiziari da una parte, affari politico-parlamentari dall’altra.

Di governare no, non ci sarà il tempo, l’energia e la possibilità per nessuno, chiunque vinca. Quel che ci aspetta è l’ennesima proiezione dell’eterno immarcescibile lungometraggio della seconda Repubblica, che da vent’anni va in scena in tutte le sale con il medesimo titolo: «L’arte del non governo ». Perché tutti sono bravi a criticare Monti, ma nessuno lo fa dicendo che – al posto di Monti – avrebbe fatto scelte più coraggiose. Sia la destra sia la sinistra, se fossero state al posto di Monti, avrebbero fatto meno, non più di lui. La destra ci avrebbe regalato un po’ meno tasse e più deficit pubblico. La sinistra ancora più tasse e più spesa.

In questo destra e sinistra sono molto simili, figlie entrambe del conservatorismo italiano, che ama la demagogia e teme le riforme radicali. Anche per questo la sinistra ha respinto con orrore la sfida di Renzi, anche per questo la destra non solo non è stata capace di sostituire Berlusconi, ma ne ha accolto con entusiasmo il ritorno. Come se il suo fosse il «ritorno di Ringo » (ricordate quel bellissimo western, con Giuliano Gemma?), o il ritorno di Ulisse a Itaca dopo vent’anni. Come se lui fosse stato via per tutto questo tempo, e nulla avesse a che fare con le rovine che trova. Come se l’uomo che, nell’ultimo decennio, ha guidato l’Italia per 8 anni su 10, non avesse alcuna responsabilità nel disastro che il governo Monti ha ereditato e provato a gestire in questi 13 lunghi mesi.

Ecco perché io stesso, che del governo Monti ho criticato non poche parole, opere, e soprattutto omissioni, non posso che rendergli l’onore delle armi. Non so se Monti ha salvato l’Italia, ma sono piuttosto sicuro che – senza di lui – oggi saremmo messi ancora peggio di come siamo.


Un Paese che rifiuta la realtà
di Bill Emmott
(da “La Stampa”, 10 dicembre 2012)

Se una decina d’anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pensato, scritto e fatto un film non su Giappone, Cina o qualcuno dei miei vecchi temi di interesse, ma sull’Italia, mi sarei chiesto se il mio interlocutore avesse fumato sostanze illegali.
Ma per come la vedo ora, e per come ritengo che le imminenti elezioni politiche in Italia saranno cruciali, e il modo in cui ho trascorso i miei ultimi anni non mi sorprende per nulla.

Il motivo non sono solo quelle due famigerate parole, Silvio e Berlusconi. Il fatto è che l’Italia è centrale in una serie di fenomeni che da tempo mi preoccupano per il futuro dell’Occidente.
Mi appassionai per la prima volta all’Italia a causa di Silvio Berlusconi. Sì, è così. Noi dell’Economist lo dichiarammo inadatto a governare l’Italia » sulla nostra copertina dell’aprile 2001, per ragioni di principio; niente a che vedere con gli scandali sessuali per i quali più tardi divenne famoso in Gran Bretagna e in America. I princìpi in questione riguardavano il giusto rapporto che ci deve essere in una democrazia tra il potere privato, capitalistico, e il governo – devono restare il più possibile separati, così come un arbitro di calcio deve restare indipendente dalle squadre – e l’importanza dello stato di diritto.

Non eravamo «per la sinistra » e di certo non eravamo «comunisti », come diceva Berlusconi, anche se io assomiglio a Lenin. Non eravamo nemmeno «contro la destra ». Eravamo contro la conquista dei poteri di governo in una democrazia occidentale da parte di un singolo, enorme interesse privato; ed eravamo contro l’erosione dello stato di diritto che quell’interesse provocava. Come dice Umberto Eco nel mio film, anche in altri Paesi ci sono tycoon, e potenti lobby e concentrazioni di media perciò quel che accadeva in Italia era e resta un pericolo per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e molti altri Paesi.

Da quella copertina dell’Economist cominciò il mio viaggio in Italia. Un viaggio allietato da due denunce per diffamazione da parte di Berlusconi (entrambe le cause sono state vinte dall’Economist), e diventato più intenso man mano che approfondivo la mia conoscenza dei problemi dell’Italia in tutte le loro forme: economiche, politiche e morali. Nel corso del viaggio ho scritto un libro per i lettori italiani – «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi » – che ho poi arricchito e rivisto per il lettori inglesi con il titolo «Good Italy, Bad Italy » mentre stavo preparando il «Girlfriend in a Coma ».

E’ stato un viaggio affascinante, spesso divertente, ma ha avuto su di me due conseguenze: mi ha reso più pessimista, e ancora più preoccupato per le malattie dell’Occidente.
Sono diventato più pessimista perché mi sono reso conto della forte resistenza al cambiamento e alle riforme in Italia, da parte di gruppi di interesse di tutti i tipi. E’ stata questa resistenza il maggior problema del Presidente Monti durante l’ultimo anno. Monti pensa che se fosse riuscito a persuadere questi gruppi di interesse – sindacati, grandi aziende, ordini professionali o pensionati -, che ciascuno doveva fare qualche concessione e rinunciare a qualche privilegio per il bene comune, questo sarebbe accaduto. Un po’ come avviene durante i negoziati per il disarmo, quando i Paesi accettano di rinunciare ai loro carri armati e missili. Ma, almeno per ora, non ha funzionato. Non è successo perché Monti dipendeva dal sostegno parlamentare di partiti che rifiutavano il cambiamento per assecondare il nocciolo duro dei loro elettori, o anche solo per farsi dispetto a vicenda. Non ha funzionato anche perché tutti sapevano che il governo di Monti era provvisorio: bastava aspettare e «far passare la nottata », come si suol dire. Perfino gli enti locali hanno usato questa tattica, rinviando l’applicazione di nuove leggi visto che sapevano che il voto era imminente.

Questo mi ha reso pessimista per una seconda ragione. Per anni, fino a che la crisi del mercato dei titoli di Stato del 2011 ha costretto l’élite italiana a riconoscere i veri malanni economici del Paese, avevo notato una forte e diffusa tendenza a rifiutare la realtà, a ricorrere a dati falsi o datati per rassicurarsi che il Paese fosse in realtà più forte che debole: un alto tasso di risparmio privato (in realtà dimezzato), famiglie ricche (ma provate a vendere le case che sostengono questa «ricchezza »), un forte settore manifatturiero (che produce solo un settimo del Pil e diventa sempre meno competitivo), l’innata creatività italiana (mentre la meritocrazia è stata distrutta e i neolaureati più creativi emigrano a Berlino, Londra e New York).

Lo choc della crisi del debito sembrava aver cambiato questa percezione. Ma lo ha fatto davvero? Se i gruppi di interesse continuano a bloccare con tanta determinazione le riforme, probabilmente ritengono che in fondo il cambiamento non è necessario. Nei miei momenti di ottimismo mi dico che stanno solo guadagnando tempo, sperando di essere più forti rispetto ad altri gruppi di interesse dopo le elezioni del 2013. Ma può darsi che sperino semplicemente in qualcosa di magico che accada nel frattempo ed eviti la necessità di cambiare: una cura miracolosa proposta da Mario Draghi alla Bce; l’improvvisa disponibilità della Germania a pagare i debiti dei Paesi dell’Europa del Sud, o qualcos’altro. La verità continua a venire evitata.

Queste tendenze – quella dei gruppi di interesse a difendere i loro titoli e privilegi e quella delle élite che cercano di non affrontare la realtà – non sono un’esclusiva italiana. Problemi di questo genere esistono anche nel resto del mondo. Anche l’America che aspetta di vedere come il Congresso risolverà il problema del «fiscal cliff » che minaccia la sua economia dopo il 1 gennaio 2013, vede le lobby difendere i loro privilegi e le élite negare la realtà. La differenza con l’Italia è che qui questo processo è andato avanti a lungo, una ventina d’anni, mentre le altre forze economiche e sociali andavano degenerando. L’America e la Gran Bretagna sono solo all’inizio di questo processo, e continuo a sperare che riusciranno ad evitarlo. L’Italia invece, come dice il titolo del mio film, è finita in coma.

Si risveglierà? La decisione di Berlusconi di presentarsi alle elezioni sfidando l’austerità di Monti fa credere che il rifiuto della realtà resti forte, almeno nella destra. Le elezioni saranno un test cruciale, forse addirittura storico. Saranno la prova di quanto i partiti e le lobby che li appoggiano hanno veramente compreso la natura dei problemi italiani e capito che continuare le vecchie politiche non è una soluzione. Sarà la prova per comprendere se la domanda di nuove idee da parte degli elettori, di nuova responsabilità e anche di facce nuove verrà soddisfatta. E, per quel che riguarda l’Occidente, sarà un test per mostrare se la nostra fiducia nella capacità delle democrazie di correggere gli errori ha un fondamento. Il Presidente Monti ha ragione a dimettersi e anticipare questo esame. È un test che non può e non deve essere più rimandato.


Monti in trappola: non ha i voti per farsi eleggere e anche il Colle boccia la sua candidatura
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 10 dicembre 2012)

Insensato il fiume d’indignazione che inonda i giornali per le dimissioni di Mario Monti propiziate dal Pdl. La legislatura ormai era conclusa: settimana più, settimana meno, non cambia nulla. Vorrà dire che le elezioni, anziché il 10 marzo 2013, si svolgeranno in febbraio. Non è una tragedia. Tanto più che le leggi di stabilità e di bilancio passeranno regolarmente. Quindi, dov’è il problema?
Se i mercati faranno le bizze, sarà solo perché è venuto meno il loro garante, l’uomo del quale si fidano, colui che ha salvato il sistema (che ha nelle banche il proprio braccio armato) a scapito del Paese, dei ceti medi e di quelli bassi, impoveriti dalle tasse più salate del mondo e dalla disoccupazione crescente. Ciò detto, è utile ricordare che la grana dello spread è stata sciolta da Mario Draghi, non dal nostro governo.
I tecnici, transeunti per definizione, si sono limitati a usare il randello fiscale. Pensioni a parte, non hanno sfornato una sola riforma sostanziale: quella del lavoro è un pasticcio, nessuna liberalizzazione, nessun provvedimento in favore dell’agognata (e illusoria) ripresa, zero tagli alla spesa pubblica, nonostante le roboanti promesse di spending review. E allora, peggio per peggio, cos’hanno da temere gli italiani dall’uscita dei professori? Forse il risultato elettorale. Se vincesse Pier Luigi Bersani, sarebbe una sciagura.
Se si esclude la breve parentesi di Massimo D’Alema, succeduto a Romano Prodi grazie al famigerato ribaltino sotto l’egida di Oscar Luigi Scalfaro, sarebbe il primo ex comunista a Palazzo Chigi. Già questo fa venire i brividi. Se si aggiunge che ci andrebbe sostenuto dal Sel di Nichi Vendola e dai centrini scentrati di Pier Ferdinando Casini, e che la sua politica sarebbe fortemente condizionata dalla Cgil, di cui conosciamo l’arretratezza culturale, non c’è da scommettere un centesimo sulla sua lunga permanenza alla presidenza del Consiglio. L’esperienza insegna che maggioranze di sinistra del tipo descritto non durano: Prodi ha provato due volte a gestire simili ammucchiate e ha fallito nel giro di un anno e mezzo, due al massimo, in tempi peraltro assai più tranquilli del presente.
A parità di imbarcazioni, non si capisce perché Bersani possa compiere l’impresa di navigare in acque politiche dove Prodi è naufragato. Il nostro non è un augurio di colare a picco, per carità, è solo un mero calcolo di probabilità. Vi immaginate il segretario del Pd, tirato per la giacchetta a sinistra da Vendola e da Susanna Camusso, e a destra da Casini e da Fini, costretto a decidere se introdurre o no la patrimoniale? Oppure se effettuare un prelievo forzoso, come fece Giuliano Amato all’inizio degli anni Novanta, sui conti correnti di tutti i cittadini con due o dieci soldi depositati in banca?

