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Un’ambizione troppo timida

23 Maggio 2013

di Ernesto Galli della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 23 maggio 2013)

Serve ancora a qualcosa l’Italia? E a che cosa? Può ancora immaginare in quanto Nazione di avere una vocazione, un destino, suoi propri? E qual è il suo ruolo, se ce n’è uno, in relazione agli altri Paesi del mondo?
Tra i molti nodi che oggi stanno venendo al pettine c’è anche questo. Un nodo creatosi, a ben vedere, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sul cui significato di cesura non metabolizzata si apre, non a caso, con alcune acute osservazioni, il bel libro di Giuliano Amato e di Andrea Graziosi Grandi illusioni (Il Mulino) appena andato in libreria. Fino a quella data le classi dirigenti della Penisola – di estrazione invariabilmente borghese, con qualche rarissima eccezione sia pure assai significativa come nel caso del fascismo con Mussolini e pochi altri – furono tutte convinte che lo Stato nazionale fosse sorto con una «missione ». Quella di riportare l’Italia al centro dello sviluppo storico, di farne in vario modo una «potenza » in grado di rivaleggiare con le altre del continente, di restaurarne l’antico prestigio civile e culturale, di elevare le sue plebi alla dignità di «popolo ». Declinata in senso nazional-liberale prima, e nazional-fascista poi, questa convinzione fece naufragio nella catastrofe del 1943-45. All’indomani, la Repubblica dei partiti si trovò più o meno d’accordo nel fondare la civitas democratica, ma – animata com’era da visioni storiche tra loro diversissime, e sotto il peso del disastro appena passato – non poté porsi la questione della nazione. (Anche se questa, in modo perlopiù tacito, era ancora ben presente e talora visibile negli uomini e nelle idee dei partiti di quella stessa Repubblica).

Ingabbiati nel doppio bipolarismo Est-Ovest e comunisti-democristiani, decidemmo quindi – prima a maggioranza, ma in seguito alla caduta del muro di Berlino praticamente all’unanimità – che il nostro solo destino erano l’Occidente e l’Europa. Che il nostro orizzonte era assorbito per intero da quelle due dimensioni. Che la nostra storia finiva lì. Oggi ci accorgiamo che siamo stati un po’ troppo sbrigativi. Che in un’Europa che è ancora (e chissà ancora per quanto) un’Europa degli Stati, cioè delle sovranità, la nostra sovranità non è meno importante delle altre. Ma che se essa vuole contare qualcosa, se vuole essere forza e sostanza di un vero soggetto politico, deve fondarsi necessariamente su un’idea d’Italia. Cioè sul presupposto che questo Paese abbia un insieme di retaggi, di qualità, di vocazioni e di aspirazioni peculiarmente suoi, e che precisamente queste peculiarità esso sia chiamato in qualche modo a riunire e a esprimere entro la moderna forma dello Stato nazionale.

Immaginare ed elaborare un’idea d’Italia corrispondente ai bisogni dell’ora è oggi il compito storicamente più urgente della politica italiana. Essa deve mostrarsi capace di additare un senso e un cammino complessivi alla nostra presenza sulla scena storica. Solo in tal modo la politica stessa sarà in grado di riscoprire e rinvigorire la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità, sperando così di ritrovare un rapporto con il Paese capace di animarlo e motivarlo di nuovo.
Solo così riusciremo a riprenderci, a ricominciare. Sono ormai anni che le energie della società italiana appaiono paralizzate, i suoi animal spirits bloccati. Che il Paese è immerso in una crisi di sfiducia nelle proprie forze, in una sorta di apatia, di sfibramento psicologico, che minacciano di divenire una cupa rassegnazione. L’economia con ciò ha molto a che fare. È difficile infatti che a qualcuno venga in mente d’investire in un Paese che non sa quello che è, né ciò che vuol essere. È difficile che qualcuno avvii qualcosa d’importante e a lungo termine in un Paese che non ha idea di che cosa esiste a fare, che non guarda al proprio passato come al trampolino per un avvenire. Nella dimensione esclusiva dell’oggi, infatti, al massimo si sopravvive: per esistere con pienezza di vita bisogna, invece, sapere da dove si viene e dove si va. Ma la politica solamente può e deve dirlo. Come essa ha fatto altre volte nel nostro passato, quando si è dimostrata capace di mobilitare risorse, di sollecitare energie, di concepire vasti disegni. E ogni volta, non a caso, ritornando a quel nesso profondo, all’origine della nostra storia unitaria, che lega indissolubilmente lo Stato nazionale italiano a un’idea d’Italia. Senza la quale neppure il primo, alla lunga, riesce ad esistere.


