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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Volevo guarire il mondo, ma con la penna

3 Gennaio 2013

di Oriana Fallaci
(da “il Giornale”, 3 gennaio 2013)

Sapete, ogni scrittore ha il proprio argomento, un tema. E vi ritorna sempre, qualsiasi cosa scriva, perfino quando sembra che scriva di altro. Il tema dell’amore, ad esempio, o il tema del sesso, o il tema dell’avventura, o il tema dell’ingiustizia… i temi cui io torno sempre sono: la Morte, che sono incapace di accettare, la Libertà, della quale non so fare a meno, e il Potere, che mi fa tanto arrabbiare (come sanno tutti). Ho battuto così tanto su questi temi nella mia vita, che talvolta mi domando se, in realtà, la scelta di medicina non nascondesse una motivazione ben più complessa. Cioè la sintesi di questi tre temi. Altrimenti detto, una motivazione politica. Vedete, sono cresciuta durante la Seconda guerra mondiale e la bambina di cui vi ho raccontato era il risultato di quella guerra voluta da un potere che aveva ucciso la libertà: in un certo senso devo aver scelto medicina anche per ribellarmi a tutta la morte che avevo visto. Era un modo per preservare la vita nonostante i signori della guerra, i tiranni, gli assassini che maltrattano e sacrificano altri esseri umani sugli altari della loro follia, della loro malvagità. Fu infatti allora che incominciai a pensare che i medici più di chiunque altro dovrebbero essere coinvolti in politica. Medici e donne incinte. Oh, non è un paradosso Fallaci. È logica, buon senso. Vi dico: in quei raduni contro le bombe nucleari e le guerre dovrebbero esservi più dottori e donne incinte di chiunque altro.
Non divenni mai medico, ahimè. Non terminai mai gli studi di medicina. Di fatto finii per aderire all’opinione di mio zio secondo cui le università trasformano in idioti anche i più intelligenti. Non mi laureai. Le uniche lauree che ho sono quelle honoris causa. Ma la vera ragione per cui lasciai medicina è che nel mio Paese, all’epoca, le università non erano gratuite come oggi. Uno doveva pagarsi da sé il proprio cammino verso la laurea (motivo per cui solo i ricchi o i più ricchi accedevano a certe professioni). La facoltà di medicina era la più costosa e la mia famiglia era tutto fuorché ricca. Così, per mantenermi all’università, incominciai a lavorare come reporter per un giornale: dalle 8,30 del mattino alle 5,30 del pomeriggio in università e dalle 5,30 del pomeriggio fino alle 3 di notte circa al giornale. Rincasavo sul furgoncino della prima edizione e quando mi svegliavo alle 7 mi sarei messa a piangere per quanto avevo sonno. In diciotto mesi arrivai a pesare trentaquattro chili. Dovetti prendere una decisione e abbandonare quegli illimitati orizzonti di conoscenza umana. Rimasi al giornale e divenni giornalista, poi scrittore. Siamo onesti: per quanto continui a essere così invidiosa di voi, gelosa perfino, non ho nulla da rimpiangere. Anche il mio lavoro è meraviglioso, ammesso che – come il vostro – venga affrontato non come un mestiere, ma come una missione. E poi chi lo può dire? Avrei anche potuto essere un pessimo medico, e abbiamo davvero già troppi cattivi medici per poterci permettere il lusso di un cattivo medico di nome Oriana Fallaci. Come scrittore sono brava, invece, e mai modesta a questo riguardo. Sono brava perché… Perché sono nata per essere uno scrittore e sarei uno scrittore anche se non avessi avuto le mani per scrivere. Una volta un giornalista che mi intervistava mi chiese: «Cosa le piacerebbe vedere scritto sulla sua lapide, sotto il suo nome? ». Risposi senza esitare: «Forse non mi importerebbe poi tanto del mio nome. Ma mi piacerebbe vedere queste parole: qui giace uno scrittore ».


Monti non riesce a schiodarsi dal 12%
di Andrea Cuomo
(da “il Giornale”, 3 gennaio 2013)

Roma Non sarà un «leaderino » Mario Monti, come da definizione di Silvio Berlusconi che peraltro quest’ultimo ieri ha sconfessato.
Non sarà un «leaderino » il presidente del Consiglio uscente, ma il suo impatto sulle prossime elezioni rischia di essere trascurabile. Lo suggerisce il primo sondaggio del nuovo anno, realizzato a Capodanno da Nicola Piepoli e pubblicato ieri in esclusiva da affaritaliani.it. Secondo lo storico sondaggista il rassemblement centrista aggregatosi attorno alla figura, al nome e all’agenda di Mario Monti (ovvero Udc, Futuro e Libertà, Verso la Terza Repubblica e Monti’s list vera e propria) attualmente non strapperebbe più del 12 per cento dei voti. Un dato di poco superiore al fatturato elettorale che proprio ieri Berlusconi nell’intervista su SkyTg24 accreditava al partito dei Professori: «I sondaggi danno i suoi partiti a meno del 10 per cento ».

Insomma molto rumore per nulla, come scriverebbe William Shakespeare. L’effetto Monti al momento si manifesterebbe in un misero 3 per cento, quanto il sondaggio di Piepoli attribuisce al momento alla Destra di Francesco Storace: uno che ha la sua dirittura politica e morale, per carità, ma che non è stato invocato da mezza Europa come salvatore dell’Italia e dell’euro. E che non ha certo avuto la platea e la visibilità del conducator del governo dei tecnici.
Il 3 per cento? Già, più o meno è così. E siamo stati pure generosi. Siamo infatti andati a ripescarci la media dei sondaggi di metà dicembre (quando Monti doveva ancora annunciare la sua discesa in campo) pubblicata sul sito termometropolitico.it. Ebbene, in quel momento quello che allora si definiva Terzo polo nei sondaggi si ritagliava il 9,2 per cento dei voti, frutto della sommatoria del bottino elettorale virtuale delle allora tre gambe del centro: l’Udc, i finiani e i montezemoliani. Ora che sopra il guazzabuglio centrista è stato apposto il marchietto dell’ultimo inquilino di Palazzo Chigi, il risultato è soltanto di 2,8 punti percentuali superiore. Capite di cosa parliamo quando parliamo di flop?

Certo, molte cose potranno cambiare da qui al 24 febbraio. La campagna elettorale è appena all’alba e non mancheranno i colpi di scena. E poi sentiamo sibilare la solita obiezione del grillo parlante: i sondaggi, si sa, non sono Vangelo. Giusto. Però, quando sbagliano, sbagliano di virgole, al massimo di qualche punto. Quindi appare davvero difficile ipotizzare che un cartello elettorale che oggi è al 12 per cento possa fare una cura di anabolizzanti per gonfiarsi fino a quel 30-35 per cento che probabilmente garantirà la vittoria almeno alla Camera.

Insomma, sembra aver proprio ragione Silvio Berlusconi. La sfida, alla fine, sarà la solita: centrodestra contro centrosinistra. Con il secondo, sempre in base al sondaggio di Piepoli, al momento in deciso vantaggio, con un 42 per cento frutto della somma dei voti del Pd (33 per cento), di Sel (6) e delle liste minori (3). Lo schieramento alternativo, quello del centrodestra, raccoglie al momento il 30 per cento dei voti ma è in grande rimonta e probabilmente salirà ancora: il Pdl è dato al 17 per cento, la Lega con cui da ieri l’alleanza pare più vicina al 6, la Destra di Storace come detto al 3, i Fratelli d’Italia della strana coppia Meloni-Crosetto (con il terzo incomodo La Russa) al 2 così come Intesa Popolare di Trieste e Catone. Colpisce il precoce declino del Movimento Cinque Stelle, che Piepoli fotografa all’11 per cento, tre punti in meno di un paio di settimane fa e parecchi in meno rispetto a inizio autunno. Consensi che sembrano essersi spostati nella nuova lista capeggiata dal magistrato palermitano Antonio Ingroia, che con altre briciole di sinistra estrema ottiene il 5 per cento. Anche per lui il rischio è l’irrilevanza.


Prima Repubblica: a volte ritornano
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 2 gennaio 2013)

Se uno degli obbiettivi del governo tecnico di Mario Monti era quello di modificare il sistema politico facendo piazza pulita del bipolarismo anomalo della Seconda Repubblica, bisogna riconoscere che il traguardo è stato conseguito. La mancata alleanza tra Lega e Pdl, così come l’impossibilità di una intesa di coalizione tra il centro di Casini e dello stesso Monti e la sinistra Pd-Sel dell’accoppiata Bersani-Vendola, rendono ormai superato lo schema degli ultimi vent’anni del confronto tra due coalizioni antagoniste condizionate dalla rispettive forze estreme piuttosto che da quelle moderate e riformiste. Alle grandi coalizioni di una volta, Pdl e Lega da una parte e Ulivo dall’altro, si sono ormai sostituite le mimi-coalizione di oggi: Il Pdl con la Destra di Storace ed i gruppi minori del centrodestra, il Terzo Polo montiano formato da Udc, Fli e montezemoliani senza Montezemolo, la sinistra di Pd, Sel e lo spezzone del dissidenti dell’Idv, l’area giustizialista di Ingroia e Di Pietro e quella della protesta antipolitica di Beppe Grillo. La legge elettorale rimane quella che cercava di favorire il bipolarismo anche a costo di dare vita a maggioranza in grado di vincere le elezioni ma di non saper e poter governare il paese. Ma lo schema non è più quello della Seconda Repubblica ma è tornato ad essere quello della prima.

L’unica certezza dell’attuale campagna elettorale, infatti, è che ogni mini-coalizione si candida a guidare il paese ma nessuno può prevedere prima del voto chi riuscirà mai a formare una maggioranza capace di esprimere il governo. Può essere benissimo che alla Camera la sinistra riesca ad ottenere il premio di maggioranza. Ma è ancora più certo che non riuscirà mai a conseguire lo stesso risultato al Senato. E lo stesso vale per qualsiasi altra mini-coalizione.

Chiunque vorrà governare dovrà negoziare con le altre forze politiche un programma di compromesso e mettere in piedi un governo di coalizione. Il tutto solo dopo le elezioni e, naturalmente, in maniera sostanzialmente difforme dalle promesse fatte e dagli impegni presi dalla mini-coalizioni ai propri elettori. Come ai tempi passati quando gli elettori si esprimevano in un modo e le forze politiche , incassato il voto dei propri sostenitori, utilizzavano la rappresentatività ottenuta piegandola all’interesse generale della governabilità e alle loro esigenze di potere.

Per Giorgio Napolitano, che nel discorso di fine d’anno ha ricordato come la Costituzione non preveda l’elezione diretta del Capo del governo, questo ritorno al passato va giudicato positivamente. Tanto più che con l’anticipo del voto il compito di indicare il presidente del Consiglio spetta sempre a lui. E l’esperienza dell’ultimo anno consente di immaginare come il Capo dello stato sia già orientato a favorire la formazione di una coalizione di sinistra-centro dominata dal Pd ma bilanciata dalla presenza di Monti a Palazzo Chigi.

Può essere che il disegno di Napolitano sia, a tempi brevi, il “meno peggio” per il nostro paese. Ma a parte la previsione che il negoziato per il nuovo governo sarà lungo e travagliato come quelli dei tempi passati ed il timore che liturgie così farraginose ed estenuanti poco si concilino con una crisi che impone scelte e decisioni rapide, c’è una seconda considerazione da fare.

Un governo formato da due mini-coalizioni assediato da tutte le altre non potrà avere né la possibilità di realizzare le riforme indispensabili per uscire dalla crisi, né di andare troppo avanti nella legislatura. Il ritorno al passato caro a Napolitano e di cui Monti si è fatto artefice convinto, quindi, non segnerà alcun passo in avanti ma garantirà solo una nuova fase di ingovernabilità e di instabilità. Questa conclusione appare talmente scontata da sollevare un inquietante interrogativo. E se l’obbiettivo fosse proprio quello dell’ingovernabilità e dell’instabilità per favorire la solita svolta autoritaria, di sinistra o di destra che sia, con cui gli uomini del secolo scorso hanno risposto alle grandi crisi?


Trattativa Stato-mafia, un esposto avverte: “Spiati i pm di Palermo”
di Redazione
(da “il Fatto Quotidiano”, 3 gennaio 2013)

Nella procura di  Palermo, chi si occupa dell’inchiesta sulla trattativa tra  Stato  e  mafia  è spiato. A denunciarlo è un esposto anonimo inviato al pm  Antonino Di Matteo  e sui cui la Procura sta cercando di fare luce.

Come riporta oggi  Repubblica, la lettera anonima indica anche dove trovare altre prove del patto tra Stato e boss mafiosi dopo le stragi mafiose del ’92, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero essere a conoscenza di molti fatti. Non solo. Secondo l’anonimo, inoltre, l’agenda rossa di  Borsellino  “è stata rubata da un carabiniere”. L’esposto è composto da dodici pagine e secondo gli investigatori della Dia sarebbe “attendibile”. Sul frontespizio c’è anche lo stemma della  Repubblica italiana. L’autore avrebbe attribuito un numero di fascicolo, proprio come si usa nei documenti ufficiali.

Insomma, come pensano gli stessi inquirenti, chi ha scritto l’esposto sarebbe persona molto informata sui fatti, tanto che i pm starebbero già verificando ogni sua dichiarazione. Nella lettera si ripercorrono i più noti delitti mafiosi avvenuti nel capoluogo siciliano: dall’omicidio del segretario del  Pci  siciliano  Pio La Torre, a  Capaci  e  via D’Amelio. L’anonimo avverte i magistrati che “uomini delle Istituzioni”, ma anche alcuni magistrati, li stanno sorvegliando, “canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto”. E spiega che questi dati sono contenuti “a  Roma“, in una “centrale”.


L’agenda Monti farà fallire Italia ed Europa
di Maurizio Belpietro
(da “Libero”, 3 gennaio 2013)

Distratti dai brindisi di fine anno, ho la sensazione che molti italiani si siano persi un paio di imperdibili commenti dedicati all’Agenda Monti e a quel che sta succe ­dendo in Italia e dintorni. Provvedo perciò a colmare la lacuna, augurandomi di ren ­dere un servigio utile ai lettori di Libero. Il primo articolo è uscito a firma di Barbara Spinelli sulla Repubblica. La signora è una di quelle zarine di sinistra venerate dal pubblico radicai chic, una che se toccasse a lei metterebbe Berlusconi e chi l’ha votato su una pira e appiccherebbe il fuoco come si faceva un tempo con eretici e stregoni. Perché allora è interessante ciò che ha scritto l’esiliata speciale in quel di Parigi? Perché dall’alto delle sue frequentazioni e parentele (è figlia di Altiero Spinelli, fonda ­tore del Movimento federalista europeo, uno dei padri dell’attuale Ue) nei giorni di Natale ha demolito l’Agenda Monti e an ­che le ambizioni del presidente del Consi ­glio, il quale si presenta alle elezioni come unico in grado di garantire all’Italia di esse – re ammessa nell’esclusivo club europeo. Già il titolo dell’editoriale promette bene: Moderatamente europeo. Eh sì, perché il professore, nonostante le arie che si dà, è giudicato dalla Spinelli un europeista tie ­pido, un conservatore convinto, che bada solo al pareggio di bilancio ma poco alla costruzione della Ue. Secondo l’illustre collega (chiedo venia se in un soprassalto di presunzione oso accomunarmi all’opi ­nionista transnazionale) nell’Agenda del premier gli unici impegni concreti sono il pareggio di bilancio e la riduzione del debi ­to pubblico in Italia: dunque la nuda applicazione del Fiscal compact, cioè del patto di bilancio. Monti è accusato di avere una visione liberista-tecnocratica, di non capi ­re che i mali dell’Europa non si risolvono con un ottuso rigore. «L’Agenda è fedele al più ortodosso liberismo: tutto viene anco ­ra una volta affidato al mercato, e l’assunto da cui si parte è che finanze sane vuol dire crescita, occupazione, Europa forte: non subito forse, ma di sicuro. Immutato, si ri ­pete il vizio d’origine dell’Euro. Quanto all’Italia, ci si limita a dire che il rispetto ri- guadagnato in Europa dipenderà dalla sua capacità di convincere gli altri partner.  Convincere di che non lo si dice ».    La conclusione è che l’Agenda vola basso. Molto basso. Perché Monti è euro ­peo, ma appunto moderatamente. E l’Unione da lui santificata è quella che da anni idolatra l’unanimità, che in questo caso significa soprattutto genuflettersi di fronte ai niet di Angela Merkel, producen ­do accordi minimalisti. Non c’è politica nelle parole di Monti, non c’è visione: solo numeri. Sarà per questo che la Spinelli os – serva come nelle parole mai citate dal presidente del Consiglio nell’enunciazione del suo programma c’è la democrazia. Una mancanza che per chi si appresta a chiedere la delega agli italiani, impegnan ­dosi a rappresentarne gli interessi in Par ­lamento e al governo è piuttosto significa ­tiva. Il presidente del Consiglio è l’inter ­prete di un potere che rende conto ai mer ­cati, ma non ai cittadini. C’è da stupirsi se poi questi guardano all’Europa come a un Principe distante, che non conoscono e che non capiscono? C’è da essersi sorpresi se i sondaggi svelano che oltre il sessanta per cento degli italiani ritiene che a Bru ­xelles non si faccia il bene del nostro Paese, evidenziando la strisciante diffusione di un sentimento antieuropeista?

Fin quil’esiliata speciale di Repubblica, che di Europa e banche ne capisce anche per essere stata a lungo compagna di Tommaso Padoa-Schioppa, il ministro dell’Economia di Romano Prodi scom ­parso prematuramente e passato alla sto – ria per aver dato dei bamboccioni ai gio ­vani e per aver detto che pagare le tasse è bellissimo. Tra gli articoli che meritano di non essere persi ce n’è però un secondo e stavolta non è comparso sull’organo uffi ­ciale dei progressisti italiani, ma su quello degli industriali. A firma di Guido Rossi, principe rosso del foro, avvocato di grandi famiglie e di grandi imprese purché in grado di pagargli la salataparcella, sul Sole 24 Ore si sono argomentati con altre paro – le gli stessi dubbi della Spinelli. Sotto il ti ­tolo Se la politica si riduce ad Agende e proclami, l’ex presidente della Consob e senatore della sinistra indipendente (Eb ­bene sì, nella sua lunga carriera Rossi ha fatto anche questo, oltre che il commissa ­rio della Figc) si fa beffe del programma del premier. Prima accusandolo di essere quasi impermeabile a qualsiasi principio di laicità dello Stato, poi di non rispettare i principi fondamentali di una democrazia costituzionale. «È forse finalmente tempo che chi ne ha l’autorità spieghi che lo Sta ­to non è un’azienda, che la politica non è una branca dell’economia aziendale, che la meritocrazia, i cui criteri sono sempre più discutibili, porta all’oligarchia di élite, che promuovono gigantesche inegua ­glianze e difettano per loro natura di cul ­tura democratica ». Secondo Rossi non è quindi un caso che nell’Agenda Monti il benessere dei cittadini e l’economia so ­ciale di mercato («finora soffocati dalla politica dell’austerità e del rigore, tanto impietosa quanto discutibile ») non siano previsti provvedimenti a tutela dei fonda – mentali diritti nei quali si realizza una democrazia. Conclusione del super avvoca ­to, l’Unione europea si presenta oggi co ­me una struttura tecnocratico-ammini- strativa, che non ha ancora come fonda ­mento né un popolo né una nazione degli europei. E se non cambia strada rischia di dissolversi come capitò al Sacro romano impero. «Lo stesso Parlamento europeo non può rappresentare ciò che non è e ciò che ancora non esiste: né il popolo euro ­peo, né una sfera pubblica politica euro ­pea, che decida al di là dei confini nazio ­nali le questioni decisive per la sua so ­pravvivenza ».

Vi domandate perché oggi ho deciso di usare il mio editoriale per una sorta di ras – segna stampa? Non certo perché a corto di idee o perché non ho ancora smaltito i fumi e le pigrizie di Capodanno. La ragio ­ne è duplice. Innanzi tutto in quanto i due articoli segnalano come nelle élite dalle cui fila proviene Monti comincino a ser ­peggiare dubbi sulla direzione intrapresa dal presidente del Consiglio. Non solo colleghi di università come Giavazzi, Ale ­sina e Ricolfi si chiedono se le misure del governo ci tireranno fuori dai guai oppure li accresceranno, ma anche quel mondo chic che lo adorava come reazione a Ber ­lusconi ora si interroga. Secondo, gli arti ­coli di Spinelli e Rossi fanno capire che Monti non è l’Europa e si può essere euro ­peisti anche se non la si pensa come lui e si ritiene che la Merkel sbagli, che l’Euro non sia la miglior moneta possibile, che la Ue durante la crisi abbia commesso molti errori e continui a commetterne. In po ­che parole, la politica dei tecnocrati e del – la Cancelliera di ferro non è detto che salvi l’Europa né che contribuisca a tenere uni ­ti i Paesi che ne fanno parte, anzi, potrebbe perfino ottenere l’effetto contrario, ov ­vero una sua disgregazione.

Spinelli e Rossi dicono, certamente con parole più raffinate date le loro origini, so ­prattutto politiche, ciò che una parte del centrodestra e il suo leader dicono da tempo. Perché però nessuno muove la penna per dire che sono irresponsabili, come invece capita se ad aprir bocca è Berlusconi? Oh, certo, conosco già la ri ­sposta: Spinelli e Rossi non si candidano a guidare il governo. Vero: ma contribui ­scono e non poco a formare le opinioni. E allora non sarebbe il caso di discutere di queste opinioni con serenità, senza bada ­re a chi le sostiene ma alla loro sostanza?

Non è forse il momento di interrogarci su una questione semplice: Monti ci porta in Europa o dà una mano a farla fallire? È il Messia di Bruxelles o liquidatore giudizia ­le dell’Italia? La mia risposta non la antici ­po ma la potete immaginare.


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Bart