Con quale faccia Luca Cordero di Montezemolo e i suoi amici darebbero il benestare a rapine del genere? E la gente come reagirebbe? Ve lo figurate Bersani che sburocratizza gli apparati statali, che riordina la sanità e la scuola, che riduce ai minimi termini gli sprechi della casta? Un ex comunista che tradisce lo statalismo dopo averlo ingrassato per lustri non è ancora nato. Il nostro Paese ha bisogno di una robusta terapia liberale. È in grado Bersani di predisporla andando contro le aspettative del proprio elettorato? Un conto è vincere le primarie col trucco, un altro è governare con un occhio al bilancio (e al debito pubblico) e l’altro alla piazza già abbastanza in subbuglio.
Date le premesse, perché stupirsi se Silvio Berlusconi, fiutata l’aria, ha optato per un rientro nell’agone politico? D’accordo, il suo partito è uscito malconcio da un periodo travagliato; ha avuto sbandamenti vertiginosi; molti dirigenti hanno perso la trebisonda; l’esperimento Angelino Alfano non ha avuto l’esito sperato; alcuni hanno meditato di trovare riparo altrove; le primarie, prima annunciate e poi negate, hanno creato sconcerto e imbarazzo. Si è avuta l’impressione che il centrodestra fosse spacciato. Ma gli accadimenti degli ultimi giorni hanno restituito al Pdl l’orgoglio necessario a rimettersi in sesto.
È bastato che il Cavaliere, accantonato ogni tentennamento, si convincesse che tutto sommato la partita fosse ancora aperta, altro che giochi già chiusi. Ignoro quale sia stato l’elemento che lo abbia portato a ricredersi sulle potenzialità del Pdl. È un fatto che nel momento stesso in cui egli ha dichiarato l’intenzione di riappalesarsi, gli scenari sono mutati. All’improvviso i suoi accoliti si sono ricompattati, persuasi che l’uomo abbia l’energia e la volontà per tentare la rimonta: fine delle beghe, delle rivalse, della sfiducia.
Conviene battersi perché i progressisti sono meno solidi di quanto sembrasse, anzi, sono vulnerabili, vecchi, stremati: per dare la scossa al Pdl è sufficiente la constatazione che Bersani è stato due volte ministro dell’Industria senza combinare nulla. Se ce la fa lui a stare in sella, anche i berluscones possono rimontare a cavallo. In fondo, i voti del centrodestra sono ancora lì a disposizione, in riserva. Se Berlusconi è pronto ad affrontare la campagna elettorale con lo stesso vigore del 2006, se si impegna a rinnovare il partito, escludendo i pesi morti e gli impresentabili, a stilare un programma concreto (non libri dei sogni), e a dire con quali risorse è realizzabile, ecco, la competizione elettorale è destinata a riservare sorprese.
L’Italia, da quando è unita e ha ottenuto il suffragio universale, ha sempre avuto due anime; e quella rossa non ha mai prevalso se non per effetto di strane alchimie partitiche. Il centrodestra conserva tutti i propri supporter: si tratta di persuaderli che esso vanta di nuovo una leadership, e il loro consenso non tarderà a ritornare nella sede naturale. Qualcuno, nel Pdl, ha mugugnato perché puntava su un altro capo, più fresco; ma un altro capo non c’è e se ci fosse stato sarebbe emerso.
Merita andare sul sicuro. Se Berlusconi si danna l’anima benché apparentemente parta battuto, ha le chances per rompere le uova a chi si accinga a servirci una cattiva frittata.


Caro Prof, lo ammetta: la crisi è nata in Germania e i tecnici non servivano
di Renato Brunetta
(da “il Giornale”, 10 dicembre 2012)

Gentile presidente Monti,

all’indomani dell’annuncio delle sue dimissioni e in vista della campagna elettorale, penso sia ineludibile dare una spiegazione su cosa sia veramente successo nell’estate 2011 e come e perché l’Italia sia entrata nel «baratro » della speculazione finanziaria.
Finalmente i conti tornano. E dire che bastava leggere con attenzione la semestrale di Deutsche Bank chiusa il 30 giugno 2011, da cui si sarebbero potute trarre preziose informazioni. 1) La vendita, da parte della principale banca tedesca sul mercato secondario, di titoli del debito pubblico greco per 500 milioni di euro e di titoli di Stato italiani per 7 miliardi. Segnale che ha generato panico sui mercati e ha aperto la strada alla crisi. 2) Una «impropria » valutazione del portafoglio derivati. Deutsche Bank non ha considerato le perdite derivanti dalla valutazione al valore di mercato, il famoso mark-to-market, della propria esposizione, di valore nominale pari a 130 miliardi di dollari, in un tipo particolare di titoli derivati, noti agli addetti ai lavori come «Leveraged super senior trades ». Titoli che negli anni della crisi subiscono perdite fino a 12 miliardi di dollari. Colpo di scena: la principale banca tedesca non rispetta le regole che proprio la Germania ha imposto a tutta Europa. E non è un caso che sulla scorretta valutazione dei derivati da parte di Deutsche Bank in Europa tutti tacciono, come abbiamo detto, mentre è in corso un’indagine negli Stati Uniti presso l’autorità che controlla la borsa americana.
Tra febbraio e maggio 2011 in Germania succedono anche altre cose: i rendimenti dei Bund diventano nervosi e in rialzo, arrivando a toccare progressivamente il valore del 3,28% ad aprile 2011, contro, per esempio, il 4,8% sugli omologhi titoli italiani (spread 152 punti). Cosa che non può non impensierire il mondo finanziario privato e pubblico tedesco. I problemi sono nel sistema bancario tedesco, oggettivamente a rischio in ragione degli investimenti in titoli tossici di origine statunitense e in titoli greci. Non dimentichiamo che le banche tedesche reagiscono male agli stress test (li hanno superati tutte senza problemi le banche italiane e francesi, non li hanno superati 5 banche spagnole, 3 greche e una tedesca). L’episodio, sopra riportato, di Deutsche Bank con i «Leveraged super senior trades » ne è la prova. Che qualcuno abbia truccato i conti per superare l’esame europeo? Altro che Grecia!
Ma torniamo al nostro racconto, presidente Monti. Alto rendimento dei Bund, a cui dobbiamo aggiungere il dubbio valore dei titoli tossici e delle perdite sui titoli greci nei portafogli delle banche. Il tutto porta a una forte tensione nel sistema finanziario privato tedesco. A questo punto la rezione è immediata e, con il senno di poi, irresponsabile: le banche tedesche decidono di trasferire la crisi potenziale del loro sistema sui paesi considerati più deboli dell’eurozona. Come? Vendendo e dando indicazioni generalizzate di vendita dei titoli pubblici di questi Stati, soprattutto Grecia e Italia, sul mercato secondario. L’episodio dell’improvviso alleggerimento di portafoglio effettuato da Deutsche Bank a giugno 2011 si spiega solo così.
Le banche tedesche, quindi, hanno spostato la loro crisi sui debiti sovrani dei paesi «cicala », con enormi vantaggi per Angela Merkel. L’obiettivo finale: passare da una probabile crisi finanziaria a una vittoria sul campo della finanza pubblica e della finanza privata, quasi una vittoria da terza guerra mondiale.

E questa può essere la spiegazione della tempesta perfetta. Ecco svelato il grande imbroglio dello spread. Non c’entrano nulla i fondamentali dei paesi presi di mira, non c’entrano nulla i governi, se non per il fatto che si fanno prendere in contropiede e non riescono a reagire, travolti da una crisi tanto inspiegabile quanto feroce.
A questo punto andiamo ad analizzare i fatti. Vediamo come, con riferimento all’Italia, la corsa a rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato cominci a giugno 2011, proprio in concomitanza delle due opache operazioni di Deutsche Bank. Questo spiega, presidente Monti, anche perché il cancelliere tedesco continui a difendere a spada tratta il suo sistema bancario e rifiuti la vigilanza della Banca Centrale Europea, prevista proprio dal progetto dell’unione bancaria che la Germania continua a osteggiare. Unione bancaria, economica, politica e di bilancio sono fondamentali. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ne ribadisce l’importanza in tutti i suoi discorsi.
Perché la Germania ne blocca l’iter? Il disaccordo è solo e soltanto sulla prima delle unioni da implementare: quella bancaria, che il governo tedesco o non vuole, o vuole costruire a sua immagine e somiglianza. Al riguardo, la posizione di Angela Merkel è molto chiara: vigilanza unica affidata alla Bce certamente, ma solo sulle banche di rilevanza sistemica, assolutamente no sugli istituti regionali o sulle casse di risparmio dove si annida la più alta opacità e la più alta compromissorietà tra credito e potere politico locale. E non da subito, ma dopo le elezioni tedesche. Bell’esempio di rigore e trasparenza e, diciamolo, di irresponsabilità, con tutto quello che sta succedendo.
Non finisce qui. La Germania condiziona alla realizzazione dell’unione bancaria anche l’operatività del Meccanismo Europeo di Stabilità. Esso è in stand by, o meglio, non opera per l’obiettivo per il quale è stato pensato, vale a dire acquistare sul mercato primario titoli di Stato dei paesi sotto attacco speculativo. E rimane l’attesa. I vertici europei si susseguono senza, di fatto, risolvere nulla.
Purtroppo l’impasse rischia di durare fino a settembre 2013, data delle elezioni tedesche. Che fare a questo punto? Bisogna riaprire la partita con la Merkel e al più presto. Senza più subire le solite colpevolizzazioni. Perché la teoria dei compiti a casa si è dimostrata sbagliata e recessiva e perché sono state svelate le conseguenze negative che essa ha portato, in termini di economia reale nei paesi sottoposti a cure rigorose oltre il dovuto, e in termini di blocco di trasmissione della politica monetaria,
Basta guardare oltreoceano. Forte, dinamica, indebitata, ma piena di liquidità, l’economia americana cresce e corre, mentre il Vecchio Continente è ingessato in politiche economiche recessive. Il Pil cresce negli Stati Uniti del 2,7%, rispetto a una decrescita del -0,1% dell’Eurozona; il numero di disoccupati e di richieste di sussidi si riduce settimana dopo settimana oltre le attese (disoccupazione al 7,7%, rispetto all’11,7% dell’Eurozona), il mercato immobiliare traina l’economia. E, nonostante le critiche spesso rivolte al presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, l’inflazione è più bassa che nell’eurozona (2,2% rispetto al nostro 2,5%). La forza degli Stati Uniti deriva da una governance pragmatica, determinata, esigente, interventista; da una politica economica efficiente – orientata alla crescita – e da una politica monetaria espansiva.
Su tutta la crisi sarebbe bene che anche la Bce si assumesse la responsabilità di fare chiarezza. Se si fosse fatta un’analisi seria e approfondita degli accadimenti di metà 2011, probabilmente la storia dell’Europa sarebbe stata diversa. E tacere, occultare o non interrogarsi abbastanza su quello che stava succedendo è stato un crimine che gli Stati, i cittadini, le nostre democrazie stanno pagando caro, in termini di distruzione dell’idea di Europa e delle relative derive populiste, che tanto la disgustano, presidente Monti.
Con la stima di sempre, suo Renato Brunetta.


Trattativa e Quirinale, i pm Di Matteo e Teresi lasciano l’Anm: “Non ci ha difesiâ€
di Redazione
(da “il Fatto Quotidiano”, 10 dicembre 2012)

Il presidente e il segretario della Giunta palermitana dell’Associazione nazionale magistrati, il pm Nino Di Matteo e il procuratore aggiunto Vittorio Teresi si sono dimessi dagli incarichi. Dietro alla decisione anche la critica delle posizioni prese dall’Anm nazionale dopo la sentenza della Consulta che ha accolto il ricorso del Quirinale e criticato la Procura di Palermo per la mancata distruzione delle telefonate intercettate tra il capo dello Stato Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.