Letta alla Ue: priorità giovani E la Merkel offende ancora l’Italia
di Fabrizio Ravoni
(da “il Giornale”, 23 maggio 2013)

Roma – Debutto fortunato per Enrico Letta al suo primo Consiglio europeo. E non solo perché gli altri 27 capi di Stato e di governo hanno convenuto sul fatto che «l’emergenza numero uno » del Continente è il lavoro per i giovani; che il tema sarà all’ordine del giorno del Consiglio europeo di giugno; e che una settimana dopo, il 3 luglio, l’argomento sarà al centro di un Consiglio dei ministri del Lavoro, in programma a Berlino.

«L’occasione servirà a capire come spendere meglio i soldi », ha sottolineato Angela Merkel. In serata, però, un video getta qualche ombra sul vertice. Letta è insieme con il collega belga Elio Di Rupo e la cancelliera gli passa accanto senza guardarlo per poi andarsene. Il video mostra Letta che scuote la testa e commenta con Di Rupo, che pare rassicurarlo. Lo stesso Letta però in serata minimizza: «Non è successo assolutamente nulla di strano. Semplicemente ci eravamo già salutati trenta secondi prima, quando non c’erano le telecamere ».
A rendere fortunata la «prima » di Enrico Letta allo Justus Lipsius era stata l’agenda del vertice con all’ordine del giorno i temi dell’energia. È stato proprio lo stesso Letta, da ministro dell’Industria, a liberalizzare il mercato dell’energia in Italia. Così, in conferenza stampa, mentre parla della competizione in materia energetica tra Ue e Stati Uniti (gli Usa saranno autosufficienti nei prossimi anni grazie alla scoperta dello «shale gas », il gas estratto dalle argille) e della liberalizzazione del mercato nel 2014, lancia una battuta: abbiamo convenuto che non sono più sufficienti i campioni nazionali, «ma occorre puntare a campioni europei dell’energia, con i piedi in diversi paesi Ue ».

L’Eni è già il primo operatore del gas in Europa. Ma il modello a cui sembra puntare Letta è quello dell’Enel. Quand’era ancora vicesegretario del Pd, diceva: «Quando gli italiani ci daranno l’incarico di governare vogliamo prendere a modello l’Enel. Ovvero, un soggetto italiano che, anche grazie alla liberalizzazione, ha avuto l’esigenza di internazionalizzarsi per diventare un player globale ». Vale la pena di ricordare che, nella stessa occasione, il Letta vicesegretario del Pd sosteneva anche la necessità di un polo tra le reti di Snam e Terna e la fusione delle aziende municipalizzate del Nord.
Ma al vertice di ieri si raccolgono anche i frutti di un defatigante negoziato fiscale che si protrae da anni: l’apertura entro fine anno dei dati fiscali da parte di Austria e Lussemburgo. Con la possibilità di avviare accordi stringenti con Paesi come Svizzera, Andorra, Liechtestein e San Marino. Lo scambio automatico di informazioni riguarderà solo gli interessi sul risparmio. Una sua estensione su altri redditi dipenderà da ulteriori negoziati.
L’argomento fiscale offre al presidente del Consiglio l’occasione per ribadire quanto già sostenuto con le dichiarazioni programmatiche. Vale a dire che «se ci saranno le risorse sarà auspicabile che si eviti l’aumento dell’Iva. È già stato deciso. Dobbiamo discutere delle risorse da reperire tagliando la spesa da altre parti ».
Un’ipotesi allo studio prevede il rinvio dell’aumento da luglio a ottobre. In tal caso, le somme da reperire per il 2013 scenderebbero ad un miliardo. Mentre tutta da definire la copertura per il 2014 e oltre.


Ineleggibilità del Cav e riesumazione del Pds
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 23 maggio 2013)

A Beppe Grillo non importa un bel nulla ottenere l’ineleggibilità di Silvio Berlusconi. Anzi, se fosse per lui il Cavaliere dovrebbe rimanere bene ancorato al suo posto di leader del centro destra e diventare il proprio antagonista in un nuovo schema bipolare in cui figura da un lato il Pdl e dall’altro la sinistra egemonizzata dal Movimento Cinque Stelle. Per Beppe Grillo, infatti, la questione dell’ineleggibilità di Berlusconi è solo uno strumento per spaccare e frantumare il Partito Democratico. Non ci vuole un particolare acume per capirlo. Eppure una buona parte degli esponenti del Pd sembrano essere totalmente inconsapevoli di questa banale considerazione.

Il capo gruppo del Senato Luigi Zanda, il senatore Felice Casson, la senatrice Stefania Pezzopane, rilasciano dichiarazioni a raffica per spiegare che per loro la questione dell’ineleggibilità del Cavaliere è un problema di principio da risolvere con le valutazioni giuridiche e non un problema politico da affrontare e chiarire sulla base del buon senso e delle esigenze politiche presenti e future. Si tratta di una faccenda di incredibile ottusità? O, nel caso di Zanda, come suggerisce ironicamente Berlusconi, di genialità tardiva? Niente affatto. Perché né Zanda, né Casson, né la Pezzopane possono essere considerati degli sprovveduti che non si rendono conto come pretendere di eliminare dalla vita pubblica con una legge ad personam il nemico di sempre sia una iniziativa da paese post-sovietico destinata a provocare la caduta del governo e lo sconquasso delle istituzioni repubblicane. La vicenda, al contrario ed a dispetto del tentativo di ammantarla di principi politici, è solo ed esclusivamente politica.

E non perché possa rientrare nel novero di quelle mine che vengono poste strumentalmente dagli irriducibili avversari delle larghe intese lungo la strada del governo Letta fondato sull’alleanza tra il Pd ed il partito di chi si vorrebbe espellere dal Parlamento (nessuno crede seriamente che l’iniziativa sull’ineleggibilità possa andare avanti fino a provocare la cacciata di Berlusconi dal Senato e la contemporanea esplosione dell’esecutivo di Enrico Letta). Ma perché rientra nel lento e tormentato processo, in atto all’interno della grande galassia della sinistra italiana, della formazione di una nuova formazione politica destinata a nascere da una possibile scissione del Pd e dall’unificazione di tutte le forze più radicali e giacobine dell’universo politico nazionale. In questa luce la vicenda degli Zanda, dei Casson e delle Pezzopane con il pretesto dell’ineleggibilità di Berlusconi va messa al fianco della recente manifestazione della Fiom di Landini a Roma e del referendum contro la scuola paritaria a Bologna promosso congiuntamente da Sel, dal Movimento Cinque Stelle e da pezzi del Pd bolognese. Non importa se lo Zanda neo-giacobino sia lo stesso che vorrebbe mettere fuori gioco i grillini dalle competizioni elettorali.

Il capo gruppo Pd del Senato s’illude in questo modo di costringere gli elettori di Cinque Stelle a finire nel nuovo partito della sinistra dura e pura. Ciò che interessa capire, invece, è che il punto di arrivo di tutto questo fermento interno ed esterno al Pd è la resa dei conti con le componenti riformiste della sinistra ed il ritorno, naturalmente dopo l’espulsione dalla sinistra stessa dei “revisionisti” e degli “inciucisti” delle larghe intese, di un grande partito unitario destinato a riesumare i fasti ed occupare il vecchio spazio politico del Pci. I tempi dell’operazione sono legati a quelli del congresso del Pd. Che non a caso gli amici di Enrico Letta vorrebbe spostare dal prossimo autunno al prossimo anno. Ma lo sbocco rimane comunque lo stesso: riesumare il Pci o, se vogliamo, il Pds. E, magari, mettendogli alla presidenza lo stesso Presidente dell’epoca di Achille Occhetto, cioè Stefano Rodotà!


Diritti Mediaset, il teorema dei giudici per eliminare Berlusconi
di Luca Fazzo
(da “il Giornale”, 23 maggio 2013)

Centonovanta pagine per una condanna bis: la corte d’appello di Milano ha depositato questa mattina le motivazioni della sentenza d’appello che l’8 maggio ha confermato la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere per frode fiscale e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per la vicenda dei diritti tv.

Da questa mattina iniziano a decorrere i trenta giorni che le difese hanno a disposizione per presentare ricorso in Cassazione. Solo questo passaggio separa ormai il Cavaliere da una condanna definitiva che, con la interdizione dai pubblici uffici, lo estrometterebbe dalla vita politica.

Secondo le motivazioni, stilate dal giudice Enrico Scarlini in tempi rapidi per evitare la prescrizione, il sistema di sopraffatturazione dei prezzi dei film era organizzato e gestito dai manager Fininvest nell’interesse e con la piena consapevolezza di Berlusconi. “Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo, ma che erano vicine, tanto da frequentarlo tutti personalmente, al sostanziale proprietario, rimasto certamente tale in tutti quegli anni, l’odierno imputato, Silvio Berlusconi.

Un imputato, un imprenditore, che pertanto avrebbe dovuto essere cosi sprovveduto da non avvedersi del fatto che avrebbe potuto agevolmente ridurre il budget di quello che era il maggior costo per le sue aziende, e che tutti questi personaggi che facevano a lui riferimento lucravano ingenti somme a lui oltre che a Mediaset”.

“L’ipotesi di accusa della assoluta fittizietà del viro dei diritti è certamente confermata quantimeno per i passaggi intragruppo, del tutto sforniti di qualsivoglia ragione economica. Passaggi infragruppo che invece generavano i risultati che si volevano raggiungere: la lievitazione dei costi con la conseguente evasione delle imposte italiane dell’acquirente finale, il gruppo Fininvest/Mediaset, e la costituzione all’estero sia nel comparto riservato, sia nel comparto non riservato, di ingenti disponibilita finanziarie”.

Per motivare la pesantezza della pena inflitta e il rifiuto delle attenuanti, la sentenza afferma che “si tratta di una operazione illecita organizzata e portata a termine costituendo societa e conti esteri a ciò dedicati, un sistema portati avanti per molti anni, proseguito nonostante i ruoli pubblici assunti e condotto in posizioni di assoluto vertice. A fronte di ciò è ben chiara la impossibilità di concedere le attenuanti generiche : la sola incensuratezza dell’imputato, e tanto più l’età anagrafica, sono recessive rispetto a un simile quadro”.


LE MOTIVAZIONI DEL NO AL TRASFERIMENTO DEI DIBATTIMENTI A BRESCIA
di Redazione
(dal “Corriere della Sera”, 23 maggio 2013)

La Cassazione non ha dubbi. L’istanza di trasferire i processi Ruby e Mediaset da Milano a Brescia sembra «ispirata da strumentali esigenze latamente dilatorie », piuttosto che «da reali e profonde ragioni di giustizia ». Lo scrivono i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, spiegando perchè, il 6 maggio scorso, dissero no al trasferimento dei processi a Brescia.

ACCUSE – L’assunto secondo cui esistono «contesti deliberatamente persecutori o complottistici dell’intera autorità giudiziaria milanese », mossa nei riguardi di Berlusconi «da non dissimulati e biasimevoli intenti punitivi di segno politico » è un’«accusa infamante », che «colpisce un presupposto o una precondizione irrinunciabili della professionalità e dell’onorabilità del giudice, quali il dovere di imparzialità e l’indipendenza di giudizio » aggiungono i giudici della Suprema Corte. «L’assunto che la difesa di Berlusconi pone alla base del suo ricorso in Cassazione, – secondo i supremi giudici – per palese assenza di una pur parcellare e seria dimostrazione fattuale e logica, si traduce in una sommaria e ingiusta accusa, vieppiù grave per il ruolo pubblico e politico ricoperto dal richiedente, mossa in sostanza a tutti i magistrati degli uffici giudicanti milanesi, che per avventura e loro malgrado si siano occupati o stiano occupando “ratione officii” delle numerose vicende giudiziarie del senatore Berlusconi ».

VISITA FISCALE – Le visite fiscali inviate dai giudici milanesi a Silvio Berlusconi, al fine di accertare l’impedimento a comparire nei processi Ruby e Mediaset per disturbi alla vista nella prima metà dello scorso marzo, sono state assolutamente legittime sottolinea ancora la Cassazione.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart