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Tutti gli uomini del Monte: ecco la mappa del potere

9 Febbraio 2013

di Paolo Bracalini e Gian Marco Chiocci
(da “il Giornale”, 9 febbraio 2013)

Protagonisti scomodi e imbarazzati, diretti e indiretti, dell’affaire Mps-Antonveneta. Ecco un Bignami sui politici Pd e i «tecnici » di casa nostra.

UN BENE AMATO
L’ex premier Giuliano Amato, Pd, con Siena (dove viene eletto nel ’92) ed Mps c’entra da sempre, e non solo per la nota foto in piazza del Campo che lo ritrae insieme a Giuseppe Mussari e all’ex sindaco Pd Franco Ceccuzzi (che aiuterà alle Comunali del 2011 con altri big del Pd).
Da premier, caldeggia la scalata di Mussari alla Fondazione Mps, una sponsorizzazione di peso visto che la legge istitutiva della fondazioni bancarie porta il nome proprio di Amato (legge Amato-Ciampi del ’99).
A inizio 2012 era a un passo dalla presidenza di Mps. Quando rinunciò iniziavano a filtrare i primi spifferi dell’inchiesta. Dal 2010 è senior advisor per Deutsche Bank Italia.

BASSANINI, SIGNORA E BROKER
Franco Bassanini, Pd, eletto nel collegio senese ininterrottamente dal ’96 al 2006 e pure lui a un passo dalla presidenza Mps, lo danno per molto vicino a Mussari. È l’uomo di punta che si contrappone alla scalata Unipol-Mps per la conquista di Bnl ai tempi dei furbetti del quartierino: «Chi difese l’autonomia di Mps, come me e Amato, venne emarginato » dice sornione. Contro Bassanini – presidente del potente centro studi Astrid – hanno paventato interessi oscuri, link con la finanza francese, presenze armoniose in logge massoniche. Fra i più critici, su vari fronti, Vincenzo Visco, Ugo Sposetti («Come fa a occupare quel posto? Che ne sa uno come lui di depositi e prestiti? » ha infierito il tesoriere) e Paolo Cirino Pomicino. L’interessato ha precisato, smentito, annunciato querele. A Bassanini, e alla moglie Linda Lanzillotta (ministro con Romano Prodi 2006-2008, ex assessore di Francesco Rutelli, ex capo di gabinetto di Amato al Tesoro) per vie molto traverse, seguendo il blog Linkiesta, si arriva a incrociare il vicedirettore generale di Mps, Marco Morelli, «che arriva al Monte attraverso la casella Mps Finance nel settembre 2003 sponsorizzato da Bassanini e da sua moglie Linda Lanzillotta (…) » che «tra il 2001 e il 2006, sarà advisor della banca d’affari americana ».
Morelli (oggi Merrill Lynch Italia) finirà indagato per aver omesso a Bankitalia e Consob dettagli cruciali sul finanziamento da 1 miliardo a Jp Morgan necessario a Mps per l’acquisto di Antonveneta.

BERLINGUER, IL FIGLIO E GLI AMICI PD
Luigi Berlinguer, cugino di Enrico, è uno dei potentissimi del Pd a Siena. Già rettore dell’Università di Siena legata a Mps da cui, nel tempo, ha ricevuto enormi finanziamenti (inutili, visto che l’ateneo ha un buco di 250 milioni), dopo l’esperienza di ministro all’Istruzione vedrà il figlio Aldo ottenere un contratto (anche Linda Giuva, moglie di Massimo D’Alema, vincerà una cattedra di archivista a Siena). Polemiche, interrogazioni, accuse. Nel 2007 Berlinguer jr è «costretto » a lasciare il Cda oggetto delle investigazioni sull’aeroporto di Ampugnano (dov’è indagato Mussari) e più recentemente anche il cda di Banca Antonveneta. E che dire del resto del Pd, a cominciare da Rosy Bindi, originaria della vicina Sinalunga. Lei giura: «Sono personalmente da esempio di come politica e sistema bancario debbano essere nettamente separati. Non ho mai avuto voce nelle scelte della banca ». In effetti i capi della corrente cattolica Pd e il presidente della Fondazione Mps, Gabriello Mancini, non la possono vedere. Si dice però che ci sia il suo zampino nella scelta di Alessandro Profumo che per due volte ha fatto la fila alle primarie del centrosinistra (nel 2007 la moglie Sabina Ratti si candidò con la Bindi per entrare nell’assemblea nazionale Pd). Ospite di Rosy a una festa Pd a Chianciano, Profumo rispose «sì », alla richiesta di mettere a disposizione la sua «competenza » per la politica. O per una banca vicina alla politica vicina alla Bindi. Ovviamente, però, il vero «dominus » è Massimo D’Alema sin dai tempi dell’acquisizione della banca «121 » (con il fido Vincenzo De Bustis) che nello scandalo è riuscito a dire «il Pd non governa nessuna banca » e poi il contrario, «Profumo l’abbiamo messo lì apposta ». E che dire di Walter Veltroni, grandissimo amico di Peppino Mussari («con Walter stiamo al telefono ore a parlare di basket », gongolava l’ex presidente Mps un mese dopo l’acquisizione di Antonveneta)?

I MONTI’S, TARANTOLA E DRAGHI
Mps, il 20 dicembre 2007, scrive: «La banca ha nominato Citigroup, Goldman Sachs e Merrill Lynch quali joint global coordinator dell’operazione di finanziamento dell’acquisizione di Antonveneta ». In quell’anno Goldman Sachs ha come international advisor un certo Mario Monti, il cui figlio 32enne Giovanni Monti è vicepresidente proprio di Citigroup dal 2004 al 2008, prima di passare in un’altra banca d’affari, la Morgan Stanley. Scavando troviamo la montiana Anna Maria Tarantola, oggi presidente Rai, indagata a Trani per roba di derivati Mps, allora in quella «Vigilanza » di Bankitalia che dagli atti ispettivi del maggio-agosto 2010 evidenziò come il rischio, nella banca senese, fosse già ben visibile. Perché non intervenne? La posizione dell’ex governatore Mario Draghi si fa complicata in quanto è evidente che la «sua » Bankitalia – come dimostra la voragine dei conti senesi – non intervenne velocemente su Mussari e sui derivati. Complicata e imbarazzante dopo la rivelazione del Wall Street Journal riguardo al prestito segreto da 2 miliardi versato nel 2011 da Bankitalia a Mps che garantiva il non garantibile, posto che il Monte aveva intrapreso la strada del precipizio a valle dell’inferno.


La Repubblica di Falò
di Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

Il gip Riccardo Ricciardi che ieri ha ordinato la distruzione tombale delle quattro inter ­cettazioni fra Napolitano e Mancino (due volte Mancino chiamò Napolitano, due volte Na ­politano chiamò Mancino) va capito. La sua decisione è una ferita letale ai principi costi ­tuzionali del diritto di difesa (art. 24) e del giusto processo tramite il contraddittorio fra le parti (art. Ili), visto che contestualmente ha dovuto respingere l’istanza dei legali di Ciancimino jr. di poter ascoltare i quattro nastri nell’interesse del loro cliente, imputato per mi ­naccia a corpo dello Stato. E ha dovuto scrivere nero su bianco che, al solo scopo di placare il terrore di Napolitano per “il rischio concreto di divulgazione all’esterno dei contenuti delle conversazioni”, i difensori devono fidarsi di lui, che le ha ascoltate e assicura che non riguar ­dano “interessi afferenti principi costituzionali supremi (tutela della vita e della libertà per ­sonale, salvaguardia dell’integrità costituzio ­nale delle Istituzioni della Repubblica) che pos ­sano essere in qualche modo irrimediabilmen ­te pregiudicati dalla distruzione delle registra ­zioni”. In verità gli avvocati cercavano solo ele ­menti utili per difendere il loro assistito, ma dovranno rassegnarsi: facciano pure ricorso in Cassazione, tanto – se e quando lo vinceranno – i nastri non esisteranno più e al massimo potranno farseli raccontare dal gip. Ma perché va capito, il gip costretto a prendere una de ­cisione così assurda e a spiegarla con argomenti così bizzarri? Perché è vero che la Consulta non gli aveva imposto nulla (il conflitto di attri ­buzione del Quirinale era contro i pm, non contro il gip). Ma se avesse osato conservare quei files e sollevare una questione di inco ­stituzionalità sulle procedure incostituzionali dettate dalla Corte costituzionale, sarebbe fi ­nito nel tritacarne come i pm: attaccato dal Presidente e dai suoi corifei, maciullato dai giornali-corazzieri, insultato dai garantisti a targhe alterne, dipinto come un eversore e chis ­sà cos’altro. Un massacro che non si augura nemmeno a Riina, figurarsi a un giudice one ­sto. Lunedì i files originali conservati nel server della Procura in una saletta dell’Ucciardone e i cd con le copie allegati alla richiesta della Pro ­cura verranno cancellati da un perito infor ­matico. Il bello è che il server è gestito dalla società Rcs, la stessa che a Milano aveva ga ­rantito così bene la segretezza della telefonata Consorte-Fassino che un dipendente la rubò e la passò alla banda B. che la pubblicò sul Gior ­nale. Non resta che sperare che stavolta qual ­cuno non se ne sia fatta una copia, da usare al momento opportuno per ricattare o screditare il Presidente. Ma, anche se così non fosse, re ­sterebbero in vita una decina di persone che conoscono le telefonate, avendole ascoltate, e possono raccontarle a chi pare a loro come pare a loro senza che nessuno possa più smentirli con la versione integrale: pm, gip, cancellieri, personale di segreteria e di polizia giudiziaria, tecnici della società privata. Senza dimenticare Mancino, che non è neppure tenuto al segreto d’ufficio, essendo un privato cittadino, per giunta imputato. Nessuno meglio di lui, a parte Napolitano, conosce il contenuto delle telefo ­nate. Insomma da oggi il Presidente è poten ­zialmente ancor più ricattabile di prima, es ­sendosi rifiutato di sottrarsi a questa situazione pericolosa e imbarazzante nell’unica forma possibile: rivelando quel che disse a Mancino, come il Fatto gli aveva invano suggerito. Però, dopo il falò delle impunità, si potrà ovviare anche a questo piccolo inconveniente. Basterà riunire tutti coloro che le hanno ascoltate, compresi gli amici e i parenti fino al terzo grado a cui potrebbero averle raccontate, e incaprettarli con un sasso in bocca, o murarli vivi in un pilone di cemento armato, o scioglierli nel ­l’acido. Una bella strage che, fra l’altro, sarebbe di buon auspicio in vista del condono tom ­bale.


Trattativa Stato-mafia, il rimpianto per l’epilogo delle intercettazioni
di Giovanna Maggiani Chelli
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

In qualche modo, siamo arrivati all’epilogo,  le  intercettazioni  fra l’ex ministro dell’Interno  Nicola Mancino  ai tempi delle  stragi del 1993  e il  Presidente della Repubblica, confluite nel processo  trattativa Stato-mafia, lunedì prossimo verranno distrutte.
Per alcuni è tutto legale, per altri un po’ meno costituzionale, ma questa è la realtà per tutti noi.

Anche la nostra  Associazione di familiari di vittime della trattativa Stato-mafia, si era appellata spesso al buon senso e aveva messo in conto decisioni autorevoli quale strada maestra per arrivare ad una risoluzione del problema su quelle intercettazioni.
Oggi però un po’ di pianto nel cuore non possiamo non averlo e non esprimerlo.

Perché rimpianto per come sono andate le cose?

Perché in fondo troppe persone oggi sono a conoscenza del  contenuto  di quelle intercettazioni e si potrà distruggerle quanto si vuole, chi sa resta, può  divulgare  il contenuto delle registrazioni, e prima o poi da qui ai prossimi anni saranno certamente motivo di “ritorno a galla” e in troppi potrebbero usarle a loro uso e consumo, togliendo a noi continuamente un po’ di quella giustizia a cui abbiamo diritto.

Siamo in Italia e i  ricatti  sulle stragi sono sempre stati all’ordine del giorno!

Inoltre con quelle intercettazioni che verranno distrutte, assistiamo nuovamente a un caso increscioso per noi, da parificarsi in qualche misura a quello della lettera scritta dal Pm  Gabriele Chelazzi  prima di morire, la quale lettera, mentre è stata “secretata” per noi che siamo i diretti interessati per quelle indagini che il Pm di Firenze aveva in corso sui “concorrenti esterni” alla strage di via dei  Georgofili  del 27 Maggio 1993, in realtà è stata letta da tanti, oltre tutta la Procura di Firenze naturalmente, almeno da tutti i componenti politici della  Commissione parlamentare Antimafia,  componenti che mentre non hanno avuto il coraggio di chiudere come si doveva una Commissione d’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia , hanno però letto documenti per noi secretati, certamente compromettenti e destinati all’occorrenza negli anni ad un uso ricattatorio.


Napolitano, dalla trattativa a Yara, interferenza indebita
di Bruno Tinti
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

Ora che  Napolitano  sta per lasciare il  Quirinale, gli verrà una crisi di identità.
Come farà a intervenire nei  processi penali, svolgendo quella funzione di nume tutelare che gli è stata tanto cara nel corso del suo settennato? Cominciò con la cosiddetta guerra tra le  Procure di Salerno  e  Catanzaro, che ovviamente non era una guerra per niente: Salerno chiedeva atti processuali e Catanzaro non glieli mandava.

Napolitano chiese alle due Procure di informarlo sui  processi  e su quello che stava capitando; per farne cosa non si sa, visto che la legge non gli attribuiva alcuna competenza, né in materia di indagine né in materia processuale. Poi arrivarono le desolate richieste di intervento da parte di  Mancino, cui lui stesso e i suoi consiglieri prestarono orecchio attento; restando sempre esclusa ogni competenza della  Presidenza della Repubblica  in materia di indagini penali, il vecchio amico avrebbe dovuto essere respinto con fermezza.

Ma no: il Quirinale si attivò e addirittura si arrivò a conversazioni dirette tra Capo dello Stato e indagato nel  processo Stato-mafia  (forse era ancora persona informata sui fatti alquanto reticente, questo non si sa). Con conseguenze disastrose sul piano istituzionale, vista l’impensabile sentenza della Corte costituzionale che, pur di seppellire le intercettazioni che lo riguardavano, ha violentato malamente il  codice  di procedura penale e 3 o 4 principi  fondamentali della nostra Costituzione.

Adesso arriva  Yara. Poiché ormai tutta la nazione conosce questa inclinazione di Napolitano a occuparsi di processi penali, la  mamma  della povera bambina giustamente ha pensato: perché Mancino sì e io no? E  gli ha scritto  raccontandogli che le indagini sono fatte male, che i colpevoli non si trovano, che il pm batte la fiacca e non  ascolta il suo avvocato; e dunque, per piacere, intervenga Lei, signor Presidente. E Napolitano  è intervenuto, come no: “Sarò grato se, nell’ovvio rispetto della normativa vigente in materia, vorrà fornire ogni utile e consentita notizia sulla vicenda giudiziaria”.

Quando venisse accontentato (io, fossi quel pm, gli spiegherei che la “normativa vigente” non consente di fornire “notizia sulla vicenda giudiziaria” a persone diverse dalle parti processuali), che se ne farebbe? Questa tanto richiamata normativa vigente è poi il codice di procedura penale.  Che, con riferimento alla persona offesa dal reato (tale è la mamma di Yara), prevede,  all’articolo 90, che “in ogni stato e grado del procedimento può presentare memorie e indicare elementi di prova”.

Il che non vuol dire che i suggerimenti e gli spunti investigativi debbano essere necessariamente seguiti: il pubblico ministero valuterà quello che gli suggeriscono e deciderà. Poi, come previsto dagli articoli 405 e 408, giunto alla fine dell’indagine, richiederà il  rinvio a giudizio dell’imputato  o l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato. In questo ultimo caso  di solito le parti offese non sono contente; ma hanno un’altra possibilità: fare opposizione alla richiesta di archiviazione (articolo 410) e chiedere la prosecuzione delle indagini preliminari indicando l’oggetto della investigazione suppletiva (quello che, secondo loro, il pm non ha fatto) e i relativi elementi di prova.

Il Giudice deciderà; e, se accoglierà la richiesta, obbligherà il pm a fare quello che parte offesa ha richiesto. Insomma il sistema processuale prevede proprio quella situazione di cui la madre di Yara si è lamentata con Napolitano. E la risolve affidando il controllo dell’operato del pm al giudice. Al giudice, non al presidente della Repubblica. L’iniziativa della mamma di Yara è comprensibile: le hanno ammazzato la figlia, non sa nulla di diritto, il suo avvocato le ha detto che il pm non ha raccolto i suoi suggerimenti, ha letto dell’attivismo paragiudiziario di Napolitano e gli ha chiesto aiuto. Povera donna.

Ma l’iniziativa di Napolitano è inaccettabile. Soprattutto perché avrebbe dovuto rendersi conto, e comunque avrebbero dovuto spiegarglielo i suoi consiglieri giuridici, che una iniziativa del genere ha, al solito, un solo nome:  interferenza. E un solo aggettivo:  indebita.


Mancino – Napolitano, voci difficili da distruggere
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

L’accesso al server “Pa1” della procura è più complicato del previsto: c’è un problema di password da risolvere e, per questo, lunedì sbarcheranno a Palermo i tecnici della so ­cietà di Milano che gestisce l’impianto, con il compito di cancellare i files con la voce di Nicola Mancino a collo ­quio con il capo dello Stato.

È l’ultimo atto di una deci ­sione presa ieri con il depo ­sito, da parte del gip di Pa ­lermo Riccardo Ricciardi, del decreto di distruzione delle intercettazioni che hanno provocato il più acce ­so conflitto tra poteri della storia repubblicana.

ALLA FINE ha vinto Giorgio Napolitano: le telefonate con la sua voce, intercettate sulle utenze di Mancino, nel pe ­riodo in cui l’ex ministro del ­l’Interno era protagonista di un frenetico pressing sul Quirinale per “sfilarsi” dal ­l’inchiesta sulla trattativa, sa ­ranno eliminate definitiva ­mente iunedì, e ieri ií­ perito Fulvio Schimmenti ha già di ­strutto i cd audio che i pm avevano inviato al gip il 22 gennaio scorso. Subito dopo Schimmenti ha raggiunto il server della procura, che si trova nel ­l’aula bunker dell’Ucciardone, ma un impedimen ­to tecnico ha ostacolato la cancellazione delle trac ­ce “originali” di quelle chiacchierate tra Napoli ­tano e Mancino, decisa per decreto affinché delle parole del capo dello Stato non rimanga alcun re ­siduo, neppure nella memoria del grande archivio informatico dell’ufficio inquirente.

Il decreto del gip è di sei pagine, riassumono l’in ­tera vicenda, mantenendosi rigidamente dentro i binari tracciati dalla Consulta: dopo avere ascol ­tato le telefonate, Ricciardi dà atto dell’assenza di ogni riferimento alla tutela della vita e della libertà personale o alla salvaguardia dell’integrità di isti ­tuzioni della Repubblica. Poi, citando la sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzione, visto che si tratta di conversazioni inutilizzabili a fini probatori, sostiene che “deve trovare applicazio ­ne” l’articolo 271 del codice di procedura penale, che però non prevede espressamente la fattispecie del capo dello Stato tra quelle prese in esame. Se la sfera della privacy di “Re Giorgio”, adesso, è salva, non lo è il diritto costituzionale alla difesa.

DOPO che il gip ha respinto la richiesta dei legali di Massimo Ciancimino di ascoltare quelle telefona ­te, il figlio di don Vito ha scritto su Facebook: “So per certo che il contenuto di quelle telefonate sa ­rebbe stato utile al mio processo, per potermi di ­fendere dal reato di calunnia: per stabilire il mo ­tivo di tutto l’accanimento mediatico scatenato nei miei confronti da quando ho fatto il nome di Gianni De Gennaro”. Da oggi i suoi avvocati, Ro ­berto D’Agostino e Francesca Russo, sono pronti a scatenare una nuova battaglia giuridica con una mossa già annunciata nei giorni scorsi: l’impugna ­zione, presso la Cassazione, dell’ordinanza che ha rigettato la loro istanza di ascolto delle telefonate. Un ricorso che, comunque, a partire da lunedì, potrebbe acquisire un valore esclusivamente “ac ­cademico”: il decreto di distruzione del gip e l’in ­carico già attribuito al perito informatico (che tra due giorni cancellerà le telefonate), sembrano in ­fatti escludere per sempre la possibilità di cono ­scere il contenuto di quelle intercettazioni. Ricciardi, chiuso nella sua stanza, non parla. Dalle poche indiscrezioni filtrate, si sa che il magistrato si è consultato con il presidente dei gip, Cesare Vincenti, e pare che alla fine sia arrivato a una de ­cisione condivisa con il suo capo. La riflessione che avrebbe condotto Ricciardi a decretare la di ­struzione delle telefonate sarebbe stata impron ­tata al pragmatismo, oltre che al rispetto per la Consulta.

IL GIP ha considerato che a poco sarebbe valso ri ­correre ancora al parere dei giudici costituzionali, dal momento che la Corte decide sempre in unica composizione, e che non avrebbe mai contraddet ­to se stessa. Con un vulnus giuridico rimasto in ­soluto, si è chiusa, dunque, la più aspra contesa tra poteri dello Stato dal dopoguerra: Napolitano ha ottenuto la “copertura” assoluta delle sue conver ­sazioni private, ovvero una vera immunità extra-funzionale che va al di là dei poteri che la Costituzione fino a ieri gli conferiva. E qualcuno ha visto in questo “allargamento” delle sue pre ­rogative, l’apertura a un presidenzialismo di fatto che il capo dello Stato, però, ha sempre negato. “Non sono mai fuoriuscito – ha detto Napolitano – dai poteri disegnati dalla Carta costituzionale”. Resta ora al gip l’ultimo scoglio: la possibilità che la Cassazione dia ragione ai difensori di Ciancimino, rilevando nella distruzione delle telefonate senza contraddittorio una lesione dei diritti della difesa. La questione potrebbe rimbalzare alla Corte eu ­ropea o ripercuotersi sulla validità dell’intero pro ­cesso sulla trattativa mafia-Stato, visto che anche gli altri imputati potrebbero sostenere di non es ­sersi potuti difendere adeguatamente. Ma di que ­sto, sembra non accorgersi nessuno.


“Il giudice doveva opporsi alla Corte’
intervista di Silvia Truzzi a Franco Cordero
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

Ora ci saranno molte, comode, alzate di spalle. Si dirà che non si poteva fare al ­tro, che il giudice di Palermo era vincolato dalla sentenza della Corte Costituzionale e non era in suo potere andare contro quanto disposto dai giu ­dici. È davvero così? Oppure lo dichiara chi, come Don Abbon ­dio, visto che il coraggio non ce l’ha “mica se lo può dare”? Di avviso opposto rispetto alla vul ­gata che voleva la distruzione delle bobine presidenziali hic et nunc, in obbedienza alla Con ­sulta, è invece Franco Cordero, professore emerito di Procedu ­ra penale alla Sapienza ed edi ­torialista di Repubblica.

Professore, ricapitoliamo le ulti ­me tappe del conflitto tra la Pro ­cura di Palermo e il Quirinale.

A Palermo, 8 febbraio 2013, il giudice dell’udienza prelimina ­re nel processo su oscuri rap ­porti Stato-mafia decreta la sor ­te dei reperti concernenti i dia ­loghi col presidente della Re ­pubblica d’un ex ministro, ivi imputato: nello sfondo la sen ­tenza 15 gennaio 2013 n. 1, do ­ve la Corte Costituzionale risol ­ve un conflitto postulando l’in ­violabilità delle auguste emis ­sioni verbali; e non era affare palermitano discuterla, notan ­do ad esempio come nella Carta sia invisibile l’asserita preroga ­tiva e come l’insigne consesso, arguendola sul filo del non det ­to, pratichi una disinvolta er ­meneutica mediante cui diven ­tano asseribili anche le strava ­ganze (forse quel giudice lo pensa ma scrivendolo violereb ­be una regola capitale, secondo cui date decisioni, bene o male ragionate, sono incontroverti ­bili). Sinora niente da obiettare: doveva vedere da chi e in qual modo fossero captati i dialoghi; poi ascoltarli; e disporne la di ­struzione, purché non leda in ­teressi superiori (vita e libertà personale, nonché res publica servando). Se li è studiati e sic ­come tutto gli risulta a posto, andranno in fumo.

Lei però non è d’accordo: qual è l’obiezione?

Esito molto criticabile, rimuove questioni enormi. La Consulta gl’impone d’agire in ermetico segreto: tolto lui, nessuno sap ­pia qualcosa degli scambi vo ­cali; ora, è vincolato dal dispo ­sitivo ma non al punto d’appli ­care norme invalide; e che tale sial’art. 271 c.p.p, inteso così, lo vede ogni conoscitore dell’alfa ­beto giuridico: era stile inqui ­sitorio che qualcuno lavorasse “in coscienza”, manipolando i materiali al buio. La Carta esige difesa inviolabile (art. 24) e contraddittorio (art. 111). Inol ­tre, l’azione penale obbligatoria (art. 112) risulta elusa dove l’as ­serita prerogativa occulti mate ­ria d’accusa.

Ora s’invocherà un vin ­colo ineludibile del giu ­dice rispetto alla sen ­tenza della Corte. Lei in ­vece ha chiarito che il giudice avrebbe potuto – anzi dovuto – sollevare la questione di legittimi ­tà costituzionale, per ­ché la sentenza gl’imponeva un comportamento incostituzionale.

I   quirinalisti diranno: la Corte s’è pronunciata;  “Curia locuta, causa fi ­nita”. Nossignori: ha ri ­solto un conflitto stabi ­lendo che il giudice pa ­lermitano obliteri dei nastri, senza che le parti sappiano cosa contengono, ma la Carta lo vie ­ta; e la questione va deferita al ­l’organo competente; dica se la norma da applicare sia o no conforme ai modelli. La singo ­larità scandalosa sta nel fatto che stavolta l’ipotesi normativa sospetta venga dalla Consulta. Bene, parli ex professo: il giudice la investe; e se vi riesce, lei ac ­cordi l’art. 271, inteso a modo suo, con gli artt. 21, 111, 112 della Costituzione.

Discorso chiuso?

Nient’affatto. I nastri spariti in ­quineranno la cognizione nel merito: è mancata una possibile prova; era o no rilevante? Se lo fosse, perché escluderla sulla base d’un divieto tre volte in ­valido? Gl’interessati solleve ­ranno l’argomento. Supponia ­mo che le parole occulte fossero trapelate e influiscano nel qua ­dro decisorio: dall’ammetterle o no dipende che un tale sia as ­solto o condannato; qui i con ­traddittori giocano a carte scoperte. Ovvio che l’interessato alla prova contesti la regola d’e ­sclusione. Notiamolo ancora, la questione rinasce nei processi futuri: qui non esiste res iudicata preclusiva; niente garantisce li ­nee conformi; la legge salvata ieri forse cade domani da pre ­messe diversamente motivate.

Non era mai accaduto che ad avanzare una soluzione costi ­tuzionalmente anomala fosse proprio la Consulta. Che lezio ­ne se ne può trar ­re?

Solo nelle fiabe vi ­gono automatismi normativi perfet ­ti; essendo sogget ­ti a vari accidenti gli operatori uma ­ni, talvolta gli ap ­parati contano più delle norme; succede ma sicco ­me la sintassi non fa riverenze alla politica, l’assurdo rimane tale anche se la platea fosse sorda alle denunce.


Ingroia: “Mi sarei  comportato  diversamente”
di Beatrice Borromeo
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 febbraio 2013)

Nasconde bene, Antonio Ingroia, la delusione per la decisione del gup di Palermo di non combattere la sentenza della Consulta: lunedì le intercettazioni tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’indagato Nicola Mancino verranno distrutte, e “il capitolo si chiuderà davvero”, dice il candidato di Rivoluzione Civile. Che però non se la prende con il collega, il giudice Riccardo Ricciardi: “Evidentemente ha cre ­duto di non avere margini per sollevare la questione di co ­stituzionalità. Scelta, che rispetto, anche se io mi sarei com ­portato diversamente”.

Pensa che anche il gup abbia preso una decisione politica?

Non credo. L’ho detto in merito alla sentenza della Corte co ­stituzionale perché ha ampliato le immunità del presidente della Repubblica e ristretto i poteri di controllo della magi ­stratura. Cosa non prevista dai nostri Padri costituenti.

Si aspettava un esito diverso?

Poco conta. Il vero problema qui è l’equilibrio dei poteri. L’hanno spiegato bene i professori Zagrebelsky, Cordero e Pa ­ce, e proprio per quei motivi è ovvio che la disposizione del gup non può rendermi felice.

Se anche Ricciardi avesse posto una questione di costituziona ­lità, però, la palla sarebbe tornata in mano alla Consulta.

Infatti era improbabile che l’esito finale fosse diverso, ma una sollecitazione del giudice avrebbe almeno riaperto il dibattito e richiesto un nuovo intervento della Corte costituzionale. Pensa che quest’ultimo capitolo inciderà negativamente sulla sua campagna elettorale?
Non direi, anche perché il momento centrale rimane quello in cui la Consulta ha accolto il ricorso dell’avvocatura dello Stato. La partita si è decisa lì.

Lei resterà uno dei pochissimi a sapere cosa si sono detti in quelle quattro telefonate.

Sono ben impresse nella mia memoria. (Ride) Diciamo che le metto nel mio archivio.


Sulla distruzione delle intercettazioni, anche qui

Consentitemi di chiedere a chi conosce il contenuto delle intercettazioni in questione, di avere il coraggio di farle pubblicare, inviando il cd (qualcuno sicuramente ne dispone in privato) alla stampa.
Non dobbiamo lasciar correre su di un fatto tanto scandaloso e incostituzionale. Ingroia dovrebbe essere il primo a darsi quel coraggio, visto che il suo movimento si chiama “Rivoluzione civile”.
(bdm)


“Monti massone internazionale” E scatta la censura del “Fatto”
di Gabriele Villa
(da “il Giornale”, 9 febbraio 2013)

Può capitare. Dieci domande che diventano nove. Capita per ragioni di spazio, il più delle volte. Nei giornali, si sa, gli ingombri sono quelli che sono.
Ma per il Fatto Quotidiano, sempre così schietto, sereno e imparziale nei suoi giudizi e nelle sue ricostruzioni, può succedere che una domanda venga tagliata non tanto per questioni di ingombri e di spazio ma perché semplicemente ingombrante data la risposta che ne consegue. Perché ingombranti, in quella risposta, sono i nomi di Mario Monti e Mario Draghi.

Il pasticciaccio è venuto a galla perché lo ha prontamente denunciato, con dovizia di dettagli, il sito internet http://www.grandeoriente-democratico.com. Dunque chi ha avuto la fortuna di sfogliare il Fatto Quotidiano del 6 Febbraio 2013, citiamo testualmente dal sito «…ha potuto leggere, sia nel titolo in prima pagina sia nel rimando alle pagine interne una versione censurata, rimaneggiata e parzialmente manipolata dell’intervista concessa la sera del 5 febbraio dal fratello Gioele Magaldi (fondatore del Grande Oriente Democratico, ndr) al giornalista Fabrizio d’Esposito. La volontà di censurare e manipolare – si legge nel sito – non va ricondotta all’incolpevole (e meritevole, poiché aveva concepito delle domande intelligenti, interessanti e oneste intellettualmente) Fabrizio d’Esposito, bensì direttamente a un personaggio che si è rivelato (e ne siamo rimasti sorpresi, perché l’avevamo sempre stimato come un uomo libero e integro) uno squallido fariseo, un sepolcro imbiancato di evangelica memoria: l’attuale (speriamo ancora non per molto) direttore de il Fatto Quotidiano: Antonio Padellaro ».

Queste le considerazioni del sito massonico, cui di nostro non aggiungiamo nulla perché nulla serve aggiungere. Giusto per una migliore comprensione della vicenda va riferito che l’intervista, abilmente potata, ruotava attorno alla vicenda Monte dei Paschi di Siena con personaggi e interpreti che Magaldi, rispondendo alle domande del collega d’Esposito, ha cercato di tratteggiare e di soppesare, per ruolo e coinvolgimento nello scandalo. Prendiamo una domanda a caso: A Siena l’intreccio massonico che riflesso ha sulle varie cordate? Si è parlato di Amato, Bassanini, Luigi Berlinguer, poi dei berlusconiani vicini alla banca come Verdini. Questa domanda c’è per esempio. Ma prendiamone un’altra, quella che non c’è, che è sparita, svanita nel nulla: «Leggendo il suo sito, si apprende che il mondo del potere è zeppo di fratelli. Lasciando da parte P2, P3 e P4, lei chiama fratelli anche Draghi e Monti… » E a questo punto leggete con noi la risposta di Magaldi che non avete potuto leggere perché è stata tagliata: «Mario Draghi e Mario Monti sono entrambi massoni. Di più: appartengono all’aristocrazia massonica sovranazionale. Su ciò saranno peraltro prodotte importanti ed autorevoli testimonianze documentarie nel mio libro Massoni. Tra l’altro, occorre dire che troppo spesso, sulla questione Mps, ci si interroga sul livello italiano degli intrecci massonici. In realtà, se c’è un massone implicato fino al collo nella vicenda, quello è proprio il Venerabilissimo Maestro Mario Draghi, governatore di quella Banca d’Italia che tutto fece tranne che intervenire energicamente al tempo della strana acquisizione di Banca AntonVeneta da parte del Monte dei Paschi di Siena ».

Piuttosto esplicito il messaggio del massone Magaldi che, a chi ha proprio la smania di saperne di più su intrecci, trame e alleanze varie, suggerisce di acquistare e naturalmente leggere (non ci si saranno tagli ovviamente) il suo prossimo libro: «Massoni. Società a responsabilità illimitata. Il Back-Office del Potere come non è mai stato raccontato. Le radici profonde e le ragioni inconfessabili della crisi politico-economica del XXI secolo » (ChiareLettere Editore), in uscita tra aprile e maggio 2013. Quindi ancora una battuta: «La versione censurata e manipolata da Antonio Padellaro, mandata anche in stampa senza il consenso dell’intervistato, che è stato avvisato delle censure e manipolazioni quando ormai il giornale era passato dal tipografo e pronto alla distribuzione, dovrebbe invitare ad interrogarci su quanto sia sporco talora il giornalismo italiano ».


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Bart