â€Non riesco più a sentirmi parte di un’associazione che, nei suoi organi rappresentativi a livello nazionale, si è andata sempre più caratterizzando per valutazioni e interventi che sembrano dettati da criteri di ‘opportunità politica‘â€, scrive Di Matteo in una lettera indirizzata alla Giunta nazionale, a quella distrettuale e a tutti i colleghi del distretto di Palermo. Interventi, continua, â€che talvolta finiscono per denotare un pericoloso collateralismo al potere a scapito della doverosa tutela di colleghi impegnati in attività giudiziarie particolarmente complesse e delicateâ€

Quanto all’inchiesta trattativa Stato-Mafia, Di Matteo rimprovera all’Anm il sostanziale silenzio “a fronte degli inauditi attacchi personali†ai titolari dell’inchiesta e alla sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale. “Mi ha colpito, ancora una volta, ma certamente non sorpreso, l’atteggiamento dell’Anm†che, aggiunge, “non ha ritenuto di spendere una sola parola a difesa dell’operato dei magistrati di Palermo, limitandosi a stigmatizzare pesantemente le critiche che il collega Ingroia (peraltro collocato in aspettativa e non più titolare del procedimento) aveva osato muovere alla sentenzaâ€.

Il motivo di tanta ritrosia, secondo il pm antimafia “per l’ennesima volta nelle scelte degli organismi rappresentativi dell’associazione, ragioni di opportunità politica hanno prevalso sul dovere di difendere e di non isolare ulteriormente magistrati che si trovano oggi accusati di avere violato le prerogative della più alta carica dello Stato quando, invece, avevano agito nel pieno rispetto della normativa vigenteâ€.

Durissima la conclusione della missiva: “Anche in questo caso l’Anm non ha saputo fare altro che prendere le distanze da quei magistrati che dovrebbe tutelare e rappresentare. Così contribuendo ad alimentare la volontà dei tanti che vorrebbero in futuro una magistratura sempre più avida e burocratizzata ed attenta, più che a rendere giustizia, a non disturbare l’azione dei potentiâ€.

Anche il collega Teresi chiama in causa l’inchiesta sulla trattativa: “Uno dei motivi che mi hanno convinto – spiega – è la mia nuova posizione di coordinatore del procedimento sulla trattativa. Mi sono state rimproverate prese di posizione pubbliche. E siccome il mio incarico prevede anche i rapporti coi media voglio gestire questa funzione in libertà senza che si creino confusioni o sovrapposizioni di ruoliâ€.

Un’altra ragione, ha aggiunto, è legata alla “crisi di rappresentativitàâ€: “C’è poi un’altra ragione – prosegue – che definirei ‘crisi di rappresentatività’. Il progetto di Area, nato come un’unione elettorale tra Magistratura democratica e i Verdi, sta andando avanti prendendo le caratteristiche di una fusione e io non sono d’accordoâ€.


Letto 1642 volte.


6 Comments

  1. Commento by Felice Muolo — 10 Dicembre 2012 @ 19:04

    Se Brunetti e Feltri l’hanno vista giusta, calma e sangue freddo?  

  2. Commento by Felice Muolo — 10 Dicembre 2012 @ 19:04

    ops: Brunetta.

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 10 Dicembre 2012 @ 19:18

    Ritengo Brunetta uno studioso serio, perciò gli credo. Ciao, Felice.

  4. Commento by rosa grillo — 11 Dicembre 2012 @ 11:40

    Complimenti per l’ampio raggio della rassegna. La “verità” non è nuda, ha per fortuna un corredo variegato che la rende cruda a volte ma sempre preferibile alla menzogna ributtante e imbellettata. Luca Ricolfi e Brunetta perchè no? Ma anche Bill Emmott che dal suo osservatorio stigmatizza i gruppi di interesse bloccati in Italia “a difendere i loro titoli e privilegi e le élite che cercano di non affrontare la realtà”. La cosa che più mi convince del suo articolo è che le prossime elezioni saranno per l’Occidente un test per mostrare “se la nostra fiducia nella capacità delle democrazie di correggere gli errori ha un fondamento”. Me lo auguro con tutto il cuore.

  5. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 11 Dicembre 2012 @ 11:48

    Me lo auguro anch’io.
    Le mie previsioni sono: Bersani presidente del consiglio, Monti al quirinale. Vedremo cosa riusciranno a fare. Grazie.  

  6. Commento by Felice Muolo — 11 Dicembre 2012 @ 18:58

    Prima  Monti passerà sul corpo di D’Alema.

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart