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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Sgorlon, Carlo

18 Marzo 2010

Il vento nel vigneto
L’uomo di Praga
Il taumaturgo e l’imperatore (già Marco d’Europa, uscito con questo titolo per le Edizioni Paoline dieci anni prima, nel 1993)
L’armata dei fiumi perduti
La carrozza di rame
Gli dèi torneranno
Regina di Saba
La tredicesima notte
Il trono di legno

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La conchiglia di Anataj
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Lo stambecco bianco
L’alchimista degli strati
I sette veli
La penna d’oro
Il guaritore
Il circolo Swedenborg
Sgorlon, un narratore che ci manca

“L’uomo di Praga”

Mondadori, pagg. 264. Euro 7,40

Quando Sgorlon in questo romanzo descrive i “mercanti di uomini” che capitano a Naularo, un paesino di frontiera friulano, per reclutare lavoranti da inviare in qualche parte dell’Impero asburgico, ho pensato ai protagonisti di quello splendido romanzo che è “La conchiglia di Anataj”, i quali devono essere stati reclutati allo stesso modo da questi signori che “Portavano cappelli di feltro con sopra il pennello, giacche verde scuro con le mostrine bene in vista, la martingala, il panciotto, l’orologio d’argento con una lunga catena. Calzavano stivaletti neri o pesanti scarpe da viaggio, solidissime e con il tacco massiccio.

” Probabilmente anche Valeriano, Silvestro, Marco, Bastiano, Arrigo e altri friulani, che animano “La conchiglia di Anataj”, erano stati ingaggiati per i lavori alla ferrovia siberiana da mercanti simili che in una qualche locanda “convocavano gli uomini senza lavoro. Offrivano da bere a tutti i presenti e subito esponevano le condizioni d’ingaggio, i luoghi, il salario, la durata del lavoro. Non badavano mai al centesimo. Gettavano i loro talleri d’argento sul banco di marmo perché tutti ne sentissero il tintinnio. Fumavano sigari lunghi e affusolati, o pipe bavaresi dal lungo cannello. Quando parlavano nelle piazze, in giornate serene e asciutte, usavano dei grandi imbuti di ferro per moltiplicare la voce e farsi sentire da lontano.” La lunga citazione merita il suo spazio, qui, per la sua bellezza e perché rievoca usanze che forse da qualche parte dell’Italia resistono, laddove manca il lavoro e abbonda la miseria. Gli anni in cui si svolge la storia sono quelli che precedono e si inseriscono nella Grande Guerra, quando il Friuli non era certo prospero come ai nostri giorni, sebbene la sua gente sia rimasta la stessa, operosa e mai stanca o senza speranza nell’avvenire.

Ecco che un inverno, la sera di Santa Lucia, nel paesino di Naularo capita un forestiero, sui quarant’anni. Subito il paese è in subbuglio. La curiosità divora i suoi abitanti, finché si viene a conoscere che l’uomo proviene da Praga e si chiama Alvar Kunslica. Ma ciò non basta. Se ne vuol sapere di più e gli occhi sono tutti puntati su di lui, soprattutto quelli del più ricco possidente del paese, Valerio Calligaris, padrone di terre e di fabbriche, nonché della locanda “Alla Posta”, dove il forestiero ha preso alloggio. Non è troppo ben vestito per non destare nel padrone i sospetti che forse è uno di quelli che non ha i soldi per saldare il conto. La cameriera della locanda non fa altro che spiare nella sua stanza. Trova un recipiente colmo di monetine da venti centesimi. Che sia un falsario? O un contrabbandiere? No, è un cinematografaro; lo ha scoperto Valerio andando in città, dove il forestiero ha aperto ben due sale cinematografiche e sta trattando l’apertura di altri locali. Ecco perché è pieno di monetine da venti centesimi: sono il prezzo del biglietto! In realtà, egli è un ingegnere “specializzato in ottica” e la sua intenzione è di impiantare proprio a Naularo una fabbrica di proiettori automatici, una vera novità tecnologica. Sono i primi anni in cui il cinema si affaccia nel mondo, creando intorno a sé un alone di magia e di seduzione. Giuseppe Tornatore ci ha già mostrato, nel suo “Nuovo cinema Paradiso”, lo stupore e l’attrazione che la settima arte, come sarà chiamata, seminava dappertutto al suo apparire, lasciando le anime più sensibili immerse in un sogno fantastico. Per di più, qui abbiamo la fascinosa coincidenza che l’uomo di Praga viene da lontano, come il cinema che lo accompagna. Resterà sempre, quella del cinema, la sua attività “più gradita” e incantata, una specie di àncora di salvezza nei momenti più difficili della sua vita. Come altri personaggi incontrati nei romanzi di Sgorlon, Alvar ha una esistenza randagia, scossa e animata da continue ricerche, ed infine dal desiderio di trovare un luogo dove fermarsi. Viene in mente Simone de “Gli dèi torneranno”, pure lui alla ricerca di un approdo che gli procuri la pace; anche Alvar “era stanco di mutamenti, di fughe, di avventure non cercate, e qui desiderava restare, finalmente”. Così Naularo è un altro luogo della serenità e della speranza: “Naularo, che era un paese da nulla, era davvero una patria.”, come Cleulis per Simone, come Malvernis per Emilio ne “La carrozza di rame”, o Cretis per Giuliano ne “Il trono di legno”. Solo a noi l’autore confiderà un po’ i trascorsi tristi e sfortunati del suo personaggio. Quando da piccolo, morto il padre Attilio, la madre Matilde era stata costretta dalla povertà a rinchiuderlo in un collegio per orfani “Il momento migliore della giornata era quello in cui andava a dormire. Lì, nel letto, al buio, poteva dar sfogo al pianto e di esso non doveva dare spiegazione a nessuno. Ridiventava libero e padrone di se stesso.” E ancora: “Alvar rifletteva che quello di vivere in casa, con i genitori, era il desiderio più semplice e scontato di un bambino, ma a lui non era stato concesso.”

La scrittura ha il tono della favola, intriso di stupore e di piacere, non nuovo in Sgorlon, ma qui assai più accentuato, e presente sin dal principio con l’arrivo incantato del forestiero. Alvar è un personaggio solcato dai fiumi meravigliosi della provvidenza, della fortuna, dell’altruismo, della serenità, ma anche del mistero. Tutto viene da lontano in lui. Le sue sorgenti sembrano risalire alla città di Praga da dove proviene, ma in realtà sono scritte nei segreti della creazione, in cui l’impossibile e l’invisibile si nascondono e convivono.

In paese capita un altro uomo sconosciuto, viene dal Sud, ha un carattere allegro, ma è assediato dalla miseria. Si chiama Edoardo, ha messo gli occhi sulla maestrina del paese, Rossana, anche se non ha mai un soldo in tasca. Alvar lo prende nella sua fabbrica, anzi spesso gli commissiona incarichi delicati e viene a sapere tutto di lui, e che ha tre sorelle fidanzate che non possono sposarsi per mancanza di dote. Edoardo, per vincere la sua miseria, gioca tutte le settimane al lotto nella speranza di cambiare finalmente il suo destino, ma son soldi buttati, finché non è Alvar ad incaricarsi di giocare per conto dell’amico. Vince così una somma enorme per quei tempi, che divide a metà con Edoardo. Le sorelle si sposano e Edoardo pensa che Alvar sia uno di quegli uomini, come Buffalo Bill, Houdini, Petrosino, Jack London, che sono nati per diventare un mito, “eroi veri e senza uguali.”

Già la storia degli stregoni conosciuti con il nome di “beneandanti”, che “portavano capelli lunghissimi e indossavano palandrane dai colori vivaci che scendevano fino ai piedi” e “Uscivano per le campagne di notte, con la luna piena, ululando come i lupi mannari”, ci avverte che siamo entrati in quella realtà fantastica, mai impossibile, in cui Sgorlon ci ha abituati ad immergerci, insieme con lui.

Come mai, si domanda Edoardo, senza farlo capire ad Alvar, nessun giornale ha mai dato la notizia di quella vincita così imponente, nonostante i numeri estratti fossero proprio quelli giocati dall’amico? Non può fare a meno Sgorlon di segnare i suoi percorsi narrativi coi sassolini colorati e multiformi della sua coinvolgente “magheria”. Come mai, scrive ad un certo punto, lo stemma della contessa Costanza Martinburgo, che vive a Naularo, ad Alvar era sempre piaciuto “fin da bambino.”?

Sembra proprio che Alvar sia un angelo piovuto dal cielo, un po’ come il Clarence de “La vita è meravigliosa”, il celebre capolavoro di Frank Capra, e tutto gli sia possibile. Del resto, accanto alla sua fabbrica ha adibito un capannone a sala cinematografica, e anche lui spesso la frequenta, ma ci va indossando degli occhiali scuri per non essere riconosciuto, giacché il suo piacere consisteva non tanto nel vedere il film in proiezione, bensì “nell’osservare l’allegria della gente e soprattutto dei bambini.” Sceglie il cinema, questa volta, il nostro autore, per suggerire l’arcano che vive intorno alla realtà manifesta: chi vedeva certe immagini “provava l’impressione di essere spinto fuori del tempo e dello spazio, in luoghi felici che mai avrebbe potuto raggiungere.” Sembra suggerirci, Sgorlon, che ciò che prima era frutto di una virtù sensibile appartenente a pochi privilegiati (Giuliano, Pietro, Simone, Emilio, Geremia, eccetera), la virtù, ossia, di percepire l’incorporeo e il fantastico, ora il cinema la mette a disposizione e alla portata di tutti, consentendoci, così, per qualche momento di essere contaminati dal mistero.

C’è una carrozza anche qui, come ne “La carrozza di rame”; anch’essa racchiude ricordi e visioni. Ha sugli sportelli quello stemma che ad Alvar era piaciuto “sin da bambino”: “una torre che sorgeva dall’acqua e svettava in un cielo intensamente blu.” Questa carrozza, un po’ sciupata dagli anni di inattività, appartiene alla contessa Costanza Martinburgo, una donna sui novant’anni, ancora alta, dritta e superba, “dal carattere robusto e indomabile”, che la custodisce nella rimessa della villa. La sua vita è stata travagliata, ha perduto un figlio, ed un altro non sa dove si trovi, e un nipote, Alvar Martinburgo, (sì, lo stesso nome di battesimo del nostro personaggio), anarchico, finì tanti anni prima, quando frequentava a Padova il terzo anno di ingegneria, sotto le macerie di un terremoto che aveva distrutto il carcere in cui era rinchiuso. Sgorlon ci lascia intendere che forse c’è qualcosa che lega la Contessa all’uomo di Praga: una provvidenziale parentela, forse?, ma ciò, anziché smorzare il nostro interesse, grazie alla magica virtù della sua parola, lo accresce. Ci lambicchiamo il cervello, infatti, inseguiti da tante ipotesi; avvertiamo di non essere lontani dalla verità, anzi, essa è piuttosto semplice e sotto i nostri occhi, ma Sgorlon ha già orientato abilmente la nostra attenzione, sospingendoci verso il momento in cui riusciremo a carpire nei gesti dei personaggi quel segno che disveli il mistero. Il passato, il fantastico, il mistero, appunto, ancora una volta alimentano e dànno il senso più vero e fascinoso alla realtà. Alvar se li porta dietro, intrecciati insieme, e si percepiscono solo se si ha la sensibilità giusta, come quella, per esempio, della Contessa, che lo costringe, nel momento in cui le chiede di poter comprare la carrozza, a volgere lo sguardo altrove, giacché “La contessa Costanza era dotata di troppa intuizione per non finire di scoprire chi lui fosse veramente…”

Quando, acquistata la carrozza, la rimette a nuovo e vi attacca “quattro cavalli lucidi, dal pelo rossastro”, “il cui mantello luccicava anche al lume di candela”, in paese tutti si domandano perché “aveva conservato lo stemma dei Martinburgo.” Non solo, ma si domandano anche da dove provengano tutti quei soldi che Alvar spende senza alcun risparmio: “Molti di più di quanto potevano rendere le sue sale cinematografiche.”

È il momento in cui Sgorlon davvero cerca di irretirci: “La carrozza di Alvar, con i fanali a candela e lo stemma dei Martinburgo sulle portiere, usciva spesso dalla rimessa e percorreva le strade silenziose della notte.” Senza che ce ne accorgiamo, l’autore soffia su di noi il vento delle leggende che animano le acque, i boschi, i monti, gli antri, i crepacci della sua terra. Noi vediamo questa carrozza che ha a cassetta Alvar e il suo amico inseparabile, Edoardo, “il suo apprendista stregone”, come lo definirà l’invidioso e circospetto Valerio, che corre nella notte col suo tiro a quattro, penetrando nelle oscurità del mistero. La vediamo correre e a poco a poco sparire, come avesse oltrepassato una barriera invisibile. Si è creata un’atmosfera che ci richiama alla mente “Il Maestro e Margherita”, il capolavoro di Michail Bulgakov, e Alvar Kunslica reca con sé qualcosa che appartiene anche a Voland.

La memorabile partita a poker, che vede alla fine ridotti a due i giocatori, Alvar e il conte austriaco Wilfred von Tures, gli porterà in dono lo sterminato “Bosco delle Agane”, che metterà a disposizione del paese, come avveniva ai tempi del Comune medioevale, affinché si possa raccogliere gratuitamente legna e fare il carbone. Le “agàne” sono ninfe, spiriti dei boschi che vivono nelle acque. Sgorlon ce ne parla qualche volta nei suoi romanzi, e una bella descrizione di esse si trova nelle prime pagine de “L’ultima valle”. Ne riporto un tratto per ricordarle al lettore: “Ma le acque erano soprattutto il regno delle agàne. Nel laghetto di Brandis si vedevano i loro capelli di colore verdescuro come gli abeti, mollemente agitati dalle acque lungo le rive. Esse uscivano dalle grotte e gli anfratti delle rocce, nelle notti di luna, vestite di bianco. Ballavano, ridevano, scherzavano come bambine, e poi si mettevano a lavare e a risciacquare grandi lenzuoli, che facevano asciugare sulle pietre.”

Quando Alvar, che si stava recando alla casa di Emilia, la madre “ancora molto attraente” di Rossana, cade nel bosco di acacie e batte la testa “contro un ciocco di albero tagliato”, e sviene, intorno a lui si radunano le urane, che sono una specie di corvi, di cornacchie, “uccelli molto prudenti”: “Le urane, che gracidavano nel vento, preludio di pioggia vicina, per un po’ tacquero, poi planarono una dopo l’altra accanto al corpo esanime.” Vedete come non ci si allontani mai da quell’atmosfera di “magheria”, cara all’autore. Stiamo leggendo una storia che è allo stesso tempo leggenda e favola, e siamo in attesa di una rivelazione, allo stesso modo che nelle fiabe succede al povero che si scopre figlio di re, la quale ci colmi l’animo di stupore e di incanto. Perché le favole, scriverà più avanti l’autore, come pure il mito, servono per interpretare il mistero e aderiscono “alla sostanza più intima” dell’uomo.

Arriva il Natale, l’inverno è assai rigido. Qualche giorno prima è giunta dal Sudamerica una strana lettera scritta dal figlio della Contessa, quello di cui non si sapeva più niente, e allegato alla lettera c’è un assegno con una cifra sbalorditiva, destinato a ricoprire di regali i bambini di Naularo, e a soddisfare i loro desideri. Subito Alvar si interessa personalmente della faccenda e per l’occasione mette in mostra la sua splendida carrozza, che lascia tutti col fiato sospeso. Stracolma di regali, “il giorno ventitré alle sette del mattino era già davanti al portone della scuola.”, e i bambini riflettono che “Era la prima volta nella vita che un loro sogno veniva realizzato senza alcuna difficoltà.” Pare di leggere Dickens. Insomma, ci si accorge che “l’inverno di Naularo era attraversato da qualcosa di speciale.” Sgorlon ci sta incantando, e sa che è il momento di pigiare sull’acceleratore. Dice la Contessa: “Mio figlio di Argentina non mi scrive da più di vent’anni. Deve essere morto da un sacco di tempo. Non può essere lui che ha mandato i pesos”. La domestica, la vecchia Sara, domanda: “E chi li ha mandati, allora?”. E la contessa non ha incertezze, risponde. “Il diavolo.” Ma Sara la pensa ben diversamente: “Perché il diavolo? Un angelo, casomai.” È una parte significativa di questa storia. Sullo sfondo si affaccia la guerra, altro tema ricorrente nei romanzi di Sgorlon. Essa si fa largo a poco a poco in un crescendo inquietante. È la stessa Grande Guerra che abbiamo incontrato ne “La carrozza di rame”. La Sala Olympia, un elegante locale posto vicino al confine e frequentato da italiani e austriaci, finirà per essere il simbolo di un passaggio epocale tracciato dalla guerra, a cui farà da contraltare, come espressione di un mondo nuovo, la Villa Martinburgo, allorché vi andrà ad abitare Alvar alla fine della guerra. A Sarajevo, infatti, sono stati assassinati da “uno studente serbo, Princip”, l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sophie. Le conseguenze si fanno presto sentire: “Sotto Natale tornarono molti emigranti dai territori d’oltralpe: dalla Slesia, da Praga, da Vienna, dai boschi della Transilvania, dai cantieri di Budapest o della capitale rumena […] I cantieri nei quali lavoravano erano stati chiusi per via della guerra.” È il principio di una catastrofe. Sgorlon non dimentica mai di sottolineare i guasti che ogni guerra inevitabilmente produce: “La guerra e la miseria erano grandi amiche e alleate tra loro. Dov’era la guerra, la miseria subito accorreva stridendo e agitando i suoi stracci.”

La vecchia Contessa (“la morte si era dimenticata di lei”) è essa pure una presenza che sotto altre vesti: Pietro (“Il trono di legno”), Zora (“Regina di Saba”), Domenico; Alessandro Fabris, detto il Cacciatore; Caterino (“La carrozza di rame”), Dunaika (“L’armata dei fiumi perduti”), Geremia; la Clautana (“Gli dèi torneranno”) e altri ancora, abbiamo già incontrato in Sgorlon: è la memoria del passato, che viene messo a confronto con un presente che non ha il profumo dell’antico, quando i contadini andavano a fare l’amore nei campi, poiché “Questa era una magia imitativa, che doveva aiutare i campi a generare e a far crescere le messi.” Ora i contadini non sono più gli stessi, sono attratti dalla fabbrica e reclamano diritti prima impensabili, allorché “Facevano festa assieme ai padroni”. Si ribellano ai padroni, scioperano, sfilano per le strade: “Ad Ancona, l’anno precedente, si era perfino versato del sangue in una breve guerra tra padroni e operai. Quel fatto veniva chiamato ‘la settimana rossa’”. Il progresso avanza a passi giganteschi e se rappresenta “un traguardo della scienza e della tecnica”, esso è anche “una sfida e una violazione delle leggi naturali.” La favola di Sgorlon ci rammenta che ancora essa deve faticare a conquistare il suo spazio; soffia come un vento tra le minacce di una realtà che ha bisogno di essere spogliata dalle sue miserie e dalle sue ambizioni per mettere a nudo il lucore di quell’unità universale cui appartiene.

Si tratta sempre di non dimenticare le proprie origini, le proprie radici; questo vale per la terra e la natura, e vale per l’uomo. Alvar, si verrà a sapere, è venuto a Naularo, poiché lì ha le sue radici.

Ma lì vive anche Emilia, la madre di Rossana, venuta dalla Francia, da Grenoble, piacente e chiacchierata, di cui un po’ tutti in paese, e non solo, sono infatuati. Ciò consentirà a Sgorlon di intessere un’avventura amorosa, così dimessa nei suoi romanzi, con tutti i crismi di un intreccio classico. Alvar è un po’ innamorato di lei, e vorrebbe aiutarla a saldare i suoi debiti enormi che ha nei confronti di Valerio, il ricco industriale di Naularo, il quale sarebbe disposto a restituire le cambiali firmate da Emilia solo alla condizione che divenga la sua amante. Farebbe anche di più; poiché da Cristina, la sua ricca e bisbetica moglie, non ha avuto figli, nominerebbe Rossana, la figlia di Emilia, sua erede universale. Tuttavia, mentre si sta giocando questa partita ed Emilia è turbata dalla proposta che coinvolge anche l’avvenire di Rossana, ecco che dalla Francia si fa vivo il suo ex fidanzato, Roland de La Seine, ufficiale dell’esercito francese, padre di Rossana, il quale annuncia una sua prossima visita. Viene subito in mente una coincidenza analoga che si verifica ne “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, allorché la GruÅ¡enka, all’improvviso, dopo tanti anni, riceve notizie di una sua visita dal fidanzato, un ufficiale pure lui, che l’aveva abbandonata.

Come pure ci ricorda lo Sherlock Holmes de “Il mastino dei Baskerville” di Conan Doyle, nella trasposizione cinematografica degli anni ‘40 ad opera del regista Sidney Lanfield, la mascheratura che assume Alvar allorché si reca alla locanda ad incontrare il contrabbandiere: “aveva assunto l’aspetto di un vecchio. Barba e capelli bianchi, andatura incerta, un bastone laccato di nero, col pomo d’argento, le scarpe con la fibbia e la voce tremolante e vellutata degli anziani.” È quasi in tutto simile a lui, se si eccettuino le scarpe con la fibbia e il bastone con il pomo d’argento, lo Sherlock Holmes interpretato magistralmente da Basil Rathbone, che percorre la brughiera, e perfino il suo fedele Watson, rappresentato dall’altrettanto bravo Nigel Bruce, non lo riconosce. Del resto, Alvar “Si stava affezionando a queste mascherate”, che sono proprio una delle passioni del famoso investigatore. Ma quanti altri ricordi!: Jean Valjean de “I miserabili” di Victor Hugo, Michael Henchard della “Vita e morte del sindaco di Casterbridge” di Thomas Hardy: uomini in fuga e braccati come Alvar, ammirati, dalla ricchezza misteriosa e incalcolabile, e forti e generosi; per non parlare di Edmond Dantès de “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre. E quando Alvar conduce Wanda, incontrata in una “maison”, a teatro, non vi torna in mente la protagonista di “Nanà”, lo straordinario romanzo di Émile Zola? In poche righe quanto sono sollecitate la nostra memoria e la nostra fantasia! Sì, tanta parte della letteratura dell’Ottocento è stata racchiusa in un tratto di penna. Valerio, vinto dall’invidia e dalla gelosia, si trasforma in una specie di Javert che va alla caccia di Jean Valjean. Qualcosa riesce a sapere, inviando un compagno a Praga, nel palazzo dei Kunslica, il quale, fingendosi amico di Alvar, interroga la vecchia governante. Pur venendo a conoscenza di fatti notevoli sulla vita di Alvar, tuttavia Valerio ancora non riesce a spiegarsi la “strepitosa ricchezza” accumulata dal rivale. Ci deve essere qualcos’altro. Dopo averci rivelato l’identità di Alvar (che lasciamo scoprire ai nostri lettori, ai quali l’autore farà conoscere a poco a poco, con abile e sapiente gradualità, il passato avventuroso del protagonista), ecco che Sgorlon passa da un mistero all’altro, sicuro di non consumare se non una soltanto delle numerose carte da giocare. In questo libro, sembra che egli voglia misurare in questo modo le sue capacità di affabulatore, nella sfida con se stesso di riuscire a tenere legato a sé il lettore nonostante che sveli anzitempo uno dei principali assi nella manica, che avrebbe trattenuto e fatto gola a chissà quanti altri narratori. Non dimentichiamoci, poi, che ci ha lasciato in attesa di quell’ufficiale francese, Roland, che già prima di comparire ha creato intorno a sé un’attenzione quasi morbosa, e che quando si presenterà creerà per noi ulteriori motivi di curiosità, altrettanto che la ricchezza smisurata e misteriosa di Alvar, per la quale Valerio pensa a forze occulte e terribili che assistono il suo nemico, dotato, fra l’altro, di una terrificante forza fisica, di cui si accorge, suo malgrado, chi si trova a fare i conti con lui: “Sembrava non una creatura in carne e ossa, ma la sua proiezione cosmica.” Riguardo alla propria ricchezza, Alvar dirà: “Sono solo un uomo molto ricco. Tanto ricco che mi posso permettere, certe volte, di sciogliere i nodi della fortuna. Anche quelli più aggrovigliati.” Sgorlon, dunque, si cimenta in una storia colma di misteri e di sentimenti, intricata, un po’ alla Stendhal e alla Dumas, lontane le atmosfere rarefatte de “Il trono di legno” e degli altri suoi romanzi immediatamente successivi, anche se esse ogni tanto si presentano con la loro magia; ma l’autore sta misurandosi con qualcosa di diverso, meno mitico e più legato alla realtà, e, qui, il mistero che avvolge più strettamente Alvar non è tanto chi egli sia veramente, ma la smisurata ricchezza, di cui non si riesce a sapere nulla, se non alla fine. Perfino Emilia penserà che egli sia ricco “in modi inverosimili, innaturali, fuori da ogni consuetudine ed esperienza.” Forse è un mago? Un alchimista che è riuscito a fabbricare l’oro? Torna di nuovo in Sgorlon, dunque, la sfida con se stesso, come già era accaduto con il romanzo precedente: “Il taumaturgo e l’imperatore”, nel tentativo, riuscito, di introdurre fascinosamente la sua “magheria” in una storia intrisa di romanticismo e di buoni sentimenti. Poiché l’autore non è più così giovane, classe 1930, ci stupisce e ci esalta questa sua vitalità creativa, ma soprattutto questa continua sfida a se stesso, che è segno dell’appartenenza ad una razza di narratori purissima e forse ormai assai circoscritta.

Pensate che, pur avendoci da tempo svelato la vera identità di Alvar, egli saprà trasformare questa rivelazione in un’inquieta metafora dell’esistenza, e la ricchezza “leggendaria” di Alvar, al pari dell'”affaire Dreyfus”, in una lezione della storia, ma soprattutto mostrarci che un destino mutevole e imperscrutabile regge la vita di ogni uomo, allo stesso identico modo in cui regge la terra, che altro non è che “una sorta di navicella di salvataggio, una zattera, la cui orbita attorno al sole e il cui spostamento verso la costellazione d’Ercole non era che un perenne, infinito naufragio dentro il mare del tempo e dello spazio.” Proprio come Alvar, che non riesce più a recuperare la sua vera identità e “aveva nostalgia di essere se stesso.” Quando le prime avanguardie del fascismo si accaniscono contro di lui, padrone diverso dagli altri e sensibile ai temi della giustizia sociale, egli sa che uno “sparo sarebbe stato l’ultima cosa che avrebbe sentito sulla terra.”; e la sua vita, così follemente legata ad un ideale, sarebbe stata votata forse al fallimento, giacché “Una parete di carta divide l’essere dal non essere, la pace dalla guerra, la vita dalla morte. Bastava un fatto più lieve dell’ala di una mosca per modificare la sorte di chiunque.”

“Il taumaturgo e l’imperatore” (Marco d’Europa)

Mondadori, pagg. 236. Euro 8,40

Non si sottrae Sgorlon al fascino di ricostruire la storia di un personaggio friulano vissuto nel XVII secolo, al tempo dell’invasione dei turchi, che aspiravano a conquistare l’Europa cristiana ed erano giunti alle porte di Vienna. Il personaggio è padre Marco d’Aviano, “che da laico si chiamava Carlo Cristofori”, e l’autore è venuto a conoscenza delle sue gesta da un padre cappuccino, il dottor Venanzio Renier, che lo invita a scriverne la storia. Premette Sgorlon, significativamente: “Io ero molto perplesso […] Però un narratore è anche un artigiano, un professionista, e deve saper raccontare qualunque storia, anche quella di un santo. In certo modo mi sentii sfidato, e così decisi di accettare.”

Suonano in tutti i villaggi le campane a martello. La gente è appena andata a dormire e subito si riveste alla bene e meglio “infilando le brache da lavoro, ancora impataccate di terra” e scende nelle strade e nelle piazze. Questo succede anche nella cittadina friulana di Aviano, da dove si diparte la storia. Cosa è e cosa non è, finalmente arriva un carretta guidata da un contadino tutto trafelato e si viene a sapere ciò che si temeva: stanno arrivando i turchi! “Teste mozze rotolarono e furono infilate sulla cima delle picche, tra urla di terrore. Anche vecchie donne furono scannate, mentre le giovani furono rapite, per essere vendute sui mercati d’Oriente.”

È un’epoca tristissima quella in cui ci si avventura, giacché l’Europa è funestata dalla guerra, “una strega scrofolosa e urlante che non si addormentava mai del tutto.”: guerre di religione e guerre tra stati per l’allargamento dei propri confini.

Carlo Cristofori, che diventerà poi padre Marco d’Aviano, nasce circondato da atmosfere cupe, in una famiglia molto agiata, con il padre Marco che era un mercante “molto conosciuto” e il cui nome “era molto rispettato in tutta la zona”, e la madre Rosa donna religiosissima: “La misericordia divina era un punto fermo nelle convinzioni di Rosa Zanoni.”

Uno zio paterno, Cristoforo Cristofori, era parroco di San Leonardo. In quel tempo erano fresche nella memoria del popolo le imprese dei turchi che avevano razziato e ucciso dappertutto. Ancora si raccontava delle loro crudeltà. Padre Mariano, un frate cappuccino capitato durante la quaresima a predicare nella piazza del paese, gremita fino all’inverosimile, invitato a casa dei Cristofori, davanti al piccolo Carlo “parlò dell’assalto a Cipro, avvenuto settant’anni prima, e del terribile assedio subito da Famagosta”, città nella quale “la ruota del supplizio era stata installata sulla piazza principale” e “Marcantonio Bragadin era stato scuoiato con affilatissimi coltelli dal carnefice”. Sgorlon disegna in questo modo l’atmosfera in cui il ragazzo cresce, infervorato dalla religione e dal desiderio di adoperarsi pure lui per sconfiggere l’avanzata di un popolo, quello turco, capace di tali nefandezze. Si stupisce che tra i tintori che lavorano nella fabbrica, suo padre prediliga nientemeno che un turco, AbÅ«’l Kahyz, (“che non era turco, ma curdo”), il quale aveva “cicatrici sul petto e sulle braccia”, ed era “sempre un grande nemico della cristianità”. Ma per il padre, AbÅ«’l era un buon tintore, che conosceva molti segreti del suo mestiere, e “questo bastava al padrone.”

Invece Carlo, in un viaggio che fa col padre a Venezia, nota che la città “era un piccolo fiume di persone che venivano dalle terre del turco, anche se non erano turche loro.” e teme che sia, dopo la sconfitta subita dai turchi a Lepanto, una nuova forma di invasione e di conquista: “I nemici erano entrati in città in modi del tutto pacifici, senz’armi, né assalti, con il sorriso sul volto e senza mascheramenti di sorta.” È in corso anche la guerra dei trent’anni (1618-1648), che vede l’impero asburgico, difensore della cattolicità, combattere contro i francesi, desiderosi di primeggiare in Europa, e nel collegio dei Gesuiti, dove Carlo è andato a studiare, molti compagni, rampolli di nobili e ricche famiglie, nascostamente parteggiano per questi ultimi, destando meraviglia e incomprensione nel giovane, la cui attenzione, tuttavia, è rivolta soprattutto verso l’impero ottomano il quale, profittando delle guerre in corso tra gli stati cristiani, aveva ricominciato il suo assalto alle fortezze veneziane, tra le quali, quella dell’isola di Candia, il cui mare una mattina è funestato da un numero impressionante di fuste e sciabecchi “che issavano la bandiera della mezzaluna”. Non ha altro modo di raggiungere Candia per arrecarvi il suo personale soccorso se non quello di farsi frate cappuccino, e così, avuto il consenso dei genitori, si ritira nel convento di Conegliano, affidato al “Maestro dei novizi”, “padre Bernardo da Pordenone, un vero uomo di Dio.”, ed è qui che assume il nome con cui sarà conosciuto: padre Marco d’Aviano. L’impero ottomano è visto come l’impero di Satana: “il vero dominatore non era Maometto IV, del resto ancora giovanissimo, ma Satana medesimo.”, “perché i turchi nient’altro sapevano progettare che l’invasione, il massacro e la diminuzione del regno di Cristo.” Di fronte ad una cristianità disorientata e divisa, in un secolo devastato da guerre di religione e di potere, sta, dunque, un popolo compatto e deciso, quello dei turchi, “eterni padroni della guerra”, che “sognavano un impero i cui confini coincidessero con quelli del mondo.” Sgorlon ricostruisce la storia e il clima di quegli anni con assoluta precisione e maestria, mettendo a disposizione di fatti realmente accaduti la sapienza del suo narrare. Così, se negli altri romanzi, noi abbiamo assistito al dispiegarsi della sua fantasia nella costruzione di una trama volta a rappresentare il destino dell’uomo sempre circondato dall’arcano e sottoposto ad eventi che stanno al di là dei confini conosciuti di spazio e di tempo, qui egli ricerca negli stessi fatti accaduti la vocazione di un destino ineluttabile. La vita di Carlo Cristofori ci appare come segnata e predestinata, allo stesso modo di quella del Sansone biblico che “aveva scosso le colonne del tempio di Dagon, trascinandosi dietro nella morte anche centinaia di filistei.”

Sono i motivi che già ci hanno affascinato nei precedenti romanzi di questo autore: “lui viveva soltanto perché Dio l’aveva pensato e amato, perché in Dio pensiero e amore erano il profilo di un’unica realtà.” Le scoperte scientifiche che si andavano facendo in quegli anni, provavano che esisteva “uno spazio sterminato e un giro sconfinato di mondi celesti. Dopo il sole e i pianeti dovevano esserci altri soli e infiniti pianeti.” Padre Marco comincia la sua vita di predicatore e ad ascoltarlo vengono in molti, attratti dalla sua facondia, o meglio dalla sua “potenza evocativa”. Anche lui è, dunque, un raccontatore, come ne abbiamo già incontrati in Sgorlon: “non era un parlatore raffinato, prezioso e concettoso, ma di genere popolare.” Ha modo di ricredersi sul padre e ora capisce che teneva il fedele AbÅ«’l, come altri di razze diverse, “perché li giudicava uomini come gli altri.” Sono gli anni della sua formazione e del cambiamento. Candia ha dovuto arrendersi all’assedio dei turchi, il mondo pare sconvolto, e sempre di più Marco si sente attratto dal pensiero che è “l’immensitudine non misurabile di Dio a prevalere su ogni cosa.” e Dio è “il maggiore dei misteri e dei possibili incanti.” Si avvale delle cupe immagini della morte per conquistare lo spirito degli ascoltatori, e ancora una volta la tenebra di colei che non poteva esistere senza la vita, torna a suscitare meraviglia e sgomento negli uomini, giacché senza la morte “la vita stessa perdeva ogni senso.” Sgorlon rende tutto ciò con fascinosa partecipazione, suscitando in noi, ancora una volta, come ne “La carrozza di rame”, il ricordo di quel grande capolavoro di Ingmar Bergman, “Il settimo sigillo”. La vita di padre Marco ha uno scopo ben preciso; cominciano a mostrarsi e confermarsi in lui i segni di una predestinazione. Inviato a predicare in luoghi diversi e lontani, in tutti accende entusiasmo e fervore religioso. Alcuni fatti miracolosi avvengono per il suo tramite e lui stesso non sa capacitarsi del perché: gli stessi gesti compiuti tante altre volte, ora, all’improvviso, si tramutano in una energia guaritrice. È un taumaturgo: “Ciò che aveva notato in sé, ambedue le volte, era stata un’emanazione di energia, una vampata di calore, una lingua di fuoco che aveva attraversato le sue braccia e le sue mani.” Per altre vie, rispetto ai precedenti protagonisti dei romanzi di questo autore, padre Marco è anche lui, comunque, portatore di quel mistero onnipresente che lega l’indefinibile alla realtà. Le guarigioni che va compiendo sono la manifestazione di una energia portentosa che certamente deriva da Dio, ma nel contempo rivela l’infinitudine e il mistero della Creazione. Attraverso i prodigi di padre Marco, Sgorlon, nel momento in cui ci fa entrare nelle umili case dei miracolati, o sostare lungo le strade, o visitare le lussuose dimore di Venezia e delle famiglie regnanti, compie un legamento indissolubile tra la realtà misurabile e l’infinito, tra ciò che cade sotto i nostri sensi e ciò che solo possiamo appena percepire come avanguardia di un mondo che sta oltre e che non può che confonderci e smarrirci: “Molteplici sono i desideri dell’uomo, ma il massimo è senza dubbio quello di stabilire un contatto con il mondo invisibile. Marco pareva possedere quel contatto.”

Il disegno turco di abbattere la cristianità, di “trasformare la basilica di San Pietro in una grande moschea turca, ossia di avere tutta l’Europa ai suoi piedi”, continua ad assillarlo come tanti anni prima. I turchi sono arrivati ad impadronirsi di interi stati e, sotto il comando del feroce Kara Mustafà “il Nero”, che voleva fare dell’Europa “un continente turco”, e con le ambizioni del gaudente Maometto IV (soprannominato Maometto il Cacciatore) che, rivelatosi in realtà assai deciso e spietato, “sognava di passeggiare un giorno nei viali della reggia che il Re Sole stava costruendosi”, la loro minaccia si è fatta ancora più terribile. E l’Europa come reagisce? Non reagisce; conclusa la guerra dei trent’anni, ancora è occupata nelle lotte intestine, consunta dalle invidie e dalle gelosie tra gli stati più importanti. Il Re Sole sta combattendo gli ugonotti per convertirli al cattolicesimo con una tale violenza da ricordare quella dei turchi.

Padre Marco è contrario alla crudeltà e alla guerra, ma “sapeva benissimo che l’unico rimedio all’avanzata dei turchi era l’uso della spada.”

L’imperatore che incontriamo nel titolo, con il quale è destinato ad incontrarsi, è Leopoldo I d’Asburgo, “il sacro romano imperatore tedesco” che, dopo il Pontefice, “Era la suprema autorità politica del mondo.” Lo manda a chiamare dalla residenza di Linz, dove si è ritirato, essendo la capitale, Vienna, colpita dalla peste. La sua vocazione era quella di diventare un prete, ma la morte del fratello Giuseppe, lo aveva fatto togliere dal seminario per salire sul trono. Ora è affranto dal rimorso di non poter condividere la sorte dei suoi connazionali residenti a Vienna e di essere stato costretto dalla sua carica a lasciarli soli di fronte al pericolo della morte. Anche riguardo alla minaccia dei turchi, il suo primo moto è stato quello di cercare di “chiudere gli occhi e di convincersi che essa non esisteva”, “Il suo tormento era quello di non essere all’altezza della carica.” Lo angustia altresì il trovarsi sempre in conflitto con la Chiesa di Roma, lui, imperatore dello “stato più cattolico d’Europa.” Nel contempo, il superbo e ambizioso Re Sole continuamente trama contro di lui in modi sempre più insidiosi, al fine di scalfirne l’autorità ed incita i turchi a non temere gli Asburgo. Finalmente la Provvidenza fa incontrare il taumaturgo e l’imperatore cattolico. Si sentono subito a loro agio. Padre Marco si rende conto degli intrighi dei cortigiani, volti solo a curare i loro interessi, e delle debolezze caratteriali dell’imperatore, mal consigliato. Non si può stare inerti, la prima cosa da fare è muovere guerra ai turchi, arrestarne la tracotanza, tutto il resto si sarebbe aggiustato di conseguenza. È l’insistente consiglio che rivolge al sovrano. Lungo il percorso di padre Marco e di padre Cosma, che lo segue come un’ombra e tiene un diario di viaggio in cui annota soprattutto i molti prodigi del compagno, incontriamo brani di storia sia civile che religiosa che fanno costantemente da sfondo, ed anche da richiamo, e nelle cui trame Sgorlon si muove in modo tale da suscitarne la malia. Personaggi storici che appena compaiono, o ambienti, come quelli delle varie corti di regnanti e di principi in cui si trova a predicare, o città e villaggi attraversati, con pochi tratti di penna assumono vita propria, al di là del narrato, ed il lettore ritrova lo sviluppo della vita di quegli ambienti e di quegli uomini nella propria sollecitata fantasia. Non è qualità di poco conto. Un modo, ossia, di moltiplicare la propria scrittura in infinite altre storie non narrate ed invisibili che hanno in sé il germe della creazione, che si insinua e si sviluppa nella nostra fantasia. L’invisibile che Sgorlon ha sempre posto accanto alla realtà, con un potere di suggestione infinito, in questo romanzo – dal grande e sontuoso affresco che spazia su tutta l’Europa di quel tempo, con il sapiente innesto di particolari che denotano una sicura competenza e una preparazione puntigliosa – si trasferisce nella scrittura, nel rapporto tra narrato e non narrato, il quale ultimo non abbandona mai il primo, arricchendolo in ampiezza e, meglio ancora, in “infinitudine” e “magheria”.

La minaccia turca si fa di giorno in giorno più sfrontata, finché Maometto IV invia una lettera a Leopoldo I annunciandogli che di lì a poco sarà a Vienna ” dove gli avrebbe fatto il servizio di tagliargli la testa”. Il vecchio sogno di padre Marco di arrestare l’avanzata dei turchi forse è per realizzarsi. Anche il Papa Innocenzo XI alza la sua voce perché si formi una Santa Alleanza, un’altra Lega Santa, così com’era accaduto a Lepanto. Marco non può restarne fuori. Si sente predestinato a quell’evento straordinario. Sgorlon costruisce le pagine imponenti, epiche, che ci aspettavamo, così come si era già visto ne “L’armata dei fiumi perduti” allorché ci aveva narrato lo scontro tra cosacchi e partigiani, e quel rullare dei tamburi nel momento in cui l’armata turca, levate le tende, si accinge ad avanzare, sembra risuonare non solo nello stretto spazio di una pianura, prima quella ungherese e poi quella austriaca, ma per tutta l’Europa. Come al comando dei turchi sta il feroce Kara Mustafà, così l’esercito cristiano è guidato dal valente Carlo di Lorena, ma il suo compito è arduo. L’imperatore è impaurito, fugge da Vienna, e sul suo esempio, la città è abbandonata in tutta fretta da chi può farlo, disponendo di denaro e di carrozze. “Qualcuno ricordava il martirio di Marcantonio Bragadin, spellato vivo sulla piazza di Famagosta, dopo la sconfitta di Cipro.” Di lì a poco Vienna cade sotto assedio, ed è a questo punto che l’imperatore avverte il bisogno di avere al suo fianco padre Marco; ma non solo lui, lo stesso Carlo di Lorena e tanti altri riconoscono che vi è la necessità che nei soldati cristiani si accenda il fuoco del suo carisma. Lo chiamano e il frate cappuccino accorre. Non è a Candia che si dirige, che era stato il suo desiderio da ragazzo, ma a Vienna, la città più importante della cristianità, la cui caduta avrebbe significato il dominio su tutta l’Europa dei turcomanni. Il Papa stesso “gli aveva ordinato di partire con ogni mezzo, perché a Vienna serviva la sua presenza.” Sgorlon sfodera qui le sue avvincenti risorse di grande narratore. Padre Marco in qualche modo riesce ad avvicinarsi a Vienna assediata e subito la sua presenza è percepita dai soldati come un evento destinato a dare loro la vittoria. Si stanno radunando, infatti, altri rinforzi provenienti dalla Baviera, dalla Sassonia, dal Palatinato e perfino dalla Polonia alla testa del valoroso re Janos Sobieski III, che pretende il comando generale, sostituendosi a Carlo di Lorena. Leopoldo I è di nuovo rifugiato nella sua residenza di Linz, ma è pronto ad assumere lui il comando, se non vengono sedate le rivalità. Sarà padre Marco a conciliare le ambizioni dei due comandanti. Sgorlon ci fa entrare nel bel mezzo della guerra: i turchi sono riusciti a conquistare “alcuni baluardi e bastioni”, la città è colpita da un’epidemia che la sta decimando, mancano acqua e viveri. Lo stesso Re Sole, che tanto aveva brigato perché i turchi invadessero l’Impero, ora teme che la guerra travolga lui pure, insieme con l’Europa. L’azione di convincimento e di incoraggiamento svolta da padre Marco si riverbera su tutti, sulla truppa come sui comandanti. Si comincia a parlare di lui come di un nuovo Pietro l’Eremita, “che aveva sostenuto il morale dei soldati alla prima crociata”, o di una Giovanna d’Arco. Sgorlon si sofferma su questa cruenta pagina di storia, giacché ne vuole evidenziare tutta l’importanza per il destino dell’Europa: “Tutti capirono che l’assedio subito da Vienna era uno dei più pericolosi che si fossero mai verificati nella storia dell’Occidente, perché esso avrebbe segnato il destino stesso di tutta l’Europa.” Come nel 732 d.c., con la battaglia di Poitiers, si era scongiurato che l’Europa diventasse araba e maomettana, così in quell’ultimo scorcio del 1683, la vittoria della cristianità avrebbe impedito che l’Europa diventasse un continente turco. Un nuovo spirito di crociata pervade l’esercito cristiano che si sta muovendo in soccorso di Vienna, e si è consapevoli che tutto ciò va ascritto al merito dell’uomo di Dio, ossia di padre Marco e del suo fervore taumaturgico. Dall’alto della collina di Kahlenberg, egli mostra agli eserciti che stanno combattendo la croce di Cristo “brandita verso il cielo, come una lancia di forma inusitata.” È il 12 settembre del 1683, quando Vienna è liberata e il terribile Kara Mustafà fugge a cavallo determinando la rotta dei turchi, che “andò ingrossandosi e divenne un’alluvione.” Ma ancora una volta, dopo la vittoria, gli stati cattolici prendono a contendersi tra loro, soprattutto contro la Francia e la Spagna, divenute sempre di più intriganti e dispotiche, e così la guerra contro i turchi, rifugiatisi in Ungheria, tarda a riprendere, con rammarico di padre Marco, che continua a vedere in loro il maggior nemico della cristianità. Le truppe cristiane si abbandonano al saccheggio e alle violenze nei confronti dei villaggi ungheresi, preoccupate di rifornirsi di cibo che la mancanza di adeguati finanziamenti da parte del Papa rende insufficiente. Lontano è il pensiero dei comandanti di affrontare con un attacco decisivo i turchi, rinserrati nella robusta fortezza di Buda, al di là del Danubio. Sarà ancora l’opera instancabile di padre Marco a consentire nuove avanzate e nuove conquiste, ma allorché Carlo di Lorena, per ragioni di salute, è sostituito al comando dell’armata da Luigi del Baden, il quale ritiene i turchi ormai “travolti da un destino storico irreversibile” e che la vera minaccia è rappresentata dal Re Sole, e allorché muore Papa Innocenzo XI e sale al soglio pontificio Alessandro VIII, che interrompe del tutto “le generose sovvenzioni del passato”, il sogno di Marco si dissolve. Ora è contro la Francia che si costituisce la Lega di Augusta, ossia la cristianità si scanna al suo interno per le solite insaziabili ambizioni e gelosie, così perverse da riuscire a provocare perfino un nuovo attrito tra l’imperatore cattolico e il Santo Padre. Nessuno come l’imperatore Leopoldo ha avvertito l’amicizia e la grandezza di padre Marco. Alla sua morte, che avviene a Vienna, dove il frate cappuccino si trovava per servire ancora una volta Leopoldo, riuscendo a riconciliarlo col Papa, vuole che tutta Vienna, dal popolo alla nobiltà, renda omaggio al corpo del taumaturgo, che sarà poi sepolto nella famosa cripta dei cappuccini, accanto ai sarcofaghi borchiati e di metallo scuro degli imperatori d’Asburgo. Al momento della traslazione “Tutte la campane di Vienna suonarono a festa.”

“L’armata dei fiumi perduti”

Mondadori, pagg. 312. Euro 7,23

Un’anziana ebrea russa, Esther Heshel, fuggita dalla sua patria al tempo della rivoluzione bolscevica, se ne sta rintanata in una villa acquistata in un piccolo paese di montagna, nel Friuli, di cui significativamente non si conosce il nome, giacché quella villa e quel paese diventeranno un simbolo ed un approdo per tanti disperati. Marta, la domestica – siamo al tempo della Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943 – la rassicura che la guerra sta per finire, e quindi stanno per finire anche i pericoli per la sua razza, ma Esther ha “la sensazione continua di essere spiata, ricercata”. Non avrà tutti i torti, vedrete. I tedeschi di son fatti rabbiosi e violenti. I treni diretti in Germania sono pieni di zingari e di ebrei. Marta, restata a custodire la villa insieme con Anita, una giovane meridionale, il cui fratello Arturo, fidanzato di Marta, è stato inviato in Russia e lo si crede morto o disperso, dà rifugio ad Haha, un vecchio zingaro scampato ai rastrellamenti. Chi osserva i fatti ed agisce come dominante in questa storia, dunque, è una donna, a differenza di altri romanzi di questo autore che hanno come protagonista soprattutto uomini; allo stesso modo che, nella guerra partigiana che comincia ad intensificarsi, troviamo anche capi che sono donne, come Sonia, e pareva, come scrive Sgorlon, che “fossero uscite dalla consueta figura di madri e di mogli, tutte dedicate ai lavori casalinghi, per imbracciare le armi anche loro, e stare accanto agli uomini.” Marta sente “di appartenere a un modello di donna senza tempo, destinata in eterno a sanare come poteva le ferite della guerra.” E ancora: “Per lei, gli uomini che combattevano, vinti o vincitori, invasori o invasi, erano sempre degli sconfitti, perduti in illusioni strane e senza fondamento. Lei l’aveva capito da tempo, ma gli uomini no.”

Succede che i tedeschi per snidare i partigiani fanno venire dalla Polonia, dai Balcani, ma anche dalla Siberia, i cosacchi, un popolo guerriero rimasto fedele allo zar e che vede nella rivoluzione bolscevica un tentativo di “modificare in profondità il popolo più libero e fiero della terra”; così per tutto il Friuli giungono carrette “ricoperte di pelli o di teloni, come quelle dei coloni del Far West”, trainate da stalloni “enormi e tranquilli”, cariche di cosacchi dalla pelle spesso “giallastra, gli occhi orientali, le guance grigie di barba, i piccoli colbacchi scuri gettati all’indietro, sulla nuca, o berretti più leggeri e adatti alla stagione.” Alcuni prendono alloggio nella villa abitata da Marta, che si trova così la casa piena di gente. Ma non si rattrista, anzi è contenta. Le è sempre piaciuto avere attorno a sé persone a cui attendere. È anche “una donna facile da avere”.

Sgorlon, in una nota, dichiara il proprio tributo al romanzo di Leone Tolstoj: “I cosacchi”, in cui questo popolo, per l’eccellenza del grande autore russo, viene avvolto da un alone di leggenda, come del resto accade pure nell’altrettanto luminoso e celebre racconto di Gogol: “Taràs Bùl’ba”; tuttavia, anche Sgorlon, evocatore del mito come pochi, sa trattare la materia con eguale maestria ed incanto e Gavrila, Ghirei, Urvàn, il piccolo cosacco Luca, Burlak, il “circasso fortissimo e grande”, “nato per la guerra”, il vecchio tartaro Akmekkahn “splendidamente asciutto, arzillo e allegro”, si rivelano personaggi di grande suggestione. La trasformazione del villaggio in una “stanitÅ¡a” cosacca avviene gradualmente, con un’attenzione accurata alle usanze di quel popolo che via via vengono introdotte e che si riflettono presto in una nuova condizione di vita anche dei friulani: “Pareva che nel villaggio, e in tutti i villaggi e le vallate di Carnia, un incantesimo strano avesse trasportato di peso i colori, gli odori e gli oggetti del paese dei cosacchi.” Numerosi i particolari messi in risalto, quale ad esempio questo, a proposito della religiosissima Dunaika, la madre di Ghirei: “Per i morti del bombardamento non faceva che pregare e tracciare infiniti segni di croce con le dita raggruppate a mazzetto.” Sgorlon ne approfitta per tornare a deprecare la guerra – costante presenza in un modo o nell’altro nei suoi romanzi -, descritta qui con gli occhi di un popolo che si trova nella duplice condizione di vittima e di oppressore, in una pagina di storia vera, localizzata in quel lembo d’Italia di cui Sgorlon è un testimone illuminato, attento e coraggioso, e forse poco conosciuta, ma che si eleva a simbolo delle assurdità e delle follie della guerra. I cosacchi, infatti, cacciati dai “Rossi” dalla loro patria, attendono il momento del rientro. I tedeschi, a cui si sono alleati nella speranza di poter riprendere la loro terra, li considerano, però, degli inferiori e li tengono occupati a combattere i partigiani della Carnia. Essi avvertono, così, che non c’è poi tanta differenza tra loro e i partigiani, anch’essi impegnati a scacciare l’invasore; preferirebbero, perciò, essere impiegati in una vera e propria guerra contro i bolscevichi. Non corre buon sangue tra cosacchi e tedeschi: il momento del loro impiego, che sognano sotto il comando del leggendario, ma vecchio e stanco Krassnov, tarda ad arrivare e covano nei confronti degli alleati sempre più diffidenza e rancore. Riuniti la sera intorno ai bivacchi, nelle loro canzoni (tra cui i “dumy epici che parlavano di disfatta e di morte”) e nelle storie che si raccontano, ritornano “i nomi delle loro stanitÅ¡e abbandonate, delle località nella steppa e nelle Terre Nere, e dei loro fiumi perduti.” C’è uno scandaglio riuscito dell’anima cosacca. Il vecchio tartaro Akmekkahn, “che sembrava tagliato soltanto per la festa e la gioia, ad un certo punto s’infilava nella gola stretta della tristezza.” Pensava “che il ‘kazàk’ aveva soltanto nemici, i partizany, i tedeschi, i Rossi, gli Alleati, le malattie, i pidocchi, la fame, e dappertutto gli sparavano a tradimento e gli tendevano agguati.” Così è anche per gli altri: “Urvàn aveva un’anima slava e cosacca, con dimensioni vastissime, carica di rimpianti enigmatici e di sconfinate nostalgie.” È la malinconia di un popolo nomade, costretto dal destino a perdere continuamente la sua patria, che si porta sempre dietro “nelle lunghe peregrinazioni”, impressa e accarezzata nella memoria: “il kazàk, quando era sconfitto, abbandonava la propria terra e se ne andava altrove. Quello era il suo costume e la sua tradizione.” Si tratta di un popolo dalle molte etnie, ma compatto e solidale: “I tartari e i circassi per esempio erano più selvaggi degli altri, più inclinati all’orgia, al saccheggio e alla rapina. Ma anche quelli erano kazàk”. La forza del passato transita nel romanzo attraverso questo popolo, e la stessa Marta, che parla il russo per essere stata al servizio dei suoi padroni deportati, gli Heshel, ne è avvinta, fino al punto che si riflette tra la più anziana Dunaika e Marta un reciproco comune sentire, e soprattutto il convincimento che “lo spirito dell’uomo era fatto per la pace, la tranquillità, la vita di tutti i giorni”.

Insieme con la coralità dei due popoli, sono le donne tra le interpreti principali di questa storia; i pensieri e i sentimenti, che pur non mancano negli uomini, specialmente nel cosacco Urvàn, si elevano per il loro tramite e diventano lezione della storia, congiunzione di realtà e istinto, di ciò che è concreto e di ciò che si percepisce ed è insondabile. Avevamo già visto, ne “La carrozza di rame”, la scelta nuova di Sgorlon di distribuire il fascino e la magia della parola sul conto di più di un narratore. Questa scelta si ripete qui. Molti cosacchi, da Gavrila a Urvàn, da Ghirei al cuginetto Luca, a Dunaika, e così via, sono raccontatori. Il piccolo Luca “quando si metteva a raccontare a sua volta le favole che gli aveva narrato Dunaika, imitava il sussiego del principe, l’astuzia guardinga del ladro, la parlantina del venditore ambulante, o l’allegria festaiola e canterina del vagabondo.” Perfino all’indomani della epica e tragica ritirata, narrata in pagine memorabili, allorché i superstiti accendono i fuochi dei bivacchi “Fiorivano i racconti”. È attraverso il raccontare che scorre l’anima di un popolo. Più ancora che nelle cose materiali, nei segni visibili, ossia, è nella parola, quella non scritta soprattutto, che si tramanda la complessa identità della vita, nella quale, ad esempio, la bellezza e l’amore non conoscono freni di razza e di condizione, e nemmeno i venti freddi della guerra riescono a cancellare. Alda è una ragazza friulana di rara bellezza. Il giovane Ghirei, “che era molto bello”, ne è invaghito e cerca in tutti i modi di attirare la sua attenzione: “Talvolta quando la strada era deserta e sgombra di neve, spuntava in fondo alla borgata col cavallo lanciato in corsa. Com’era vicino alla sua finestra, smontava dall’animale, lo seguiva per pochi passi, tenendosi afferrato alla criniera, e risaliva in groppa con la destrezza dell’acrobata.” La guerra è così, per un attimo, lontana, domata, e la sovrasta la parte più bella e incantevole della vita. Per un attimo, tuttavia, giacché “la guerra era il trionfo della morte.”

Anche Urvàn ha simpatia, ricambiata, per Marta. Spesso considera che “C’era affinità tra la sua e quella gente, invasa e rapinata da loro.” Così a poco a poco prende forma il convincimento che “c’era qualcosa di stridente e di falso nel fatto che il Kazàk fosse venuto a invadere le terre di un altro popolo.” Perfino il vecchio e duro Akmekkahn, davanti al plotone di esecuzione “avvertì che c’era negli uomini qualcosa di comune e di universale, che tendeva alla pace e alla vita”. Sgorlon avvicina il popolo friulano al popolo cosacco: la stessa malinconia che troviamo condensata in Gavrila; lo stesso carico di nostalgie e di sventure. Marta non riesce a fare distinzione tra gli uomini, che considera “tutti simili tra loro, che parlavano lingue diverse, che avevano in mente cose differenti, ma erano tutti tartassati dalla guerra e dalle sventure, tutti dispersi nel disordine e nel buio del mondo.” Un pensiero che sfiorerà anche il giovane Ghirei allorché, smarritosi sulla montagna, si troverà di fronte ai partigiani, e addirittura allo stesso Vento, il loro leggendario e imprendibile capo, e non saprà riconoscerli. Soltanto sulla strada del ritorno, lasciato andare dai partigiani che si sono accorti della sua inesperienza e che li ha scambiati per pastori, si renderà conto della verità e di aver scoperto “che i partizany erano uomini come lui, che avevano degli amici, degli affetti, una donna da salutare. Se non l’avevano ucciso voleva dire che non erano sanguinari e terribili come si diceva”. Sgorlon traccia con nettezza il confine tra l’essenza dell’uomo, che discende dalla stessa progenie, e le sue azioni che si sono andate accumulando nel tempo, tali da condurre a divisioni, assurdità e nefandezze inconcepibili, tra le quali primeggia il demone della guerra (“gli uomini avevano la guerra nel ventre, come una malattia endemica”), i cui disastri “ritornavano eternamente, sotto climi diversi e in tutti i luoghi della terra.”, e quando Marta apprende dell’esistenza dei campi di sterminio dentro i quali finiscono ebrei, zingari, partigiani fatti prigionieri, e dove è finita la sua padrona Esther, si rassoda nella “decisione di sopravvivere a ogni costo e di tener duro fino in fondo.” La “corrente della vita” riprende a scorrere in lei come risposta alla morte, allo stesso modo che nel popolo cosacco si riversa il desiderio, attraverso il canto e il ballo, di non voler morire e di possedere “ancora un futuro, dei villaggi da abitare, un fiume nel quale nuotare o pescare le trote.”, e che “mai nella storia si era verificato che un popolo fosse stato eliminato per intiero.” Ma al di là di questo, il triste convincimento che qualcosa di irreparabile è accaduto con la guerra s’insinua a poco a poco nella mente, non solo di Gavrila e Urvàn, i più attenti e sensibili, ma di tutto il popolo; una sorta di presentimento pervade i “Kasàki” e una strana inquietudine li conduce a considerare che forse il loro sogno di libertà è destinato a morire in quel lembo di terra. S’innesta, cioè, un lugubre canto di dissolvimento e di morte, nel quale, come ad un appuntamento finale, tutto il carico e il mito del passato si presentano alla resa dei conti di fronte all’impassibilità violenta della storia: Urvàn sentiva “in modi sempre più forti di appartenere a una generazione perduta, schiacciata dalle maledizioni della storia.”; “quel popolo era come disorientato, istupidito, incapace di parare i colpi.”, penserà Marta, quando constaterà il gran numero dei cosacchi uccisi dai partigiani. Sarà, la loro, un’agonia terribile, devastante, che a poco a poco li vedrà soli, abbandonati anche da quei pochi che li avevano per qualche tempo considerati uomini come gli altri, invece che invasori.

Se ne “Gli dèi torneranno” spirano già i profumi seducenti e delicati che incontreremo ne “La conchiglia di Anataj” del 1983, “L’armata dei fiumi perduti”, uscito nel 1985 (e finito di scrivere nel 1983), si trascina dietro, pur nella tragicità della conclusione, e diffonde le medesime, incantate atmosfere, con la sola differenza che, mentre nel romanzo uscito nel 1983 l’azione si svolge nella Russia siberiana, Sgorlon ricostruisce e fa rivivere, attraverso una dolorosa pagina di storia, quelle atmosfere nella sua regione, il Friuli, che egli considera altrettanto evocatrice, tragica e mitica. Si leggerà: “Invasori e invasi erano stretti e impastati insieme da un medesimo destino.” E ancora: “Il Friuli con i suoi fiumi e le sue verdi montagne, la gente e le sue donne, così simili in qualche modo alle ragazze e alle bábuÅ¡ke cosacche, si riassumevano e si concentravano in Marta e nei suoi richiami potenti.”

Marta e la sua villa, ereditata dagli sventurati Heshel, continuano ad essere un rifugio per tanta gente disperata. Anche Ghirei vi farà ritorno, come pure il partigiano Ivos, conosciuto con il soprannome di Vento. C’è un vagabondo che gira per quei luoghi, ha perso la memoria, è “il più indigente di tutti.” Ha un volto familiare, seppure nascosto da una fitta barba incolta. Anita è più che sicura di averlo riconosciuto; Marta intuisce, freme, non vuole crederci, ma quando va nella baracca per incontrarlo, il barbone è sparito. Non tornerà mai più, simbolo atroce di una guerra che, sottraendoci la memoria, ci ruba la vita.

“La carrozza di rame”

Mondadori, pagg. 336. Euro 7,23

Il romanzo ha un inizio travolgente, che ci lascia col fiato sospeso, abbagliati da una scrittura che, più asciutta che altrove, non ha perduto il suo fascino di magia e di mistero. Un giovane, Alain, deve sposarsi con una ragazza, Valentina De Odorico, che vive in un paese, Malvernis, che ha la cattiva fama di portare sventura. Ma la ragazza è troppo bella perché Alain, che vive in un paese a quattro ore di distanza, Gallerio, si lasci intimorire, anche se un po’ di paura lo accompagna. Prende la sua carrozza color rame e parte per andarsi a sposare. Ma sin dal mattino son comparsi segni nefasti che lo mettono in ansia, e sventure che lo fanno giungere in ritardo alle nozze, quando ormai sembra che il matrimonio sia sfumato e la sposa si è già ritirata piangendo. Lo sposo, superati gli impedimenti del fato, finalmente convola a nozze. Ma la mattina, Caterino, un personaggio che sembra abbia il dono di fiutare i misteriosi avvenimenti, lo vede partire a gran galoppo, con “i capelli neri allargati attorno alla testa come trucioli di ferro”, e da quel momento nessuno sa più nulla di lui.

Chi ricorda questi fatti è Emilio, il figlio di Valentina, nato da quel matrimonio sfortunato. Memorie di avvenimenti realmente accaduti e di leggende fanno, come sempre, capolino nei romanzi di Sgorlon, e la loro funzione è chiara e perentoria: il passato, ancora lui, non se n’è mai andato da noi; è lui che tesse il filo e colora la nostra vita. Senza la sua costante presenza, attraverso i suoi segni misteriosi, saremmo piante senza radici, destinate a perire. Miriam, la bisnipote di Emilio, che comparirà nel finale, sarà il simbolo più convincente di un tale ciclo imperituro dell’esistenza.

Caterino, “alto e sottile”, “sempre pieno di novità e di invenzioni”, è una miniatura del Pietro de “Il trono di legno”, del Geremia della “Regina di Saba”, ma anche di Altiero, lo scultore artigiano, sempre della “Regina di Saba”. Non è autorevole e imponente quanto gli altri. È considerato inutile, “insignificante”, superfluo; fa il falegname ma ha molti momenti liberi, e allora si muove intorno a Valentina, di cui, come Altiero per Isabella, è un po’ innamorato, e se questa è occupata, si prende cura di Emilio, che gli si affeziona sempre di più. Ma non è il solo. Non vi è, infatti, come negli altri romanzi, un cantore centrale, unico; se ne muovono altri, tutti mai messi a fuoco una volta per tutte, sempre defilati, ma presenti nei momenti che contano per Emilio. Ossia, Sgorlon inietta nella sua storia, da più direzioni, il fascino della parola, che ha sempre dentro di sé, nel momento che è evocata, non importa da chi, il portento di una magia e di una rivelazione. Il romanzo si tinge e si orienta sulla sventura, che già all’inizio è annunciata, sulla dissoluzione e sulla morte. L’amico di Caterino, Toni Lari, “Piccolo di statura, i capelli neri e crespi come un arabo”, racconta di aver udito, il giorno in cui Valentina ha le doglie e fuori piove a dirotto, un “tuono misterioso” provenire dal sottosuolo. Nessuno gli crede, ma quel rombo udito resta lì, non ci abbandona più, incombente e pauroso come un nero presagio. Nei personaggi la memoria corre più spesso alle tragedie del passato, di cui temono il ritorno: la carestia, la pellagra, il colera, l’alluvione, che infatti si presenta con tutto il suo carico di follia, dando vita a pagine che rimandano a quelle stupende de “Il mulino del Po”, il grande capolavoro di Riccardo Bacchelli. Pagine bellissime saranno anche quelle sulla siccità: “Tutti giravano per casa con gli occhi spiritati, i tendini del collo sporgenti, la bocca spalancata, come fossero diventati giganteschi ranocchi che bramavano la pioggia nel pantano di uno stagno disseccato. Le bestie sudavano e si smagrivano nelle stalle.” Cesira, l’astiosa e avida sorella di Valentina, “girava spesso col naso in aria come per sentire l’odore di scalogna che filtrava giù dal granaio”. Sua figlia Romilda non è da meno: “si lasciava andare a fantasie così macabre che tutti in casa la chiamavano la becchina.” In occasione della tromba d’aria, più ancora che in quella della piena del fiume, le superstizioni e le ancestrali paure incombono sulla fattoria e avvolgono indistintamente tutti, perfino l’altro figlio “bastardo” di Cesira, Ettore, il più diffidente e restìo a credere ad una “superstizione cretina.” Anche questa ossessione della sventura, scritta nel destino e non esorcizzabile, ricorda le vicende degli Scacerni, e Ettore e Cesira, e specialmente Romilda, hanno qualche tratto in comune con loro. A differenza di Bacchelli, Sgorlon ci presenta, anziché la storia di una generazione di mugnai allocati sul Po, la storia di una famiglia di contadini friuliani chiusi nel loro casale (il “ciscjelàt”), occupati coi campi e con gli animali, coi quali condividono il bello e il brutto dell’esistenza. Sono gli anni in cui appaiono il telegrafo, il telefono, l’elettricità, la radio, la televisione, che vengono visti come diavolerie. Brigida, la vecchia zia di Valentina, allorché fu approntata la linea del telegrafo “non ebbe dubbi quando Emilio le parlò del vento che si sentiva dentro i pali. «È il respiro del diavolo » affermò cupamente.”

È un angolo di mondo sperduto, attraversato da superstizioni, paure, riti, costumanze che si perdono nella notte dei tempi. Ines Boschin è una ragazzina intorno alla quale tutte queste cose sembrano adunarsi e rivivere. Emilio ne è attratto, allo stesso modo che abbiamo visto fu attratto Silvano da Isabella nella “Regina di Saba” o Giuliano da Flora ne “Il trono di legno”. La vicinanza di Ines risveglia in lui percezioni assopite: “Aveva la sensazione, vicino a lei, di sprofondare nel tempo, di precipitare all’indietro nei secoli, in un mondo di cose lontane.” E anche: “a Emilio parve che avesse addosso qualcosa delle foreste e dei fiumi africani.”

E così come Giuliano ne “Il trono di legno” va alla ricerca del padre, anche qui, Emilio non riesce a dimenticare la carrozza di rame che Caterino gli ha descritto in uno dei suoi racconti, dentro la quale qualcuno ha visto scomparire Alain sulla strada per Venezia.

Sgorlon non tradisce la sua vocazione di attento ricercatore dei segreti che si muovono intorno a noi, alla scoperta di un possibile e diverso modo di vivere la nostra esistenza, più vicino alle verità recondite e forse irraggiungibili della Creazione. Ogni volta tenta di nuovo l’impresa con lo sguardo rivolto verso angoli prima inesplorati e nei quali vede fumare la brace nascosta di una speranza rivelatrice. Il viaggio più strano, dirà Emilio, è quello che si fa nel tempo. La furia degli elementi che si abbatte sugli uomini congiunta alle superstizioni e alle paure è l’amalgama, lo strato della misteriosa realtà invisibile che Sgorlon stavolta si propone di indagare. In questo romanzo compare, in aggiunta a Caterino, un altro cantastorie che, al contrario di questi, resterà sempre avvolto da un alone di mistero. Il suo nome per un po’ resta sconosciuto. È chiamato il Cacciatore e viene a Malvernis ogni tanto. Dalla prima volta sono trascorsi otto anni allorché ritorna, e di nuovo si mette a riferire – tutti raccolti a bocca aperta intorno a lui – ciò che ha visto nel suo girovagare per il mondo. Con la sua presenza un alone di magia e di stupore si aggiunge a quello più cupo e orrido della paura. Si viene a sapere che fa il burattinaio e si chiama Alessandro, figlio di Giuseppe Fabris, “la gloria di Galvaro, che aveva recitato con le sue marionette in tutta l’Europa, davanti a ministri, duchesse e teste coronate.” Si mormora che Alessandro sia ancora più bravo del padre. A Galvaro possiede un palazzo, di cui, l’ultima volta che si è visto, ha lasciato le chiavi a Caterino. La sua parola è fluida e incantatrice, come quella di Simone de “Gli dèi torneranno”. Così come era avvenuto in Simone, anche in Emilio si fa largo la convinzione che la sua nascita non sia stata casuale, ma sia legata ad un destino e “che una sorte strana e appartata lo attendesse.” Sente di essere diverso; al contrario degli altri sprofondati nel presente, egli percepisce che il presente rapidamente si allontana e si trasforma in passato, “perché quella era la natura misteriosa e immodificabile del tempo.” Così pure in Raffaele, il padre di Valentina e di Cesira, ritroviamo un altro cantore del passato che soffre lo stesso malessere e la stessa inquietudine nei confronti del governo di Roma, considerato lontano e indifferente, che incontrammo in Geremia della “Regina di Saba”: “Impossibile che da Roma partisse alla volta di Malvernis qualcosa di buono.”

La meraviglia che ci prende, dunque, come lettori, è quella di scoprire che Sgorlon ci narra sempre il medesimo sogno (anche Emilio, come Simone, busserà ad una porta e gli aprirà una donna, Rossana, come a Simone aveva aperto Margherita) così radicato in lui da identificarsi, forse, con la sua stessa anima, tuttavia la sua arte di grande affabulatore ogni volta ci trasmette una fascinazione sempre rinnovantesi come un’inossidabile “magheria”, nella quale è ancora la parola a spalancare la porta dorata. Immagini, forme, similitudini, prendono vita nella sua scrittura con un improvviso impulso stregonesco che ci stupisce e ci attrae: “Sensazioni stranissime si allargarono a ventaglio in lui, come una coda di pavone che fosse chiusa e arrotolata dentro il sangue.”

Finché compare il vecchio Domenico, il carpentiere, l’anarchico, che vive isolato da tutti, e non esce quasi più dalla sua bottega. Emilio vi è andato per imparare il mestiere, uno dei tanti a cui si avvia spinto dalla sua inquietudine, oltre alla passione che ha di dipingere quadri. Domenico racconta; anche lui, dunque, è un altro cantastorie; tuttavia non ha per il passato lo stesso amore che incontrammo in Pietro e Geremia, ad esempio, e che persiste, in questo romanzo, in Caterino, nel Cacciatore e in Raffaele. Domenico nel passato vede solo “un pozzo di ingiustizie e di fanatismi” e quando Ettore per un po’ di tempo, in attesa di essere assunto in ferrovia come macchinista, va con il cugino Emilio nella sua bottega, presto, ascoltando il vecchio, si sente attratto dall’avvenire: “L’Eden non era indietro, nel pantano dei millenni trascorsi, ma nelle pieghe del futuro.” Sgorlon per la prima volta in modo deciso, attraverso Domenico, allunga lo sguardo oltre il presente, e tra Emilio e Ettore imbastisce un confronto. I due sono amici; Ettore – che richiama un po’ anche il Metello di Pratolini – avverte l’esigenza che, per progredire, la società debba tagliare “ogni ponte col passato” e anche: “L’uomo nuovo nascerà soltanto con lo Stato socialista.”, e “capiva che Emilio non era l’uomo nuovo, ma neppure un rappresentante di quello vecchio, marcito e putrefatto.”

Il confronto consente all’autore di esplorare le miserie del presente e la inconsistenza delle illusioni nel futuro, mettendo in campo la follia della guerra, già vituperata nei precedenti romanzi, ma mai afferrata per i capelli come in questo libro, di cui con descrizioni minute e puntigliose viene evidenziata la gratuita e devastante violenza. Perfino chi era stato interventista e aveva acclamato sulle piazze, come l’ondivago e suggestionabile Poldo, il marito di Romilda, la sorella di Ettore, non sa capacitarsi di come abbia potuto ingannarsi fino a quel punto. Alcuni di questi fatti, come la rivolta dei soldati e la loro fucilazione, uno per ogni dieci dei rivoltosi, li abbiamo visti tragicamente rappresentati in quell’asciutto ed emblematico film di Francesco Rosi: “Uomini contro” del 1970. Già Sgorlon di questa decimazione aveva fatto cenno ne “Gli dèi torneranno”, non risparmiando la sua collera nei confronti del “generalissimo Cadorna”, che aveva impartito l’ordine, ma qui decide di mettere finalmente il dito nella piaga, mostrando quanto la guerra appartenga al vasto “feudo della morte”. Così come vi appartengono le rivoluzioni, si chiamino bolsceviche o fasciste. Presente e futuro, nella loro subdola perversione, s’intrecciano ancora allorché Sgorlon registra le conquiste della scienza: non solo la luce elettrica, il telegrafo, il telefono, ma ora irrompono il grammofono, la radio, la televisione, irrompe il cinema e, dopo le prime meraviglie, “Donne, che avevano dormito per quarant’anni soltanto con il proprio marito, seguivano con il petto affannoso amori di maliarde di altri secoli, che ricevevano i loro uomini in letti a baldacchino, vestite di veli e di gioielli, e passavano la vita sdraiate su divani a farsi adorare.” La guerra pare aver eretto uno spartiacque con il passato, aver chiuso per sempre un’epoca che era vissuta all’ombra e nella suggestione delle tradizioni che si perdevano nella notte dei tempi. Perfino i pozzi scompaiono per lasciare il posto al moderno acquedotto “e la gente aveva tirato l’acqua in casa.” Sgorlon scrive una storia più complessa delle altre che l’hanno preceduta, epica questa volta (e sorprendentemente vi scopriamo un personaggio antieroe per eccellenza, il primo forse di Sgorlon: Valentina, come pure antieroina è Romilda, la cugina di Emilio, che avverte la suggestione del passato quale nessun altro qui, ed è attaccata alla roba come un Mastro don Gesualdo in gonnella), nella quale storia, la realtà concreta e visibilissima mostra la sua faccia senza mascherature e pantomime, attenuando e sovrastando quell’atmosfera dell’invisibile che, nelle altre storie, la dominava e la condizionava. È una rappresentazione cruda, che Sgorlon mette alla prova davanti al lettore, con l’intento di una verifica e di una sfida. Così ci troviamo di fronte Caterino che si accorge che le sue storie del passato, con l’avvento del cinema portato in paese dal Cacciatore, non interessano più nessuno e si rinchiude nella sua casa, e Ettore che è abbagliato dal mito della rivoluzione che si è fatta in Russia e che sta dilagando e, morto il nonno Raffaele, interpreta, pur dispiaciuto, la sua fine come segno che il passato è stato sepolto. Ugualmente lo teme, tuttavia, e cerca maniacalmente di distruggere ogni oggetto che lo ricordi, poiché “il passato rinasce sempre, come un fungo velenoso.” Si sente soddisfatto “per tutto ciò che era scomparso, i carnevali, le quaresime, le feste religiose, le rogazioni per la pioggia. L’antica superstizione si staccava a placche dal muro, come un intonaco lebbroso, e si disfaceva da sola per ragioni di vecchiaia.” E Emilio? Emilio è confuso: “Aveva perso la carta della navigazione, o non l’aveva mai posseduta”; non ha la sicurezza di Giuliano, di Silvano e di Simone; vagamente avverte di trovarsi “dentro la carrozza di Alain, trascinata da cavalli irreali zoccolanti nel vuoto, nella corsa senza soste che sottraeva al più presto tutte le cose”. Nessun personaggio, dunque, nemmeno Emilio che ha in mano i fili della storia, ha una propria centralità. Come sono plurimi i narratori che ci rimandano a Pietro de “Il trono di legno”, ai quali si devono aggiungere Toni Lari e Marco il Pellaro, sebbene non in vista come gli altri, così sono molteplici i personaggi che per qualche momento salgono alla ribalta col piglio ed il rilievo del primo attore. Succederà per Valentina, Cesira, Brigida – sorella della madre di Valentina, sempre chiusa nella sua soffitta e creduta una mezza strega -, Ettore, Emilio, Romilda, Poldo, il Cacciatore, Raffaele – il nonno di Emilio -, Caterino, Stefano – il figlio di Romilda -, Teodoro e così via fino a Miriam, la bisnipote di Emilio. All’improvviso, Sgorlon orienta “l’occhio di bue” su uno di loro, e ne fa uscire uno sfolgorio di luci.

Sarà “lo stagno incantato della lettura” in cui avverte il bisogno di immergersi, che a poco a poco collegherà Emilio a Giuliano, a Silvano e a Simone, zingaresco viaggiatore della realtà come loro, dopo che Emilio si è trovato a percorrere un cammino meno perentorio, in cui la forza della realtà visibile, con il suo bagaglio copioso di sventure, lo ha irretito e confuso, reso cieco e sordo agli incantesimi che la vivificano. Si metterà a ricostruire con la sua impresa edile ciò che la guerra ha distrutto, ma non secondo i “nuovi stili razionali, geometrici e senz’anima”, bensì secondo “quello degli archi, dei porticati, degli androni dell’antica architettura contadina”, “poiché la sua passione più vera era quella di conservare il passato.” La ricerca di un contatto con il passato potrebbe finalmente appagarlo; il suo entusiasmo si propagherà non solo ai suoi operai, ma a tutti coloro che vedono crescere sotto i loro occhi la sua opera taumaturgica. Anche qui, come ne “Gli dèi torneranno”, l’incontro con Rossana sarà determinante per sperare che, come là “la grande bicocca” di Cleulis, Malvernis, il paesino trafitto dalle sventure, possa trasformarsi in una nicchia del passato, dove il presente e il futuro non arriverebbero con il loro fragore tronfio e inutile. Ma in Emilio permane l’insicurezza (“la gelatina di una silenziosa insaziabilità”), e in lui ha fatto il nido una malinconia che non abbiamo trovato altrove, che si manifesta soprattutto nel momento in cui i suoi cari si staccano dal presente e si allontanano nel passato. Perfino gli entusiastici Ettore, immalinconitosi per la delusione cocente ricevuta dai propri ideali infranti, e sul versante opposto, Poldo, il marito di Romilda, deluso dal fascismo e dai tradimenti di Roma, “sentina di ogni vizio”, e la stessa Romilda, prima così solida e scontrosa, l’esaltato e visionario Teodoro, genero di Emilio, impegnato nella ricerca di un misterioso evangelario che contiene un’antica profezia, che ci ricorda per un attimo “Il quinto evangelio” di Mario Pomilio, mostrano le ferite sanguinanti che il presente imprime dappertutto prima di decomporsi, di lasciarsi sedurre e afferrare dal passato e svanire annientato dalla forza della leggenda e del mito. La stessa fattoria, il ciscjelàt, si eleverà a simbolo di tutto ciò. Saranno queste calamità, queste sventure, queste marcescenze, queste aggressioni della morte, sia materiale che spirituale, che accresceranno in Emilio quella sua “insensata insaziabilità”. Resta in attesa. Mai in Sgorlon, come in questo libro, si percepiscono tanto intensamente la fibrillazione e la caducità del presente e la costante e inquieta azione della morte, che richiama alla mente dell’autore la celebre partita a scacchi disputata tra il cavaliere e la morte ne “Il settimo sigillo”, il capolavoro del 1956 di Ingmar Bergman.

Ricordate il tuono misterioso che Toni Lari aveva udito in quella notte di pioggia in cui era nato Emilio? Quell’evento annunciato, disastroso, così collegato alla “profezia sovrana di Malvernis, quella delle ‘case di Pietro'” contenuta nel misterioso evangelario, è rimasto in sospeso lungo tutta la storia, in attesa allo stesso modo che in attesa di qualcosa che lo illuminasse è stato sempre Emilio. In un inverno gelido, affacciato alla finestra, mentre guarda scorrere il funerale di un suo caro, “sentì fino in fondo l’amabilità di ognuno perché nasceva, viveva anni agitati e drammatici, e poi moriva.” E ancora: “Gli uomini erano amabili perché potevano morire da un momento all’altro.” Sarà la chiave che darà il senso alla sua vita, allorché quella profezia si abbatterà con la sua cieca violenza su cose e uomini.

Sgorlon riesce a recuperare e trasfondere in questa opera davvero notevole, complessa e inquieta assai più delle altre, la fugacità e la crudeltà del tempo e soprattutto il dominio della morte, a cui l’uomo tende come a un sonno desiderato; non solo lui vi tende, ma lo stesso universo, al punto che Emilio, ormai novantenne, percepisce “Che la sua stanchezza fosse quella stessa dell’universo, che anelava a interrompere il suo flusso di vita e a riposare in Dio.” Come in Verga e in Bacchelli, anche qui scorrono inquiete le generazioni, a contatto con una realtà mai pietosa e consolatoria, bensì dannata e ostile. Quando la profezia si avvera, Emilio ammette che “Aveva sempre avuto il sentore della fragilità delle cose umane, della loro sostanza effimera e vuota, e aveva sempre intuito il loro destino finale di distruzione e di dissolvimento.”; ci sono dei segni, infatti, mescolati alla realtà, che non riusciamo a decifrare, poiché “Gli uomini erano esseri ciechi, persi nel buio del mondo”. La realtà, ossia, è generatrice di miti, e i miti diventano a loro volta testimoni e annunciatori di nuove realtà che ritornano: “Possedevano quel segnale da secoli, ma nessuno, nemmeno il Cacciatore, l’aveva saputo interpretare.” Alle sue storie, Sgorlon aggiunge, infine, il fascino di quella magheria della scrittura – così sublime nello splendido finale di questo romanzo – che conferma l’autore uno dei più importanti e fascinosi della nostra letteratura.

“Gli dèi torneranno”

Mondadori, 1977, pagg. 312.

Simone Zuliani, figlio di Lena, una levatrice, detto anche il Bastardo “perché sua madre lasciava entrare in casa degli uomini”, è un cantastorie finito nel Perù, sulle Ande, dove, con un camion “scalcinato”, gira per città e villaggi insieme con Moira “una meticcia di splendide forme e dalla voce d’oro”. Ad un certo punto si accorge che il tempo scorre troppo in fretta, ora ha più di quarant’anni, e sebbene accanto a sé abbia questa ragazza, più giovane di diciotto anni, sempre allegra e festosa, avverte una pena; l’avvenire gli pare come privo di consistenza, fugace, mentre avanza in lui, con sempre maggiore decisione, il desiderio del ritorno, non solo verso la sua terra di origine, Jalmis, nel Friuli, ma verso il passato, a cui percepisce che deve ancorarsi per dare un senso alla sua vita. Comincia ad avvertire il peso del divario di anni che lo separa da Moira, che appartiene per di più ad un altro mondo, e pur “dotato di una parola plastica e luminosa, con la quale si trascinava dietro dove voleva gli spettatori di ogni platea” e nonostante che possedesse “l’arte di raccontare e di farsi ascoltare, aveva incominciato ad amare il silenzio.” La notizia della morte dello zio Gregorio, fratello di sua madre, già scomparsa da tempo, acuirà in lui questo sentimento del ritorno. La morte (la chiamerà anche “comare nera e tabaccona”), è un tema che Sgorlon tocca spesso nei suoi romanzi, ed essa appare come una dea magica, fatale, che prima di lasciarci nel buio della notte eterna, ci spalanca la porta a pensieri ed immagini luminose e intense, che non percepivamo. La delicata sensibilità di Sgorlon riesce a fasciare di poesia, sia pure malinconica, perfino il pensiero della morte. Bisogna arrivare alla mia età per comprendere appieno il significato profondo di una frase apparentemente semplice e ovvia come questa: “Simone aveva imparato che coloro i quali ci precedono di una generazione se ne vanno uno alla volta, silenziosamente, lasciandoci soli, e facendoci capire che dopo toccherà a noi.” E anche: “Aveva bisogno di abitare sempre nella stessa casa, nello stesso posto, circondato dal medesimo paesaggio e dalle stesse montagne.” Il ritorno, dunque, come agnizione, come momento terminale della vita, come preparazione alla morte, come ultima occasione di raccoglimento e di consapevolezza. Come vocazione. Quando tutto solo arriva a Jalmis, il paese non è più quello di prima, è decrepito, gli usci sono “pencolanti”, le case dissestate e vuote; è abitato da vecchi e i giovani lo abbandonano per lavorare altrove, emigrare. Sgorlon tesse ancora una volta il suo ricamo. Lo fa con sapiente lentezza, come l’affabulatore de “Il trono di legno”, e non trascura di scrutare intorno a sé e di indugiare per rifinire, dare profondità e spessore a certi particolari intravisti. Jalmis, disabitato quasi del tutto, comincia a destarsi, respirare avidamente dopo un lungo sonno, animarsi di leggende, di ricordi, di visioni. Il passato ritorna, anzi non se n’è mai andato; era nascosto, bastava così poco a farlo tornare: la semplice memoria affettuosa, la nostalgia, l’amore di una età che ci resta sempre alle spalle e costituisce una forza, una energia vitale, una ricompensa, il premio per aver avuto il coraggio di andare avanti, di vivere. C’è un tempo, la giovinezza, in cui questa forza non si avverte, ma è dietro di noi, e cresce, e si prepara per gli anni avvenire, quando su di noi comincia a spirare il vento della morte; allora il nulla che pare attenderci, d’un tratto si rivela come l’urna nella quale depositiamo la misteriosa storia della nostra vita, insieme con le ombre e le presenze che, percepite ed invisibili, ci hanno tenuto per mano. Che cosa è la Clautana, infatti, “la sedonera”, ossia la venditrice di oggetti di legno che, nomade, trascorre la sua vita sempre in giro per i paesi, vestita di nero, spingendo un carretto o portando sulle spalle una gerla, se non l’inquieta presenza di un’ombra che si annida per sempre nella nostra memoria e ci accompagna? Sgorlon imprime a questo personaggio femminile, che pare uscito da una remota leggenda, il carico della storia e delle credenze della sua valle. Eleonora – questo è il nome della Clautana dagli occhi e i capelli nerissimi – ha il fascino del destino che viene da lontano e che, per il prodigio di una scrittura sapiente e magica, ha preso la forma umana: “Gli sembrò che con l’incontro della Clautana fosse rimasto qualcosa di rinviato senza limiti di tempo.”

Anche la lunga passeggiata nel bosco, l’ansia che lo attanaglia, la paura, sulla strada del ritorno, del sopraggiungere della notte, mentre la neve cade sempre più fitta, la ricerca di un riparo, una luce che improvvisamente compare lontana e che gli restituisce la speranza, sono percorsi legati al mistero di un destino già scritto, ma sconosciuto. È ancora una volta il ritorno che può aprirci la porta sulla cui soglia siamo ancora incerti e smarriti, e attraversata la quale si distendono davanti a noi i mille segnali, gli infiniti fili di una ragnatela gigantesca che ci attrae nella sua tessitura fatta di stupore e di meraviglia.

Quella che gli apre la porta della casa sperduta, a cui ha bussato pieno di paura e stremato nella speranza, è una donna. Sgorlon nei suoi racconti assegna proprio alla donna, più che agli uomini, la reincarnazione degli enigmi e delle arcane presenze che ci avvolgono. Il desiderio verso la donna, sempre presente ed evidenziato nei vari protagonisti dei suoi romanzi, è desiderio carnale, viscerale, di conoscenza, mai appagato né appagabile. È giunto a Cleulis, un paese invecchiato più di Jalmis, e non sa ancora che “la grande bicocca” a cui ha bussato, “persa nella solitudine delle colline, tra casali di contadini”, è la casa dove vive la contessa Margherita de Crignis, giunta nubile ai quarant’anni, pervasa da un’inquietudine che le proviene dal passato, e “proprio in lei, si assommavano le esistenze che nel loro passaggio sulla terra erano vissute a Cleulis”. Fa la maestra proprio a Jalmis, “unica insegnante”. Con un tocco magico, d’un tratto tutto il mondo di Margherita, proiettato nel passato, prende forma in quella casa in cui il senso della fine, della morte, si fa ossessivo. Simone non vi è ancora entrato, ma la penna di Sgorlon traccia il filo del tempo che lo riguarda, ci prepara al suo incontro con una donna che considera l’avvenire “destinato a trasformarsi rapidamente in passato, attraverso la porta esilissima del presente”. Anche lui è sulla via del ritorno, ma la sua ricerca del passato è motivata dal desiderio di ritrovare le vivificanti radici della vita, mentre il passato di Margherita è la prigione in cui la vita si rinchiude e avvizzisce per morire. Ma in quel melanconico passato, ecco, non tutto è perduto. La trisavola Sibilla le appare continuamente nel ricordo, ora che in lei palpita un sentimento di resistenza e di ribellione. Sibilla era stata una donna molto bella e allegra, corteggiata. Non aveva esitato a lasciare il pedante marito per correre la cavallina a Vienna, a Parigi, dove era accolta nelle migliori case a braccia aperte, perché dovunque lei entrasse portava con sé una ventata di gioia e di follia. Lei, glielo avrebbe trovato un marito, non l’avrebbe fatta inaridire, e quel desiderio che da qualche tempo la invadeva di avere un figlio ad ogni costo, finanche da un uomo che non fosse un marito, lo avrebbe incoraggiato. Margherita non è l’Isabella protagonista del romanzo che precede questo: “Regina di Saba”, ma ha tutta l’infatuazione taumaturgica che Sgorlon fa discendere dalla donna. Quando Simone si trova di fronte a lei, la sua memoria fiorisce all’improvviso e “in quel momento nessun mito gli parve più vero di quello di Atlantide. Pensò che ognuno di noi ha la sua grande isola scomparsa dentro di sé, di cui riesce ogni tanto a recuperare qualche frammento.” Nell’incontro tra i due adoratori del passato, presto la vitalità del sogno di Simone si mescola all’inquietudine senza nome che pervade la donna che stava per arrendersi, e ciò che si prepara a nascere è la risposta della vita alla morte: “La figura di Margherita acquistò all’improvviso per lui qualcosa che prima non possedeva, divenne piena di cavità risonanti come certe mitiche grotte.” In questo romanzo ha grande forza il destino. L’incontro tra i due non poteva essere casuale e sterile, giacché proprio il destino vi aveva messo mano da lungo tempo, cosicché quella realtà fatta di presenze intuite e non viste, di percezioni umbratili, di suoni, di fantasmi, di miti, non fluttuano invano e a caso intorno a ciascuno di noi, ma perseguono un disegno scritto forse sin dal principio (“dal principio della storia” scrive Sgorlon). Vi è un ordine nell’universo grazie al quale tutta la potenza e il mistero che lo avvolgono, ad un certo punto convergono su di noi, che, pur così minuti ed insignificanti, ci trasformiamo in piccoli dèi.

Simone sembra essere riuscito ad entrare in quel flusso atavico e perenne a cui il suo ritorno tendeva: ” Sentiva il bisogno di regolare la sua esistenza secondo i cicli della natura, il giorno, la notte, il caldo, il freddo, l’estate, l’inverno, le lune, la raccolta delle messi.” La vita contadina, che intraprende insieme con Margherita, lo aiuta in questo passaggio che non è affatto un ritorno indietro, ma è proprio l’unica trasformazione possibile di un uomo in un dio. L’entrare “in un sistema in cui le cose non mutassero, ma si ripetessero secondo ritmi antichi e rassicuranti” che altro è, infatti, se non la palingenesi di se stessi nel mito dell’eternità e dell’onnipotenza?

Si apre così il libro brulicante e misterioso della nostra storia senza fine di uomini, in cui lo sguardo indagatore di Simone si incontra e scontra con gli dèi che hanno avuto nelle loro mani i destini dell’uomo, personaggi succedutisi nel corso dei secoli che hanno, nel bene o nel male, fatto gridare, piangere o sorridere il popolo, destinato in ogni caso a subire il dominio degli altri, a farsi sofferente e pauroso burattino, sempre. Questa è la realtà perversa che Sgorlon vorrebbe fuggire e cancellare dalla storia, per sostituirla con una realtà fantastica scaturente e vivificata dal popolo stesso attraverso i suoi miti, le sue storie immutabili, le sue leggende. Nelle vicende del popolo, invece, questa realtà governata da un potere troppo in alto per essere percepito e compreso, e per ciò stesso brullo e inaridito, si nidifica come un malattia difficile da guarire. È lo stesso tema che, spostandosi al Sud, Raffaele Nigro riprenderà per il popolo meridionale. Questa volta Sgorlon si butta a capofitto nei “segni per capire in profondità la vita del popolo.” Lo fa in maniera più decisa che nella “Regina di Saba”, per un momento maneggiando il bisturi del chirurgo che entra dentro la parte malata e mette allo scoperto il bubbone infetto, per isolarlo e distruggerlo: “Non era più nella fase di ricerca della miniera perduta, era cominciata la fase della sua esplorazione.” Ci sono gli dèi che presiedono al male, e quelli che sollecitano il bene. Non si possono mettere insieme e non distinguere. Quali dèi devono tornare? Quelli che vivono nel popolo, che sono tutt’uno con esso e sanno trasformare i fatti di tutti i giorni nella leggenda e nel mito che durano per sempre: “non quelli romani, gli dèi degli invasori”, bensì quelli che “custodivano ciò che gli uomini avevano lasciato.” O forse “non se ne erano mai andati”, come gli spiriti dei morti che sono rimasti a vegliare “con estrema discrezione” sulle loro case.

Non è facile isolare e respingere “la volgarità dei tempi.” In questo romanzo il presente è negletto come non mai. Solo il passato può rigenerarlo. Ma, anche qui, quale passato? Quello che si perpetua nel popolo. È attraverso il popolo, dunque, attraverso la sua memoria ritrovata e riemersa che “Gli dèi torneranno”. Ma il libro oscillerà intorno a questa speranza, e quel grido che si leva continuamente nel fluire delle pagine ha in sé anche tanta profetica disperazione. Simone si considera una specie di Giovanni Battista che precede il Messia, “un annunziatore, dietro il quale veniva un altro”, cui è riservato il compito di una tale difficile quanto necessaria intrapresa. Avverte che la sua sensibilità si è acuita e riesce a percepire ciò che agli altri è impedito. Quando il vecchio e colto falegname Geremia (“di scuola ne ho fatta poca, e dopo le elementari sono sùbito andato sotto padrone a imparare il falegname.”), con quei suoi “occhi grandi e tondi, dotati di una sbalorditiva fissità”, seduto sulla sedia di legno, racconta, non è difficile rivedere in lui e in Simone rispettivamente l’anziano Pietro e il più giovane Giuliano de “Il trono di legno”. Ma Geremia è anche un po’ il Silvano della “Regina di Saba”, che sa trovare nella lettura le tracce di una realtà indefinibile e magica: “Quando si immergeva in un libro dimenticava tutto ciò che lo circondava. La realtà presente spariva e al suo posto se ne collocava un’altra”. In lui Pietro e Silvano si sommano in un personaggio che si carica sulle spalle le storie dell’uno e dell’altro. Come pure Simone, Silvano e Giuliano sono fatti dello stesso sangue, animati dallo stesso insaziato e inesauribile spirito di ricerca. Sgorlon continua a scavare, dunque, affascinato egli stesso da questo compito che sente suo, non solo dei protagonisti dei suoi romanzi, anzi totalmente suo, quasi fosse anche lui uno di quegli dèi attesi. Instancabile e cocciuto, vuol issare di fronte alla realtà degradata di oggi la nobiltà del passato, contaminarla e, in un afflato di forte misticismo, purificarla tramite il mito e la leggenda che la pervadono. La realtà, ovvero, trattata alla stregua di una nobile famiglia decaduta, di cui si ricorda il luminoso e leggendario blasone. Per fare ciò, Sgorlon eleva a regno del mito la sua regione, il Friuli, e i suoi piccoli antichi paesi. Più sono piccoli e sperduti (“stava accadendo proprio qui, a Jalmis, nel paese emarginato”), più sono intrisi del passato e custodi di miti da proporre e da indagare. Quei paesi quasi dimenticati e quegli uomini semplici sono “annunciatori di una cultura che avrebbe indicato l’unica possibile salvezza, quella delle piccole comunità locali”. Essi hanno visto giungere dalle Alpi le popolazioni germaniche, i Quadi, i Marcomanni, i Britanni “che si dipingevano il corpo di azzurro, per rendersi più spaventosi agli occhi dei nemici”, e soprattutto i Celti, che avevano lasciato l’impronta di sé “nel linguaggio, nell’indole scontrosa, silenziosa e malinconica della gente, nella sua rozzezza, nella tendenza all’intimità familiare e alla costruzione.” Tutti questi segni sono andati dispersi per colpa dei Romani, a cui, attraverso Geremia, Sgorlon non perdona “la turpe mania di distruggere le civiltà locali” e paragona “ai fascisti, e soprattutto ai nazisti incendiari, che avevano bruciato tanti paesi e il suo stesso casale.”, e per colpa soprattutto di Venezia (“la cortigiana della laguna”) che nel 1420 (“l’anno dell’apocalisse”) distrusse il Patriarcato, “la Piccola Patria”, che aveva retto il Friuli fin allora, incamerandolo nel proprio Stato. Sgorlon sceglie Geremia, uno del popolo, per rivendicare la nobiltà della sua terra friulana, e, significativamente, gli mette in bocca parole più grandi di lui, come se fosse un antico vate, un antico cantore, “un antico anacoreta”: narrava tenendo “il busto eretto e non girava quasi mai il viso e le spalle”. La sua immobilità “Gli ricordava quella dei peones dell’Altopiano, quando si sedevano al sole, benché Geremia, con la sua faccia solcata e il naso aquilino, somigliasse piuttosto a un vecchio pellerossa.” Mai come in questo romanzo i fantasmi del passato hanno avuto una eco tanto intensa e dolorosa. Si avverte la rabbia impotente, l’ira furibonda e vendicativa di chi è consapevole della difficoltà di un ritorno (“la senilità che veniva avanti”) verso l’antico splendore, che solo la memoria di qualche eletto (“superstite”, “sopravvissuto”) sa ricordare e rievocare. Si pensi alla visita che Geremia (sempre più Sgorlon a mano a mano che si va avanti, come del resto lo stesso Simone) fa al “paese abbandonato”, vero simbolo della follia del presente (“un’altra apocalisse, come quando il glorioso Patriarcato era caduto” e “Cosa stava accadendo nel mondo?”), in cui troviamo alcune delle pagine più belle del libro. Vale la pena di riportare questa stupenda immagine: “la pazzia aveva cominciato a percorrere il mondo col suo passo di zoppa, rimboccandosi le sottane e saltellando come una vecchia ubriaca.” Riferendosi ad un quadro di Vittore Carpaccio, “Le due cortigiane”, l’autore poco prima era arrivato a scrivere: “Le due meretrici erano Firenze e Venezia, che avevano corrotto il medioevo friulano.”

Dopo “Il trono di legno”, in cui viene tracciato il percorso prodigioso della fantasia e della parola, e “Regina di Saba”, in cui l’impazzimento della realtà è rappresentato dai riferimenti al fascismo e al nazismo, alle leggi razziali e alla guerra (quest’ultima ritorna con tutta la sua insania: “un mostro dalle cento braccia e dai cento occhi, e nessuno poteva spuntarla con lei.”), qui Sgorlon se la prende con le assurde trasformazioni portate dalla nuova civiltà, che costringono gli uomini ad emigrare (“sfinge enigmatica dell’emigrazione”), che è come voler dire “cancellare il tempo stesso della sua vita.”, “l’emigrazione era ladra. Rubava gli affetti e la vita stessa, un giorno alla volta”.

Ma Giuliano, Silvano, Simone (ossia i protagonisti dei tre romanzi “Il trono di legno”, “Regina di Saba” e “Gli dèi torneranno”) sono il medesimo viaggiatore nel tempo e nello spazio, e sarebbe meglio dire il medesimo viaggiatore che va alla ricerca di ciò che sta fuori del tempo e dello spazio (“la vita era un sogno strano, fatto appena alla periferia del reale.”), sospinto da una voce interiore che non lo lascia mai: “Certe volte mi pare che vi sia ancora qualcosa che mi chiama”. È una voce antica che ogni uomo dovrebbe riconoscere, poiché è la nostra sin dal principio. Non è un caso che proprio in questo romanzo si ergono altri protagonisti a tutto tondo, come, ad esempio, Geremia, Margherita, la stupenda Clautana (“pareva venire da età tramontate da un pezzo”), lo straordinario Enore, “uno che era tornato dalla morte”, respinto dalla morte “per un misterioso disguido”, e che la guerra ha inselvatichito (le pagine, tra le più belle, dedicate alla sua campagna di Russia anticipano l’atmosfera magica de “La conchiglia di Anataj” del 1983), l’inquieto Glauco, i quali sono mossi dagli stessi sogni, dagli stessi impulsi, dagli stessi enigmi di Simone. E una ragione c’è, ed è quella che tutti provengono, come Simone, dalla “grande cisterna della cultura popolare, in cui rifluiva tutto il passato, e tutte le storie si mescolavano insieme, diventando quasi una sola, immensa, senza principio e senza fine.” Di questi, come di tanti altri personaggi rimasti sullo sfondo, perché dispersi, emigrati, morti, il cui spirito interrotto egli andava ricercando nelle loro lettere conservate dai parenti, Simone, come il Giuliano de “Il trono di legno”, si sente presto il cantore predestinato, colui, ovvero, che avrebbe risolto l’attesa di costoro, che avevano, per “la ressa dei sentimenti”, quella “difficoltà arcana per il friulano a raccontare la propria storia”. Sgorlon, con “Gli dèi torneranno”, entra nella storia e nell’anima friulane come non aveva fatto ancora nei precedenti romanzi, con una progressione lenta ma vigorosa, amorevole quanto mai e tuttavia decisa, che mette allo scoperto – ancora una volta col prodigio della parola che già incontrammo ne “Il trono di legno” – un grande tesoro nascosto, ed un orgoglio ed una nobiltà mai perduti.

“Regina di Saba”

Mondadori, 1975, pagg. 296.

Mi sono chiesto come avrei potuto cominciare al meglio le mie letture di questo nuovo anno 2004, e così ho scelto un autore italiano a me molto caro, di cui avevo già letto “La conchiglia di Anataj”, “L’ultima valle”, “La tredicesima notte” e “Il trono di legno”. Toccava ora quindi a “Regina di Saba”, “Gli dèi torneranno”, “La carrozza di rame”, che seguono “Il trono di legno” di due anni in due anni, segnando il periodo aureo di Sgorlon: 1973, 1975, 1977, 1979 (ci sarà poi “La conchiglia di Anataj” del 1983), ma non solo. Possiedo anche “L’armata dei fiumi perduti” e “Il taumaturgo e l’imperatore” e chissà che non legga anche questi, e fare così l’en plein. È un regalo che mi concedo da solo, il più gradito. Già i titoli hanno il profumo di quelle fiabe che sai già che ti condurranno altrove, nel regno della poesia, forse.

Non si sbaglia con Sgorlon. Avete in mente “Campo di grano con volo di corvi” di Van Gogh? È possibile rendere quelle sensazioni magiche con la parola? Leggete qui: “I corvi attraversavano la valle agitando le ali come fossero neri stracci per la polvere. Già i primi si stavano posando sulle rocce grigie che emergevano dai rossi vinati del bosco, al di là del paese, si ricomponevano nella loro tozza figura, rimpicciolivano, rientravano in se stessi, mentre gli altri ancora in volo continuavano a lanciare i loro gridi, come rauchi segnali.” Sono, questi, lampi, rapide illuminazioni, che Sgorlon accende per i suoi lettori, come a dire che ci condurrà per mano attraverso il bosco intricato e fascinoso della sua scrittura e ogni tanto vedremo brillare qua e là, al nostro fianco o davanti ai nostri occhi, il luccichio di rare gemme, di pietre preziose riemerse, di tesori nascosti e finalmente ritrovati, che stanno rinchiusi dentro l’animo di ciascuno di noi.

Ligolais è un piccolo paese del Friuli abitato da gente modesta; la famiglia del protagonista, Silvano, che vive con la madre Regina, di sessant’anni, abbandonata dal marito, un attore di teatro, e con la sorella Corinna, di ventisette, forse è tra le più povere. Non hanno la luce elettrica, “Costa un occhio”, e le stanze della loro grande casa sono illuminate da “candele e fanali a petrolio”, così che “quando veniva notte, sulla casa scendeva un’atmosfera opprimente. La sentivano anche mia madre e Corinna.” Già cresce nel ragazzo, come era successo nel precedente romanzo “Il trono di legno”, il “richiamo verso una patria perduta, dove ero aspettato con ansia.” Gli altri personaggi che gli stanno attorno sembra, invece, che portino indosso una smania, una maledizione, che li ha condannati a restare reclusi e a patire: la madre “soffriva di insonnie caparbie, indomabili”, la sorella “aveva una faccia sempre pallida e sbattuta” e di lei “si erano messi a dire che portava sfortuna” per via che aveva avuto una specie di spasimante, Luciano, dall’aria “sempre rannuvolata e aggrondata, come in preda a pensieri stravolti”, finito disperso nella Grande Guerra. L’atmosfera opprimente è accentuata dal fatto che, proprio per questo amore tragico della figlia, tra Corinna e sua madre non v’è praticamente più dialogo, dopo liti furibonde che le avevano condotte a non parlarsi quasi del tutto.

La scrittura di Sgorlon ha la bellezza di un merletto, niente è sprecato, tutto sorge e si compone nella magia dell’arte. Quello che si compie in noi, leggendolo, è lo stesso prodigio che Silvano, durante le vacanze natalizie, avverte allorché incontra sulla riva del fiume una giovane albina, Isabella, originaria di Venezia, la stessa che aveva intravisto fugacemente quando era scoppiato l’incendio nel bosco. Ha le trecce bianche e gli occhi arrossati come quelli di un coniglio e “aveva la leggerezza e l’allegria volatile di Alice, e in pari tempo la saggezza malinconica e solenne della Regina di Saba.” Darà al ragazzo l’occasione di tornare a riflettere su una convinzione che lo ha sempre affascinato, ossia che esista una realtà più vera di quella che sta dinanzi a noi, e che si raggiunge attraverso “una porta magica”, al di là della quale si aprono “luoghi privilegiati dove le barriere si dileguavano, dove si aprivano balconi che mostravano all’improvviso quello che doveva essere il mondo più vero.” E anche: “Avevo l’impressione che la realtà delle cose non fosse in rapporto al loro succedere, al loro allinearsi nelle quinte del mondo, alla loro consistenza spaziale e temporale, ma con qualcosa d’altro, di più intimo ed essenziale, posto all’interno di esse.”

È il motivo che presiede a molte narrazioni di questo autore. Amelio, il barbuto reduce della Grande Guerra, sconvolto e disadattato, trovato morto per il freddo in un rudere e che aveva fatto fuggire Isabella terrorizzata, conferma in lui l’attrazione per una esistenza che sta altrove, come se Amelio “avesse oltrepassato un confine enigmatico, e fosse entrato nella realtà che stava al di là di esso.” La realtà che sta sotto i nostri occhi, ossia, è vista come un dovere da compiere – la vita in collegio, ad esempio -, grazie al quale è possibile acquistare il diritto “di dedicarmi alle cose private e segrete.”, ovvero a una diversa e superiore realtà spirituale, pur essa abitata come l’altra, e vissuta come continua, fascinosa, favolosa, ricerca. Il ritorno al paese, Ligolais, risveglia in lui sempre una “vasta rete di superstizioni e di leggende”, che sono come il passe-partout, la chiave magica per incamminarsi in quell’oltre (“sull’altra sponda del mondo”) che pure ha la sua sorgente dentro di noi, solo che la si sappia trovare: “perdevo di nuovo la mia identità, ridiventavo molle come cera scaldata, pronto ad essere gettato in altri stampi e ad assumere forme diverse.” Personaggi, oggetti, paesaggi, subiscono così il filtro della sua trasfigurazione fantastica, ed incarnano i miti che hanno abitato il passato, e che non sono mai scomparsi, pronti a tornare ad ogni richiamo dell’anima. Della madre scrive: “La sua personalità mi pareva simile a una cripta di chiesa o di palazzo medioevale, dai muri e pilastri massicci, dove non è mai entrata se non la luce di qualche fiaccola e dove si possono immaginare nefandi delitti.” La conquista, il punto di arrivo della sua ricerca, si ha ogni qualvolta nel presente riesce ad incastonare il passato, non quello ordinario, che i secoli hanno ridotto in polvere, bensì quello che si è tramutato in leggenda e in mito. La scrittura scivola leggera su di noi come acqua tersa che lasci intravedere luccichii e tesori che giacciono sul fondo. Raro trovare una tale densità di contenuti, una tale forza evocativa e fantastica, in una scrittura che si matura dentro un vocabolario di parole semplici, all’interno di una sintassi talmente ordinata che pare il naturale, ma non per questo facile, corredo di un matrimonio tra contenuto e forma che ha pochi eguali tra gli scrittori della nostra Italia; e solo la morbidezza e le rotondità di un Dickens, forse, al di là del diverso contenuto, riescono a sovrastarla.

Il teatro, verso il quale prova un amore smisurato, ereditato certamente dal padre, allo stesso modo in cui aveva ereditato il “ciuffo biondo, simile a quello di mio padre, che continuava a cadermi sugli occhi.”, lo rafforza nella convinzione dell’esistenza di una realtà diversa da quella che osserva muoversi quotidianamente intorno a sé. Incontra di nuovo Isabella, che le appare già donna, una sera che va a teatro. La riconosce tra gli attori che stanno recitando “Sogno di una notte di mezza estate”. È proprio lei, nei panni di Titania. Il fascino della femminilità, su cui andava vagheggiando da quando l’aveva incontrata più di un anno prima, e contro il quale la sua severa madre l’aveva messo in guardia, scava in lui una suggestione più fascinosa e incantata della stessa visione reale, come se Isabella fosse “una donna bianca e luminosa uscita da chissà quali plaghe boreali. Era piena di risonanze di luoghi e di civiltà diverse, un incredibile amalgama di sfondi ai quali io ero sempre molto sensibile. Mi pareva una creatura improbabile, eppure aveva l’aria di conferire una sorta di realtà e di concretezza alle cose più evanescenti.” Intuizioni, sensazioni, visioni, dunque, che possono trasformarsi in realtà. Isabella diventa così una specie di luminosa cometa dei sensi moltiplicatisi all’infinito, capace di trarre dal buio i tanti mondi che stanno dentro e attorno a noi. Ciò che Isabella risveglia nel protagonista non è solo attrazione fisica, passione o amore, ma soprattutto conoscenza, disvelamento, proiezione smisurata verso l’ignoto e l’infinito: “Certe volte il suo potere mi suscitava un senso di sgomento, come non fosse collegato soltanto a fatti accertabili e naturali, ma a qualcosa di inconoscibile.” E ancora: “Isabella era la sovrapposizione di infinite cose, e io mi calavo in lei come fosse un sistema di grotte scavate nella roccia, che non si finiva mai di esplorare, pieno di echi, di ombre e di luci, di fiumi e di laghi sotterranei.”

Il fascino del vivere risiede, dunque, in questa continua ricerca di ciò che sta dietro, di ciò che, nascosto ai nostri sensi ordinari, genera e dà movimento all’esistenza, di ciò che alimenta e rende emozionanti la nostra mente e la nostra fantasia (“il vento dell’immaginazione”), il meraviglioso, ossia, che potrebbe anche dare un volto e un nome al mistero.

I personaggi di Sgorlon sono evocatori di miti e miti essi stessi; non vivono soltanto nel presente, e nemmeno si può dire che aggiungano semplicemente il passato al presente come tante reincarnazioni, ma si portano dietro sempre, come un seducente alone, la delicata e complessa tessitura di una realtà indicibile e inconoscibile, senza tempo, fatta di echi, sussurri, voci, istinti, visioni, emozioni, preveggenze, e di quant’altro di arcano ancora avvolge l’universo. Sgorlon ci mette a disposizione un prodigioso ordito che trasforma ciò che non si vede e non si conosce in un’emozione panica e trascendente a un tempo, che non riuscirà a saziarci mai, nonostante la sua abbondanza, come non ci saziano mai l’infinito e il mistero; e in ciò si annida un’attrazione fatale, magica, in grado di sedurci, di smarrirci, di dilatarci in una trasfigurazione che ci assorbe nello stesso ordito e ci consuma lentamente. Non solo Isabella, ma tutti noi siamo, perciò, “la bella addormentata”, a cui l’autore congiunge la scoperta di un mondo più vicino di quel che non si creda alla nostra anima, e forse gli somiglia. Non è un caso che sia spesso il mare, che è quanto di più seducente e misterioso possa coltivare la nostra fantasia, a suscitare nel protagonista vagheggiamenti e visioni.

La nonna di Isabella, Zora, che “vuol dire aurora”, donna che era stata bella e aveva fatto la maga e la contrabbandiera, e la stessa Isabella, nonché sua madre Ljuba, la sorellina Bianca, Regina e Corinna (queste ultime due “Sembravano strani uccelli arruffati, dopo un temporale, o sopravissuti di un mondo antico”), Isacco, Elia, come pure l’anziano e misterioso marinaio incontrato nel porto di Trieste, la giovane Suwon, più che personaggi sono rivelazioni, scoperte, punte emergenti di un iceberg, il quale altro non è che l’universo intero. Come sono punte dello stesso iceberg il mare, i paesaggi, gli oggetti, e così via. Sgorlon disvela e ci comunica il mondo nascosto, che si manifesta sempre, a chi sa vederlo, tutto intero attorno ad ogni cosa, e ci immerge in esso con la pensosità e la seduzione del veggente.

Quando, interrotti gli studi universitari, Silvano si dà definitivamente all’attività di traduttore, il mondo che gli si spalanca davanti attraverso i sentieri della scrittura altrui trasforma la sua stanza in “un crocicchio dove cento eventi e cento personaggi diversi si davano enigmatici appuntamenti.” Personaggio e autore per qualche momento si incontrano: “La fantasia invece mi portava continuamente lontano, alla ricerca di luoghi, cose, persone e immagini che rispondessero alle grandiose seti e fami che provavo.” E ancora: “tendevo all’epica e ai fascini del mito.” L’immagine del mare di nuovo si accompagnerà a questa smania di conoscenza: “là dentro, nelle sue profondità inesplorate, la vita si realizzava in mille forme, le più fantasiose e imprevedibili.” La stessa scrittura è conoscenza. Quando Sgorlon si avvicina a un personaggio, gli gira attorno, ne odora i “profumi sottili”, le essenze più nascoste, poi, lavorando come una mola, vi aderisce per incontrare il mistero. Proprio come fa Silvano nei confronti dell’ex ardito e squadrista Germano: “Cominciai a girargli intorno e a studiarlo come fosse uno strano coleottero, o un irsuto animale scovato in qualche caverna.” Nemmeno la dolorosa storia di quegli anni dominati dal fascismo (che il protagonista, io narrante, chiama il “carnevale” o anche “la grande baraonda”, e gli italiani di allora il “popolo dei topi”) riesce ad estinguere o anche solo a frenare l’afflato di una ricerca che è sospinta dal fascino del mistero. La conoscenza, infatti, non è mai completa, non ha mai un esito finale, una risposta sicura, e lascia una sete continua, una fame insaziata, un desiderio incalzante e inestinguibile. Ad un certo punto scrive che caverne come quelle del Carso esistevano anche nella realtà “nella quale ci si poteva immergere senza fine, senza riuscirne mai a toccarne il fondo.” È in questo modo che Sgorlon, “invece di attraversare il mondo del vero e dell’accaduto, che avevo lasciato cadere da tempo”, ci trasmette, più che azioni, che infatti sono rade, un sentimento complesso e non classificabile, nel quale intuiamo che sono state raccolte e convivono le molte seduzioni legate ai nostri simboli, ai colori, alle immagini che ci siamo create sull’eternità, l’infinito, la leggenda, gli incantesimi, la paura, il mistero, il mito, il passato, l’antico, e chissà quant’altro ancora, in una nebulosa dentro cui si ha la sensazione di essere riusciti a racchiudere, anche se non a decifrare, il tutto che muove l’universo e la nostra vita.

L’amore per Isabella, perduta e ritrovata, e alla quale sono dedicate pagine tra le più belle e significative allorché la incontra a Trieste, sembra il disperato tentativo di dare un senso comune alla realtà di tutti i giorni, così come normalmente si fa, ma la stessa Isabella finirà per apparirgli avvolta nei molti simboli, nei molti enigmi che ci coinvolgono e non ci abbandonano mai e la sua presenza si dilaterà fino al punto di sovrastare la dolorosa realtà devastata dai venti della dittatura, delle leggi razziali e della guerra: “Pareva spesso in ascolto di voci che non si udivano o in contemplazione di scene che non si vedevano, come se la realtà che si guarda e si tocca non fosse che una parte del mondo, forse la più banale, e al di là ci fossero mille altre cose, che sfuggivano ai più, come se oltre le apparenze ci fossero significati che certe volte si potevano cogliere, solo che si facesse attenzione.”

Difficilmente troviamo un personaggio posto così al centro di una storia, come questo di Isabella. La magia e i simboli che sprigionano da questa giovane donna così piena di vita: (“entrava nella vita altrui come una ventata d’aria fresca”), permeano di sé gli altri personaggi, che ci appaiono avvolti nello stesso alone di mistero. Vi è una identificazione carismatica tra Isabella e gli altri, e anche tra lei e Silvano, e tra lei e l’autore addirittura, così che si potrebbe dire che il personaggio di Isabella rappresenti, secondo l’interpretazione universale e visionaria, istintuale, mitica ed esoterica di Sgorlon, dilatato, scarnificato ed insistito com’è, la parte migliore, sia pure debole e caduca, tuttavia fortemente liberatoria e redentrice, della condizione umana di tutti noi (“Nella vita ci sono misteriose altalene, sentimenti opposti salgono e scendono dentro di noi”), quella condizione che fa della nostra vita qualcosa di diverso e distinto, di più elevato e sacro – ma anche, ahimè, di folle, crudele e oscuro, al pari di quegli echi e di quei “roghi sterminati della guerra” che si levano nel finale con impetuoso crescendo – della stessa pur sempre fascinosa ed inafferrabile realtà.

“La tredicesima notte”

Premetto che stravedo per questo scrittore friulano e non potete immaginare la gioia che ho provata, leggendo l’incipit di questa storia, nel respirare un’atmosfera che cercai anch’io di rendere, con minor esito certamente, nel 1992 quando scrissi I figli di Ludovico. In un luogo di fantasia, Monterosso, un piccolo paese di montagna, con le case dipinte di rosa, di viola e di verde, avvengono delle morti strane tra gli abitanti: A volte si abbattevano al suolo improvvisamente, come cicute tagliate dalla falce, e portandosi le mani al petto in modi affannosi e rantolanti. Non si tratta di un’epidemia: Quei dolori improvvisi che trafiggevano il petto richiamarono per somiglianza gli spilloni che nelle fatture si infilano dentro le figure di cera, per invocare la morte di una persona detestata. Di questo scrittore ho letto L’ultima valle e La conchiglia di Anataj, dopo questo libro leggerò Il trono di legno, la sua opera forse maggiore, e già mi accarezza quell’aria sottile come un refolo di vento che percorre di suggestioni, di incantesimi, di malie le sue opere. Un autore capace di trasformare in un vetro trasparente la realtà, e mettere a nudo ciò che da sempre sta dietro al recinto delle cose concrete che ci circondano, e di ciascuna di esse ci mostra lo spirito che la fa esistere. Uno straordinario scrittore contemporaneo, uno dei pochi capaci di non farci rimpiangere i grandi romanzi del passato.

Individuata la strega causa del maleficio e bruciatala, e descritta la ribellione di tutte le donne di Monterosso che continuarono a dichiararsi streghe per solidarietà con la compagna finché non furono interrotte le inquisizioni, l’autore fa rapidamente scorrere circa due secoli di storia e le due guerre mondiali fino a che non s’incontra Emma Castenetto, discendente di quella Veronica che fu arsa viva. Di lei s’innamora un giovane venuto dall’America, Osvaldo, figlio di un emigrante e di una indiana, una cheyenne alta e fiera, dai capelli nerissimi, quasi blu, che aveva imparato a leggere il futuro nelle macchie delle pelli di bisonte. Si sposano in fretta e vanno ad abitare nella casa di lei, dove vive anche la madre Matilde, che fa il notaio di professione, il cui marito era fuggito in America e di lui si erano perdute le tracce. L’attrazione tra i due era tanto forte che: Lo facevano dove capitava, incuranti di poter essere sorpresi da Matilde, che subito si ritraeva come punta da un’ape. Qualcosa di strano c’è in quell’unione, così pensa Matilde. La storia è qui che prende l’avvio, alla ricerca del mistero che avvertiamo avvolge i due sposi. Che deriva da una profezia che la madre indiana ha fatto al figlio: Molte volte gli aveva detto, ora scherzando, ora con serietà, di non sposare mai una donna con i capelli rossi e il cui padre fosse cacciatore di animali da pelliccia. Sono queste due coincidenze che Osvaldo viene a scoprire nella sposa, ed allora quella profezia, alla quale aveva sempre dato poca importanza e rivelato ad Emma cercando di buttarla sullo scherzo, comincia a lavorare dentro di lui, che diventa taciturno, e nella casa entra un’atmosfera di tensione e di ansia paralizzante. Sembra che sia questo il filo conduttore: un rapporto matrimoniale su cui dovranno comporsi le minute tessere di un mosaico. Ma cosa fa l’autore? Mette subito fuori scena Osvaldo, che viene trovato morto in un lontano paese dove era stato mandato da Matilde per alcune ricerche catastali attinenti alla sua professione di notaio. Lo trovano in fondo a un canalone boscoso, semidivorato dai corvi e dalle volpi. E ora? mi sono chiesto. La profezia su cui immaginavo si costruisse la storia si è già abbattuta su colui per il quale era stata formulata. Dunque? L’autore sta giocando con il lettore? Che cosa resta da raccontare? E qui devo ammettere che, mentre la storia si snoda su di una scrittura non all’altezza di un migliore Sgorlon, un po’ trascurata, direi, con molte cacofonie e smagliature, all’inizio soprattutto, che potevano essere evitate, questa mossa imprevedibile, eppure così semplice, accresce l’attesa di un seguito che in questo momento è tutto da delineare. Che cosa ha in testa Sgorlon? La tessitura della trama comincia a dilatarsi; entrano in campo nuovi personaggi, il nobile decaduto Lanfranco di Cassinberg, che abita con il figlio Norberto e la sorella Doralice, il castello scalcinato e cadente di Monterosso ed ha in paese un’officina meccanica; e Fabrizio Mattioni che vive in California ed ha un grande successo come documentarista, nativo del paese, di cui è il figlio più celebre, sulla bocca di tutti. Ma i suoi lungometraggi sono lodati soprattutto dagli specialisti e non arrivano al grosso pubblico, ragion per cui non può vivere di solo cinema e si sa che si arrangia a fare altri lavori per campare. Anche la bambina che nasce da Emma, figlia di Osvaldo, si presenta sulla scena in modo insolito: Quando pareva che il parto stesse per concludersi felicemente, e che ormai fosse una questione di minuti, ci fu lo scatto di un meccanismo bizzarro della sorte, che lo bloccò e lo riportò in alto mare. Aveva i capelli rossi, come la madre, e le viene dato il nome di Veronica: un’altra Veronica Castenetto. È una bambina precoce, anche un po’ strana. All’età di cinque anni Matilde, la nonna, ed Emma, la madre, la portano in visita dai Cassinberg; Veronica per tutto il tempo giocò con Norberto, un coetaneo troppo taciturno da destare più di un sospetto sulla sua normalità (ma, come vedremo, si trasformerà da brutto anatroccolo in bianco cigno).

Sgorlon ha costruito il meccanismo: si apre un ventaglio di possibilità, s’intravede che alcuni percorsi, se scelti tra i tanti, porteranno a situazioni e circostanze oscure, tenebrose, tali da richiamare il passato e la tragica fine di quell’antenata che portava lo stesso nome di Veronica. Alla bambina cominciano ad accadere cose straordinarie, visioni anche, e addirittura, caduta nel fiume Duss e salvata da Wolf, il suo cane, un pastore tedesco che da cucciolo era appartenuto a Norberto, si asciuga gli abiti con la forza del pensiero: cominciò a rendersi conto che certe volte era sufficiente che lei pensasse qualcosa perché questa accadesse. Ce n’è già abbastanza per essere sicuri che l’autore ha deciso la sua scelta e sta facendo crescere il personaggio principale lentamente, ma con linee certe, le quali già ci prefigurano un mondo magico ricco di sorprese e di mistero, un mondo nel quale Sgorlon sa di potersi muovere a suo agio, e di non avere rivali. Una costruzione, questa, in cui si avverte anche il compiacimento. La scrittura, come si vede benissimo nel capitolo IV, si distende e la narrazione prende i colori della fiaba. Quella congiunzione, che si sa non facile, tra un mondo normale, ordinario, coi suoi monotoni gesti, e il mondo impossibile e fantastico della fiaba, qui avviene per una confluenza naturale, la cui spinta deriva da una ispirazione visionaria in cui si mescolano allucinazioni, prodigi e misticismo. Il rapporto tra il cane Wolf e la bambina può essere un esempio. E anche qui: I capelli crepitavano sotto il pettine come fossero elettrici, e più di una volta presero fuoco, con fiamme vere e proprie, che li lambivano e subito si spegnevano, alla maniera dei fuochi fatui nei cimiteri.

Veronica rideva ma le donne di casa erano attraversate da oscuri spaventi, che nemmeno osavano confidarsi.

Riporto, poiché do molta importanza a questo aspetto visionario e mistico, un altro brano significativo: Se ne stava sulle terrazze, con le braccia aperte e i capelli al vento, e rideva a ogni tuono e a ogni fulmine, come avesse con queste cose una lunga familiarità e un’oscura parentela, che veniva dalla radice stessa del suo essere, e forse anche da più lontano, molto prima che lei nascesse. Ma gli esempi abbondano e tale commistione appare sempre più evidente.

Ricordate Fabrizio Mattioni, il regista? È nella sua casa, rimasta vuota dopo la morte della madre, che Veronica ha modo di saldare l’amicizia con Norberto, Rebecca e Egidio, più o meno suoi coetanei. Scorrazzano per le stanze di questa casa immensa e si divertono a saccheggiarla e le bambine si provano gli abiti della povera defunta, si mettono il rossetto, e paiono donnine in età da marito. È attraverso il gioco che si prepara la crescita di Veronica, che è una crescita diversa dalle altre, speciale: Veronica si rese conto che esisteva il dolore di uomini e animali, e su di esso, per la prima volta, concentrava tutta la sua attenzione. Era il dolore del mondo, sospeso nascosto e segreto… E ancora: Lungo il ritorno fu attraversata da fruscianti impressioni di sentirsi tuttuno col bosco e di esservi già stata, prima di nascere… L’autore ci fa sentire che potrebbe esserci un collegamento tra questa Veronica e l’altra che fu bruciata, ma non ce ne dà certezza. Gioca anche lui sul mistero, giacché noi sappiamo poco di quell’antica donna, che era bella e fu bruciata innocente come fosse una strega. Intorno alla Veronica bambina si stanno a poco a poco radunando qualità, essenze nuove e straordinarie. È questa lenta evoluzione, che ha ancora il registro della fiaba, ad attrarre la nostra attenzione. In montagna l’istinto di Veronica era quello di parlare sottovoce alle rocce e ai ghiaioni, come parlava agli animali, e soprattutto a Wolf, che la seguiva e capiva ogni suo gesto. Ricordate Lanfranco di Cassinberg, il nobile decaduto che ora fa il meccanico e l’inventore, il padre di Norberto? Lui e il regista sono due pedine disposte sulla scacchiera molto tempo fa e quasi dimenticate, ed ora un filo sottile comincia ad avvicinarle alla protagonista. Veronica, che è una ragazza di quindici anni ormai donna (Adesso era una ragazza alta e ben fatta, di quelle che sono seguite per la strada dai fischi dei giovinotti), sente la mancanza di un padre, e vede nel signore del castello l’occasione per averne finalmente uno. È attratta da questa idea, che si fa sempre più forte. Comincia, ogni giovedì, a sparire, a stare lontano da casa più del consentito, mettendo in ansia la madre e la nonna. Si sa che se ne va in giro con Norberto, al quale si rivolgono le donne per scoprire l’arcano, ma inutilmente, e da lui apprendono solo che Veronica, quando giungono in alta montagna, al rifugio Edelweiss, vi entra, lasciandolo però fuori. Non sa se lì ci sia qualcuno ad attenderla. Quando la ragazza poi torna a casa, come se nulla fosse accaduto: Ogni tanto, senza dire una parola, si metteva a carezzare sua madre, come stesse per abbandonarla e andare chissà dove, per sempre. Vedete bene che l’aria qui si sta facendo rarefatta, il velo tra la realtà e il fantastico è ormai sottilissimo, e forse, ancora impercettibili, già si aprono spiragli che ci sospingono a guardare, a prepararci, ad attendere. E Veronica, proprio nel momento in cui la natura aveva cominciato a mandare in lei i suoi squilli più trionfali, rinunciava alle sue grazie e perfino a se stessa. Ma perché? Infatti, Veronica si taglia i capelli, si veste con abiti maschili e fugge da tutte quelle vanità femminili tipiche dei suoi anni. Ai paesani viene in mente, poiché la ragazza sente delle “voci”, e le sente unicamente lassù, in alta montagna, che sette secoli prima qualcuno era apparso ad una ragazza che si era smarrita. Quel qualcuno era nientemeno che la Madonna della Neve, per la quale era stata costruita la cattedrale di Monterosso. I Cassinberg tornano a comparire come fantasmi nella vita di Veronica, in quanto quella cattedrale fu disegnata e cominciata da un loro antenato, monaco templare: Ulderico di Cassinberg. La trama ora si sta davvero allargando, e sembrano tanto lontani gli inizi di questa storia, inizi che sono ormai usciti dal presente e si sono trasformati in ombre che, come nere nuvole, stanno sopra le vicende, incombono non per illuminarle, bensì per mantenere su di esse tutte le sfaccettature di un enigma che ogni volta pare avvicinarsi ad una soluzione, e, invece, se ne allontana, lasciandoci smarriti. Costringendoci, infine, ad un ritorno sui nostri passi per tentare un altro sentiero, un’altra possibilità. È una magnifica partita quella che Sgorlon sta conducendo con il lettore, e vale assai più della storia narrata, la quale va assomigliando, come dice lo stesso autore, a qualcosa che di simile accadde a Fatima o a Lourdes. È chiaro che non bisogna cadere nella trappola. L’autore vuole sviarci, sorprenderci. Si deve allora accrescere l’attenzione, raddoppiare la vigilanza; sta qui la fortuna di questo racconto: l’essere e il non essere ogni volta che sembra raggiunto il risultato. Si ha la sensazione che tutto stia per risolversi in una specie di replica della vita di Bernadette, o dei ragazzi di Fatima: Francesco, Giacinta e Lucia. Infatti a Monterosso si vagheggia che possa anche lì accadere il miracolo di un afflusso straordinario di pellegrini venuti apposta sul luogo delle apparizioni, e invece non accade niente di tutto ciò. Quel po’ di folla che era sul principio salita al rifugio, ora si è dispersa, ridotta a pochi elementi. Ed anche in Veronica non succede niente di quanto era successo agli altri, tutti o morti o finiti in convento. Lei aborriva il convento: Ma ciò che temeva di più era di finire in convento, dietro le grate di ferro di una clausura che a lei era sempre parsa simile a quella di una prigione. Di un filo lunghissimo, e di molte tinteggiature, è intessuta questa trama. A me è venuto in mente, dopo questa già numerosa serie di variazioni di direzione, che Sgorlon, non solo stia giocando con noi, ma tragga una pruriginosa soddisfazione da questo suo menarci a destra e a manca. Il piacere dello scrivere qui supera ogni limite come se Sgorlon volesse applicare al romanzo ciò che Johan Huizinga applicò alla storia, il gioco come strumento di rivelazione. In Veronica si accresce il desiderio della normalità, fa perfino ritorno a scuola, ma la sua presenza continua a generare fenomeni inspiegabili: non riusciva ad indossare vestiti senza che si strappasse qualcosa, le lampadine della sua casa scoppiavano, gli oggetti cambiavano di posto senza che nessuno li toccasse, il telefono squillava senza motivo. Lanfranco di Cassinberg dice la sua in proposito: si tratta di uno spirito burlone e dispettoso, che fa dannare la gente di casa. Ma i paesani vanno più in là e pensano alla presenza del diavolo, addirittura dentro il corpo della giovane. Sostengono che sia un’indemoniata; il parroco invece è di tutt’altro avviso: È senz’altro una medium potente… Non l’avete ancora capito? Quel desiderio di avere un padre, lo rammentate? Sgorlon non se lo è dimenticato ed aggancia quel filo che ci pareva interrotto. Veronica, nello sforzo di riprendere una vita normale, fa di tutto perché la madre Emma vada in gita con Lanfranco. Anche Norberto sente la mancanza della madre, morta quando aveva quattro anni. Entrambi desiderano che i genitori si sposino. Ma non accadrà. Ancora un fatto straordinario lascerà orfani i due giovani, e si torna ad avvertire la presenza incombente di quei fantasmi che ogni tanto vengono a ricordarci che tutto ciò che sta racchiuso in loro, quel presente ogni volta trasformato in passato, è lì, e sparge, quando meno lo si aspetti, quegli invisibili impulsi che rendono sorprendente, misteriosa e inspiegabile la vita. Per l’atmosfera che si respira, questa di Sgorlon sembrerebbe una storia lontana nei tempi, che ci viene ricordata come una favola, e invece Veronica indossa la minigonna, quando arriva quella moda, e si tiene aggiornata sulle novità che sono continue e numerose, anche se la ragazza aveva l’impressione di aver fatto parte, in altre epoche geologiche, della grande famiglia degli uccelli, così come forse essi si ricordavano d’essere stati rettili e di avere respirato con le branchie, nei laghi e negli stagni di terraferma. Comincia a delinearsi una saldatura tra questa Veronica e l’altra che fu bruciata, ma non proprio; è meglio dire: tra questa Veronica e le donne che protestarono sulla piazza di Monterosso per porre fine alle atrocità dell’Inquisizione. Si desta in lei anche una repulsione per tutto ciò che è maschile, che però non durerà molto, e l’intuizione che la donna è qualcosa di più preziosa dell’uomo. Anche le figure degli amici Norberto, Rebecca ed Egidio, tutti ormai cresciuti nel frattempo, vengono messe a fuoco e così si intuisce che l’autore ha cucito insieme alcuni fili gettati all’inizio del racconto, e taluni di essi (non tutti) hanno concluso la loro funzione d’intreccio ed ora se ne distendono altri, prima raggomitolati in un informe abbozzo, per avviare una nuova fase. Ci si rende conto della complessità della storia, che appare come un fiume dai molti affluenti, nonostante che la narrazione sia condotta con la leggerezza della fiaba. Ma è a questo punto che si verifica un passaggio importante. Ci eravamo fatti un’idea di una Veronica la cui qualità principale erano le sue doti ultranaturali; si era finora mossa in un ambiente fatto di realtà e di ombre, circondata da un alone fascinoso di mistero. Ebbene, si può dire che, d’un tratto, Veronica muta, si avvicina ad essere una donna come le altre. È diventata architetto, Egidio è in America per imparare a fare il giornalista; Veronica teme che qualcosa glielo rubi laggiù, e non faccia più ritorno. Essendosi concessa a lui una notte, lo considera suo marito a tutti gli effetti e porta la fede al dito perché in paese lo sappiano tutti. Convince la nonna Matilde a ristrutturare la loro vecchia casa e la trasforma in una grande villa dall’aspetto antico ed elegante. Fa questo per preparare una casa accogliente al ritorno di Egidio, ma – è questo soprattutto l’aspetto che vorrei sottolineare – avverte che le sue radici sono lì, a Monterosso (Per difendere la sostanza della sua persona doveva restare a Monterosso. Questo era il senso del futuro), e che il futuro è possibile, vivibile, solo se ci sarà un ritorno al passato: Solo gli uomini senza passato e senza fantasia potevano credere che si vivesse ancora nell’epoca dello sviluppo senza limiti, e invece esso cominciava a incrinarsi e a entrare in crisi da tutte le parti. È uno dei passaggi più impegnativi, a mio avviso, per comprendere il senso di questa storia accidentata, dai molti inviti e dalle molte sospensioni. Fra tutte le percezioni ultrasensoriali di Veronica è questa che ne delinea finalmente la figura. Anche la scrittura acquista un ritmo più veloce, come se avesse trovato, anche lei finalmente, l’alveo antico, dal percorso certo e desiderato. E come per magia i vecchi emigranti tornano, incaricano lei, che ha dato prova della sua bravura, a ristrutturare le loro vecchie abitazioni. A Veronica tutto questo parve l’inizio di un’epoca nuova. Ecco in che cosa si sta trasformando Veronica, in un tramite grazie al quale gli dei, come li chiama l’autore, stavano ritornando, travestiti da mendicanti, per non farsi riconoscere, come aveva fatto Ulisse dopo essere sbarcato sulla sua isola rocciosa. Ora Veronica era felice. Il senso del tempo che trascorre, tuttavia, più che da questi cambiamenti, è tutto raccolto nella figura di Matilde, la nonna di Veronica. Ritiratasi dal suo lavoro di notaio, nel suo spirito e sul suo volto corrono i segni del tempo: il suo tempo era consumato, e ormai la morte aveva cominciato a farle la posta dietro ogni muro e ogni cantone. Lei aveva fatto una vita sana e morigerata, ma il suo fisico si era logorato lo stesso. Dirà più avanti, a proposito di Doralice, la sorella di Lanfranco di Cassinberg: La morte… Già, c’era anche lei… Sono pagine non casuali. L’autore ci ricorda che è l’arcano, l’inspiegabile, il mistero a dominare l’esistenza. Non vuol farcelo dimenticare, perché ha in serbo ancora qualche sorpresa per noi. Ecco che Norberto dona a Veronica, come regalo del suo matrimonio con Egidio (non sa che non è mai stato celebrato, ed è una finzione di Veronica), una delle cose più preziose che ha al castello: un antico codice miniato, con ventisei fogli di pergamena, nel quale è racchiusa la storia dell’incontro tra Riccardo Cuor di Leone e il suo avo Ulderico di Cassinberg, monaco templare, e come tra i due si pervenne alla decisione di costruire la bella cattedrale di Monterosso. Si tratta di un dono troppo prezioso per non significare qualcosa che al momento si intuisce soltanto, così come s’intuisce, per una frase lasciata correre in sordina dall’autore, che in America qualcosa d’importante doveva essere accaduto a Egidio, il cui rapporto con la bella Veronica non riesce a decollare, non per colpa della donna, ma per una sua incomprensibile freddezza. Ci si accorge che si stanno aprendo altri due fronti di questa complessa narrazione, e devo ammettere che solo ora mi domando la ragione di quel titolo così colmo di suggestione. Infatti, che cosa può significare: La tredicesima notte? Finalmente vengono messe a fuoco due figure, che si sono presentate più di una volta al lettore: Norberto di Cassinberg e Rebecca, l’amica sguaiata e dispettosa, e si scopre che il talento pittorico del giovane, che si estrinseca nella riproduzione di quadri famosi, si sta affermando nel mondo e i più importanti musei ricorrono a lui ogni volta che mandano al restauro l’originale: Meglio una copia ben fatta che la parete vuota; Rebecca, invece, si sta ormai rivelando dotata di potere magici, di cui hanno fatto già le spese uomini e donne del paese: Così Rebecca s’era convinta di essere in possesso di una potenza sterminata, che lei medesima in qualche modo temeva. Ci si domanda, a questo punto, che rapporto l’autore sta pensando di instaurare tra Veronica e Rebecca, entrambe dotate di poteri particolari. Quanti fili sta muovendo il burattinaio Sgorlon! Devo ammettere che, nonostante che il romanzo non abbia la finezza delle suggestioni presenti in altre sue opere, l’azzardo della struttura narrativa qui è portato a livelli molto alti. Non bastando, una volta messe a fuoco le fisionomie dei due personaggi, ci fa capire che tra Norberto e Rebecca c’è forse un rapporto inquietante, legato alla personalità dominatrice della donna. Ancora una volta ci si domanda: che cos’è La tredicesima notte? Non certo quella del terremoto che distrugge Monterosso e si porta via l’unica vittima, Matilde, ormai vecchia e già da tempo ghermita dalle ombre della morte. Morta di infarto, seduta nella sua poltrona, dalla quale non aveva voluto muoversi nonostante le insistenze di Veronica. Anzi, si era adornata dei suoi gioielli più preziosi e l’aveva attesa, la nera signora. Si è frantumato così, inaspettatamente, il sogno di Veronica di vedere il suo Monterosso come il Paese del Ritorno? Sperava che Fabrizio Mattioni, il figlio più illustre di Monterosso, il regista che era stato famoso ed incontrava ora difficoltà in quell’America capace di bruciare in poco tempo ogni ordine di ambizioni e di speranze, tornasse, come avevano già fatto in tanti, anche lui nella sua terra. Ma di lui non si sapeva più niente. Perfino la Cattedrale era stata ridotta dal terremoto in un ammasso di rovine. Gli dei non sarebbero più tornati, perciò, a Monterosso; dovevano rimandare la loro venuta, perché anche i loro templi erano andati disfatti? Si scopre la ragione per cui Egidio è fuggito dall’America, una ragione grave, però Veronica gli perdona tutto, ma non andrà mai a Milano, dove ora lui fa il giornalista per il Corriere della sera. È impegnata, come i suoi compaesani, alla ricostruzione del paese, giacché si è convinta che: Monterosso non finiva, così come non moriva la civiltà alpina e contadina, che fabbriche e ciminiere parevano aver sconfitto e cacciato dal versante vivo della storia. Al contrario, era la civiltà industriale che era entrata in affanno e mostrava tutti i suoi lividi e le sue scuciture. Quest’ultima condanna è dura e inappellabile. Norberto è l’unico degli amici più vicini ad accostarsi alla sensibilità e alla determinazione di Veronica. Desidera ricostruire la Cattedrale che sette secoli prima aveva voluto il suo antenato Ulderico di Cassinberg, e si mette a ricercare, ordinare e numerare le pietre cadute, affinché sia più facile provvedervi. Intanto, uno dei sogni di Veronica si realizza, ossia si scopre che quel misterioso personaggio, alto, con una folta criniera di capelli grigi, e una barba arricciata e selvosa, che da qualche tempo gira per il paese, altri non è che Fabrizio Mattioni, il regista tornato a Monterosso dall’America. Nella casa di questi (dove da bambina Veronica giocava con gli amici), per la precisione in fondo ad un pozzo, viene rinvenuta una scoperta davvero interessante, che provocherà dei cambiamenti significativi, in primo luogo nei confronti proprio di Veronica, che riuscirà, fra l’altro, a spiegarsi del perché è dotata di quei poteri particolari, ed infine nei confronti del paese. La rinascita della Cattedrale, la quale riprende a poco a poco la sua forma antica, sembra resuscitare nel paese le incarnazioni di sette secoli prima, quando Ulderico di Cassinberg si accinse alla sua edificazione, e la stessa narrazione pare volgersi indietro, ora, come a tessere un cerchio magico, ossia: a trasformare ancora una volta il presente nel passato, come un filo della tela infinita che costituiva “il dolore del mondo”. E, a proposito di Veronica, l’autore scrive: Si sedette su un sasso, e sentì quasi freddo. La temperatura si era abbassata di colpo, e il cielo era tutto verdastro di nuvole. Capì che presto sarebbe nevicato, anche se marzo era per finire, e la primavera era alle porte. Nell’immaginazione vide una grande nevicata che copriva ogni cosa, i tetti e le strade di Monterosso, i rami degli alberi, i prati, i boschi, le montagne, come quella che, secondo la leggenda, si era verificata a Monterosso subito dopo l’esecuzione di Veronica Castenetto, sua antenata, per restituire pace agli uomini e alle cose. Aspettò un poco, poi si accorse che davvero erano cominciati a cadere grandi fiocchi. Le venne da sorridere perché sentiva che il Grande Mago era ritornato. Lo spettacolo senza fine ricominciava. È la chiusa della storia, e toccherà proprio all’ultimo capitolo rivelarci che cos’è La tredicesima notte; vedrete, una notte che, come dice l’autore, non aveva il corrispondente in nessun luogo della terra. Ecco, il cerchio si è chiuso, il presente si è unito al passato.

“Il trono di legno”

Non mi era mai successo di sottolineare la prima riga di un romanzo: Da ragazzo vissi sempre con la testa piena di vento. Non è bella? Non ci fa già assaporare promesse intriganti?

Il primo capitolo ci dice che il protagonista narrante, in quel tempo che rammemora, viveva da solo con una certa Maddalena, che s’intuisce possa rappresentare ciò che resta della sua famiglia, ma non si sa niente, se sia una sorella, la mamma, una parente qualsiasi o una donna generosa che ha preso con sé quest’orfano sventurato. Il protagonista ci racconta solo che ogni tanto la vede sparire dentro un calesse che l’aspettava in luoghi solitari, dietro una macchia di acacie o di ontani. Si accenna a un Danese, di cui crede di udire la voce, quando scende in cantina, miracolosamente ricomparso nella casa che aveva abitata tanti anni prima, che deve essere stato un avo importante, al quale immagina appartengano vecchie carte geografiche e libri e quaderni scritti in una lingua incomprensibile. Al ragazzo, inoltre, piace sopra ogni cosa il canto delle civette. Non c’era suono che io amassi di più. QUELLO ERA PER ME IL RE DI TUTTI I SUONI ESISTENTI, E CONFERIVA ALLA CASA UN’INESPRIMIBILE DIGNITí€ (il carattere maiuscolo è nel testo). Conduce un’infanzia da vero selvatico, impara a leggere e a scrivere da solo, non ha amici. Riesce ad ottenere la licenza elementare, ma non vuole proseguire gli studi. Ha attitudine ai lavori manuali che esaltino la sua fantasia, quali costruire un mulino a vento, una barca a vela, un carrettino, un rampone da baleniere ed altre cose del genere. Gli piace leggere e nella lettura si tuffa con accanimento barbarico. Tra i suoi libri preferiti: Moby Dick, che suscita in lui suggestioni di imprese epiche di cui è il protagonista. Un ragazzo, questo Giuliano, assai precoce, dunque, che ha molta fantasia e si nutre di fantasia. Il paese di Ontàns, vicino al quale vive, in una casa isolata da tutti, è troppo piccolo per lui, che assapora emozioni troppo grandi per essere soddisfatte nella lettura di libri avventurosi.

Mi vengono in mente personaggi immortali creati da Mark Twain, desiderosi della fuga verso una libertà assoluta.

Una rivelazione importante su Maddalena fattagli da un uomo scontroso, bizzarro, Luca, che gira nella notte anche intorno a casa sua, (è forse lui l’uomo che segretamente incontra Maddalena su quel calesse?), un cacciatore accanito, che in casa ha molte teste imbalsamate di caprioli e di cinghiali, i suoi trofei, sarà decisiva per la sua fuga verso l’ignoto, da scoprire e da gustare, il solo che possa dare soddisfazione al suo spirito. Mi pareva di essere nato proprio per salire sul primo veicolo a portata di mano e andare alla ventura. È il suo un viaggio della conoscenza? Se sì, mi domando come Sgorlon abbia immaginato questa storia per non renderla simile a tante altre già scritte e conosciute. È il primo interesse che mi stuzzica leggendo il libro.

Poi si comincia a capire che potrebbe darsi una conoscenza diversa, forse anche più difficile, un’impresa più ardua che aspetta il ragazzo: Tutto mi pareva fluttuante e nuvoloso, quasi che la realtà fosse qualcosa di vago e di soggettivo, e soprattutto come potessero esservi vari livelli di consistenza, tra i limiti estremi del fantastico e del reale. Beh, mica male questo tema che si è scelto – certamente a lui molto caro e già avvicinato altre volte – ma qui c’è una sensibilità vergine, ancora intatta, da imprimere, in cui i primi bagliori, le prime sorprese, le prime intuizioni, le prime scoperte, modellano una personalità in formazione, costruiscono un uomo. E Giuliano, lo si è già capito, non si accontenta di una conoscenza che stia nei limiti della realtà che lo circonda; la sua ambizione è più grande. E forse il seguirlo in questa esperienza aiuterà anche noi.

Si cominciano intanto a diradare le nebbie che lo circondano più da vicino. Viene a sapere talune cose importanti su sua madre e su Maddalena e sui rapporti di Luca con entrambe le donne; va in giro per scoprire anche chi fosse il Danese che aveva abitato la sua casa. Questa figura è la prima che domina con una certa efficacia la fantasia del ragazzo, che apprende come fosse venuto da via, ossia da lontano, da luoghi misteriosi, e di lui nessuno sapesse dire niente ed erano nate dicerie, che lo volevano un prete sfatto, un disertore, oltre che un marinaio. La cosa certa era che, giunto lui in paese, la vita del luogo era cambiata. Il Danese spargeva a quattro mani i suoi molti denari in feste e baldorie, che teneva nella casa che ora abitava Giuliano, la quale, pur così isolata, era diventata la meta di giovani e ragazze, che andavano a divertirsi da lui, che era arrivato al punto di assoldare una banda di musicanti, con tromboni e tamburi, e l’aveva tenuta in casa per due settimane. Elvira, una bella ragazza del paese, contro la volontà del padre, va a vivere con lui, diventa la sua donna. Eppoi, come per incanto, se n’era andato, con la carrozza con cui era arrivato tanti mesi prima, portando con sé soltanto la donna.

La narrazione, al momento, è molto lineare, rimane al centro dell’attenzione il ragazzo con la sua fantasia. È lui che sta conducendo il filo della storia, saldamente tenuto nelle sue mani, anche se qua e là s’intuiscono nicchie di possibili trame che l’autore lascia sparse come in una risacca, dalle quali potrebbero germinare ramificazioni che tutto lascia prevedere influenti e suggestive. Anche sul padre si diradano le nebbie. Un giorno, dopo la partenza del Danese, passati ben venticinque anni, nella casa da lui abbandonata viene ad abitare uno strano giovinotto, un tipo di vagabondo, con i capelli lunghi, che parlava un po’ il nostro dialetto, ma con accento straniero.

Non vi nascondo che leggendo questa presentazione, mi è tornato in mente il padre di Arturo, Wilhelm Gerace, nel romanzo L’Isola di Arturo di Elsa Morante, uscito nel 1957, e allora mi sono ricordato delle ansie che attanagliavano la mente di questo ragazzo, e forse un punto in comune c’è tra i due, tra quel lontano bambino, catturato dal mistero del padre, e questo Giuliano, comparso con le stesse trepidazioni, tanti anni dopo, nel 1973, costruito dalle mani di un altro abile e coinvolgente tessitore.

Le letture, soprattutto di storia, le figure di Cesare, Alessandro, Annibale, Gengis Kahn, il contatto con gli zingari, la cui vita nomade lo attirava, i giochi con ragazze coetanee un po’ sguaiate e libere, sollecitano in lui l’urgenza di scoprire una realtà che mi sfuggiva, che si rivelava nebulosamente, al di là di un velo. Tutto ciò con il quale viene a contatto possiede un alone di mistero: alle fantasie sul Danese, sui genitori sconosciuti, su Maddalena, di cui non sa perché esca a tutte le ore e qualche volta non rincasa la notte, sulla Villa della Contessa, in cui anni prima si era tragicamente conclusa una storia d’amore, si aggiunge il fascino misterioso di una ragazza, Flora (ragazzetta già donna, folle, libera e senza pudori), di cui Giuliano forse s’innamora, la quale pare inseguita da qualcuno che non si sa chi sia, che non si vede, e che la chiama: Flora! Flora! Flora! Da queste esperienze – dice Giuliano – ricavavo la medesima convinzione; che la realtà, le cose più vere del mondo erano al di là del sipario, e non di qua, vicino a me.

Dunque si conferma la storia di un viaggio verso la conoscenza, ma si delinea una sua peculiarità: non si tratta di una conoscenza ordinaria quella che il ragazzo va cercando, ma una conoscenza più profonda, rivelata e stimolata dall’intuizione che le cose più importanti, più vere, stanno dietro la realtà, che è quindi soltanto un’apparenza, una maschera. Ci si sta, a quell’età così giovane, per avvicinare ad un limite che spesso è del tutto ignorato dai grandi, e così viene spontaneo pensare a Giuliano come ad un ragazzo speciale; grazie a lui il viaggio che stiamo facendo insieme al protagonista ci aprirà la porta segreta di una realtà di cui non si sospettava l’esistenza. Non poteva Sgorlon creare per noi, viaggiatori pronti ad annoiarci, un’attrattiva migliore di questa.

Flora è il primo personaggio che si delinei con maggiore evidenza, pur nel mistero che ancora non si è diradato intorno a lei. La sua disinvoltura, la sua incostanza, il suo umore ballerino, la sua voglia sfrenata di fare l’amore, al punto di piombare in camera di Giuliano in piena notte, senza essere vista da nessuno (è lei la donna con la quale Giuliano si congiungerà per la prima volta), ce la rendono subito quale espressione di un reale bizzarro, caleidoscopico, capace di molte sfaccettature in una medesima persona, come se dentro l’essere umano si riflettesse e nascondesse quella realtà diversa che s’intuisce, e non si riesce a scorgere.

Quelle pagine che l’autore dedica a Flora nel momento in cui misteriosamente scompare sono molto belle e delicate. Notate questo brano: Forse Flora aveva fuggito il freddo e la neve perché era fatta per vivere soltanto dove l’esistenza è più dolce e si lascia assaporare a fondo, nei luoghi caldi e mediterranei, o per seguire un misterioso richiamo della natura come avesse l’istinto degli uccelli migratori. E la sua vicinanza non poteva durare più di un’estate e un autunno… Ci sentiamo già soddisfatti di questa lettura che costruisce figure così incantate, dietro le quali s’intravede il mistero di una creazione infinita, che continua dentro ciascun essere umano ed oggi ci fa sentire in un modo, e domani, o qualche attimo dopo, ci trasformiamo in altri personaggi, nei quali si ode l’eco di ciò che siamo stati. Qui Sgorlon sta dando il massimo; avvertiamo di avere a che fare con un narratore di notevole spessore, tra i maggiori del nostro tempo. Forse il mondo mi sembrava un piacevole segreto che attendeva di essere svelato soltanto perché io proiettavo su di esso ciò che invece esisteva in me.

Il cammino di Giuliano è alimentato dai sogni e dalle fantasticherie. Quando si trova vicino a Maddalena – la donna che lo ha allevato, prendendosi cura di lui -, morente nel letto, che gli rivela di aver ricevuto anni addietro la lettera del Danese, nonno del ragazzo (il cui nome è proprio di quella terra: Daniel Wivallius, che vive nella città di Aahrus), quando corre a chiamare un medico in mezzo alla neve e al freddo intenso, quando ritorna sul calesse del medico, non riesce a pensare alla malattia della donna, ma il suo sguardo al paesaggio intorno, alle montagne imbiancate, ai magredi coperti di neve, lo stesso vento che soffia nelle gole, lo trasportano ai confini di un mondo favoloso che pare attendere solo lui per svelarsi. Perfino davanti al cadavere di Maddalena, la sua mente non riesce a restare lì: Chissà quante navi, in quel momento, lottavano contro la nebbia, le onde, il vento, nei mari freddi, chissà quanti urli di sirene, grida affannose di marinai, stive allagate e scialuppe calate frettolosamente sopra onde che scuotevano la schiena, come cavalli selvaggi… Sepolta Maddalena in una tomba, la più bella di tutto il cimitero, fatta costruire dal suo amante che ora sappiamo chi sia: un possidente molto ricco di Montebelluna, si scioglie l’ultimo laccio che riusciva a mettere un freno all’impeto delle sue fantasie: Ero sempre più staccato dalla mia situazione reale. E più avanti: allora era segno che ero io a dovermene andare. Adesso nulla vietava che lo facessi.

Si sta preparando il grande viaggio, dunque, il viaggio che cercherà di trovare una congiunzione tra la nostra fantasia e il pullulare delle infinite esistenze. Ci sentiamo vicini a Giuliano, ci serriamo al suo fianco, anche noi ci stiamo preparando con la nostra fantasia, pronti ad incontrare e misurare il mistero. Seguiamolo per un attimo: Decisi di non portar via quasi nulla. Tutto sarebbe rimasto lì, e mi avrebbe atteso magari per decenni, perché non era escluso che un giorno sarei potuto tornare. Capii che non potevo tagliare l’ultimo ponte; che una passerella, un filo soltanto, magari, non possono non continuare a esistere dietro di noi, per legarci al passato. È il motivo caro a Sgorlon delle radici che stanno salde nel passato, il quale è sempre dentro di noi, si fa presente, affinché ci ricordiamo di lui per preparare il nostro ritorno.

La partenza avviene di notte, senza salutare nessuno, nemmeno la zingarella Lucilla, che aveva preso il posto di Flora. Come sempre avviene, quando ci si allontana da un luogo dove abbiamo lasciato tracce dei nostri sentimenti, si ha paura del cambiamento: Avevo paura di pentirmi e di tornare indietro. Mentre camminavo verso il ponte del Tagliamento, pensavo che forse non avevo la tempra del Danese, e non ero adatto ad affrontare l’ignoto. Sarei diventato, probabilmente, solo un emigrante come tanti altri, e appena finiti i soldi mi sarei messo a lavorare in una fornace o in qualche cantiere.

Ho riportato questi ultimi brani, perché li ritengo fondamentali per spiegare come si avvia in ciascuno di noi il viaggio verso la conoscenza, verso l’ignoto. C’è sempre il timore di fermarsi, di non assecondare il nostro istinto, di non sentirsi adeguati a reggere la forza della nostra fantasia, dei nostri sogni (il sogno è presente molte volte in questo viaggio), dei nostri ideali. Si ha paura che il passato si arresti, che dopo essersi inserito nel presente, non abbia la forza di proseguire, di trasformare, cioè, anche il futuro nell’albero nato da quelle lontane radici.

Mi rammento solo ora che la dedica del libro Ai miei genitori ha proprio un significato di questa natura. È il nostro viaggio, ma è soprattutto il viaggio di Sgorlon, che lo offre a noi, come un dono prezioso, raro, forse unico, per incoraggiarci a percorrere la stessa magica strada, che compare, come il fascio di luce di una stella cadente, all’improvviso, e ci fa capire che non accadrà più: e quindi la si colga, ci s’incammini dentro quella luce, prima che si consumi e si spenga.

È una realtà, quella ignota, che si rimodella sempre, nel suo fascino misterioso, all’arcano che è dentro di noi: la neve bastò a darmi la sensazione che era piacevole buttarsi, così a capofitto, dentro la realtà misteriosamente intatta che io avevo sempre sentito vivere dentro di me… Non c’è quindi nulla di estraneo fuori di noi; la chiave per vedere, per capire, per emozionarsi è in noi: tutto comincia da noi, da ciò di cui siamo composti, che non è uguale e che non solo fa diversi l’uno dall’altro, ma diverse rende anche le realtà che si formano fuori di noi. È un cammino parallelo, che nel momento che si dischiude al nostro interno, apre il velo di ciò che sta fuori. La prima conoscenza, il primo contatto tra le due realtà avviene quando, tra le montagne colme di neve, in mezzo ai passi solitari e ventosi, nella paura dei luoghi e dello smarrimento, avverte: Mi sembrava di diventare una parte del luogo, un oggetto qualsiasi, per esempio il tronco di un abete, o un macigno con le crepe stagnate dal ghiaccio e dalla neve.

Sta andando a cercare Flora, di cui ha avuto, mentre voleva recarsi in Danimarca alle ricerche del nonno, vaghe indicazioni da uno sconosciuto incontrato sul treno.

Giunge a Cretis, un paesino sperduto tra i monti, dove vive una ragazza dalla bellezza fresca e riposante, taciturna, laboriosa; ha i tratti antichi degli etruschi, la chiamerà l’Etrusca (e vedrete da soli che ci riserverà più di una sorpresa): mi parve che il viso tondo e gli occhi della ragazza mi ricordassero qualcosa, ma non ci feci caso più di tanto. Del resto avevo quasi sempre la sensazione che ciò che mi circondava rimandasse a cose più lontane, che si affacciavano appena negli anfratti e negli spessori allusivi del passato. E ancora: Una volta mi parve di capire cosa avesse il suo viso, che mi sembrava stranamente già noto. Il suo naso diritto, gli occhi ben tagliati, gli zigomi alti e sporgenti, la frequente immobilità realizzavano in lei un tipo antico di donna, che avevo tante volte visto in un libro di scultura: quello etrusco.

In ogni cosa che incontra o che sente, Giuliano realizza l’incontro tra il presente e il passato. È il sensore della loro congiunzione perpetua. Come Namu, che vive a Cretis e fa la guaritrice: una donna piccola e rinsecchita dai tratti che rimandano alle civiltà lontane degli Atzechi o dei Maya: uno sbiadito ricordo del passato, rimasto impigliato chissà come nella rete del presente. Fu proprio questa l’idea che mi saltellò per la testa: che Namu fosse vissuta secoli prima, ai tempi di Montezuma, e le sue fasciature non fossero destinate a me ma a qualche guerriero ferito fra le piante di mais o di agave americana. Quale potere rievocativo ha questo narratore, quale capacità di penetrazione ha in dono la sua scrittura!

Giuliano è sulle tracce di Flora; fermarsi a Cretis forse gli darà la possibilità di incontrarla; si decide a restare, perciò (la mia non era più una ricerca ma un’attesa); aiuta i suoi ospiti, Pietro e il Rosso, nei loro lavori. L’atmosfera che si crea in quel paese da nulla, seppellito nella neve e nel silenzio, è la stessa che ritroveremo, dieci anni dopo (1983), soprattutto ne La conchiglia di Anataj, dove nelle lande sperdute della Siberia colma di neve si narra della costruzione di una ferrovia. Vi si avverte la stessa sensazione mitica dell’esistenza.

È a Cretis, nella casa di Pietro, di Rosso, di Namu e dell’Etrusca che Giuliano vede un seggiolone a braccioli che pareva un rozzo trono di legno (dirà più avanti che quella di Pietro era una piccola corte contadina), su cui sta seduto il Rosso mentre suona la chitarra e gli altri cantano a voce bassa in una lingua che non era nessuna di quelle che io, pur non parlandole, ero in grado di riconoscere. Cretis, dunque, come paese del sogno, del mito che sta dentro ciascuno di noi. Paese che svela a Giuliano che il progetto che il destino aveva elaborato per lui: Forse avevo già cominciato a realizzarlo senza saperlo, e anzi ero convinto che per solito dovesse accadere proprio questo, ossia che solo dopo averlo realizzato si potesse vagamente riconoscerlo.

È una scoperta, un brano di quella conoscenza che non si sa mai se arriveremo a percepire e a conquistare fino in fondo. L’Etrusca si chiama Lia (non vogliamo dire di più) e Pietro è suo nonno. Entrambe le figure a poco a poco prendono rilievo. La prima diviene la donna di Giuliano, si concede a lui come se fosse un favoloso animale, e per lei il fare l’amore fosse qualcosa che riguardava soltanto la zona dell’istinto e della natura, e non fosse mai salito a complicare le cose in quella dell’intelletto. Pietro ha girato il mondo, e se lo porta con sé, pare un uomo senza età, e nato pressappoco al tempo della battaglia di Waterloo o delle prime rivoluzioni carbonare. È un raccontatore formidabile: Più particolari aggiungeva, più la sua narrazione sembrava diventare un mito. Dirà più avanti (in caratteri maiuscoli): PIETRO ERA UN RE DEI RACCONTI, ANCHE SE AVEVA POCHISSIMI ASCOLTATORI.

In quel paese, dunque, così piccolo e sperduto sui monti, nascosto dalla neve, in quella casa, attraverso la figura di questo vecchio senza età, si trasferiscono tutte le emozioni che sono sparse nel mondo, e Giuliano subisce un momento di arresto nella sua corsa verso l’ignoto. È abbagliato da una conoscenza vastissima, densa, ricca, che sta racchiusa dentro una singola persona, e da essa s’irradia per penetrare in noi, e si moltiplica in noi. Il mio unico rapporto con le terre polari si sarebbe limitato ai racconti di Pietro.

È un segno, questo, della magia, della seduzione della parola, e si avverte che è un grande omaggio che ad essa ha voluto tributare Sgorlon. Questo omaggio si fa evidente più avanti: Le esperienze di Pietro per me non esistevano se lui non le traduceva in parole. Quando lo faceva, era come se esse diventassero mie, vivessero anche in me, cessando di essere soltanto sue. Si arriva a concentrare tutta la potenza e la suggestione presenti nel mondo nel miracolo della parola. Mai omaggio è stato reso con tale grandezza, al punto che Giuliano pensa: Scorsi perfino la possibilità di rinunziare a cercare altrove le avventure sognate per contentarmi di ascoltare quelle che Pietro mi raccontava, poiché anche sentirle narrare era un modo di viverle.

Si intuisce che stiamo attraversando una zona importante della storia. Siamo come sospesi e l’ansia e la frenesia che ci prendono appaiono quali annunciatrici di una verità nuova che si sta per acquisire, nascosta prima da qualche parte, e che solo arrivando al termine di questo viaggio, riusciremo a conquistare, facendola nostra per sempre. Non ero più un visionario, ma da quando avevo conosciuto Pietro la mia capacità d’immaginare le cose era aumentata. Egli mi aveva insegnato a liberarmi dalla tirannia delle sensazioni presenti per cogliere percezioni lontane, che girano liberamente nel mondo, e che ogni tanto qualcuno riesce a sentire, anche se non sono legate all’immediatezza del concreto. C’è già, quindi, un risultato, ossia un modo diverso, rispetto a prima, di porsi nei confronti della realtà. Ora Giuliano è convinto che per lui è stato preparato un giorno felice in cui avrebbe conosciuto veramente se stesso e il suo destino. Cretis, luogo diventato mitico dentro di lui, appare una tappa importante. Lo attende qualcos’altro? Ma talvolta pensavo che il mio grande giorno fosse già passato e, quel che era peggio, io non avessi saputo riconoscerlo.

Non è, questa, la paura che deriva dalla indeterminatezza dei nostri desideri? La sensazione di smarrimento dentro l’infinito, confuso sogno che è la vita? Pietro è il prezioso e raro strumento di conoscenza che beffardamente il destino ha collocato, non alla vista di tutti, ma in un angolo sperduto tra i monti, che racconta e racconta il mistero, seduto, come un re in esilio circondato ormai soltanto dai fedelissimi, su quel seggiolone di rovere di Slavonia, che somigliava a un rozzo trono contadino. Pietro aveva ragione – dice Sgorlon – di non desiderare nulla di più di quello che aveva. Le storie che raccontava, infatti, trasformavano la stanza in una lanterna magica che produceva immagini a non finire, diventava la sfera stregata dentro la quale si poteva veder rifluire l’infinita varietà dell’universo. E appena più avanti: Cominciai a capire fino in fondo quale fosse la strepitosa potenza della parola e del racconto.

Credo che nessuno abbia mai elevato a così sublime livello l’inno alla parola e al narrare. E questo inno sorge da un villaggio minuto, povero, dimenticato. I giovani lo abbandonano, affascinati dal miraggio di una vita migliore, e si ha la percezione di una civiltà stupenda, rivelatrice di segreti immani, che si sta spegnendo, senza che alcuno si renda conto della irreparabilità della perdita. Si leva il canto malinconico di chi avverte – è il tema dominante della produzione di questo autore – il passaggio verso una modernità che è cieca e insensibile, tale da inaridire il cuore e la mente dell’uomo.

Ed eccolo il collegamento tra la civiltà che sta morendo e la magia della parola, che insieme con quella pare destinata a scomparire: La civiltà artigianale e contadina e il narrare parevano fatti l’una per l’altro. Giuliano intuisce che non è capitato a Cretis per caso. Il destino lo ha mandato lassù, perché si renda conto del valore di ciò che si sta perdendo. Anche Pietro non è più quello di prima. Quando racconta si sente che fa fatica. Ormai anche lui ha i giorni contati. Doveva custodire il mondo minacciato dei racconti, e la sua funzione era di rimitizzare il mondo, ma la morte che si avvicina e gli si mette a fianco gli bisbiglia dolore, malinconia, desolazione, sconfitta. Cosa fare, dunque? Restare poteva significare creare dentro Giuliano sbavature di incertezza che facevano perdere alla verità consistenza a mano a mano che il tempo passava. Conoscevo benissimo quel sentimento. Sapevo con esattezza come poteva accadere che una cosa dentro di noi si trasformasse progressivamente da certezza in leggenda, apparenza e fumo.

Il rischio è grande; a contatto della morte, della lenta e devastante decomposizione, tutto, anche quel viaggio intrapreso con tanta speranza, può contaminarsi e fallire. Il protagonista va cercando in giro per le valli e le montagne la prova della sua autonomia rispetto alla gente di Cretis; la prova che potevo saltar giù dalla diligenza, fuggire dalla gabbia, se avessi voluto, e volar via liberamente. Ma l’avvicinarsi del vecchio alla morte insinua in lui il convincimento di essere il suo erede, di aver ricevuto, tra i molti gesti compiuti da lui, anche un’investitura, un passaggio di consegne. Sono i momenti più straordinari vissuti dal giovane, che è messo di fronte ad una decisione da assumere molto forte, perché ha a che vedere con la formazione della sua personalità.

L’autore vi indugia scrivendo pagine e pagine in cui l’indecisione, l’alternanza dei pensieri, il passaggio continuo tra il mito che ammalia e l’ambizione di scoprire una realtà farraginosa e oscura che trasmette al nostro interno incessanti appelli alla conoscenza, si caricano di una tensione avvincente, che ci fa partecipi di una scelta che avvertiamo anche nostra.

La figura di Lia cresce e nel momento in cui Giuliano vibra del dubbio che lo assale, lei è muta con lui e, come un presentimento, la sua natura si dispiega e si rivela: Mentre suo nonno sembrava appartenere a ogni epoca, Lia pareva invece non essere di nessun tempo, essere solo la Donna Eterna.

Ma ecco che compare Flora. Quella sospensione che si era creata intorno al protagonista si dissolve. L’estro di Flora, la sua esuberanza, la forte personalità, la sua irrequietudine, sconvolgono la tranquilla esistenza degli abitanti di quella casa. Lei si mette, per naturale disposizione, e non perché lo voglia, al centro di tutto, della casa come del paese. La sua figura domina come una feudataria, come la regina di Saba.

Giuliano è il più colpito; si ridestano in lui gli antichi sentimenti, e tra questi quel desiderio di fuggire, di viaggiare, di allontanarsi da ciò che già si è conosciuto e non ha più niente da donarci. Sembra che sia l’arrivo di Flora a sconfiggere la sua indecisione, come se il passato fosse venuto di prepotenza con lei a riprendere in mano le redini di quel cammino che deve essere compiuto. Ma non è facile. Quelle sue attese coincidevano con la mia, ridonavano ad essa nuovo fervore, mentre solo poco prima pareva asfittica e morente. Flora diviene come uno specchio per Giuliano, l’attrazione che torna a provare per la donna non è solo sessuale; vi si insinua la seduzione di una vita in movimento, arruffata, che si può vivere anche con la testa nel sacco, ma è sempre qualcosa in più, di fantastico e di sublime, di diverso dalla sedentarietà di una vita a Cretis, dove una civiltà si sta sgretolando e non vi è altro che sapore di morte. Flora all’improvviso non c’è più. È partita. Scoprii subito che, senza Flora, mi sentivo estraneo a me stesso, perché non mi bastavo, perché lei si portava via qualcosa di me, forse la parte più importante, e io restavo come un luogo pieno di rovine, dal quale tutti coloro che amano la vita non avrebbero potuto che fuggire a precipizio. Non potei far altro che inseguirla. C’è l’identificazione in questo momento di Giuliano con Cretis morente, con Pietro morente, di cui è convinto che non sarà il suo erede in quella sorta di magico narrare.

C’è la paura che il viaggio s’interrompa, che quel giorno felice, in cui tutto il fantastico possibile può accadere, rischi davvero di non giungere mai più o addirittura di essere passato senza che se ne accorgesse. Flora comincia a prendere i contorni di un’ambizione, di una meta a cui tendere. Sarà lei, anziché il Danese, quel nonno contornato dal fascino e dal mistero, a rappresentare il traguardo di quel viaggio?

Qui devo osservare che la tessitura del romanzo è la più lineare che si potesse scegliere; il viaggio di Giuliano avrebbe potuto accendere nell’autore la fantasia di situazioni multiple e assai più complesse, ma la strada che viene percorsa, sebbene apparentemente semplice e scoperta, si snoda avvolta nelle atmosfere dell’invisibile, dell’impalpabile, dell’inafferrabile: Il mio spirito era teso a cogliere ogni richiamo che venisse da fuori, o che zampillasse e serpeggiasse dentro di me. Ed è ciò che dà alla storia quella luminosità, quella chiarezza, quella profondità che avvertiamo.

Ma qualcosa che già era apparso a Cretis prende consistenza a poco a poco. Sarà proprio la vita sregolata e nervosa con Flora a farla emergere. Flora è la prima meta che ha raggiunto e quella frenesia di lei lo guida alla prima scoperta, assai triste: Mi pareva di vivere circondato da tante cose che non si lasciavano raggiungere, che si spostavano sempre più in là. Oppure che, raggiunte, si rivelavano inconsistenti. A renderle così imprendibili ed evanescenti è il tempo, del cui spessore, della cui forza, della cui presenza perenne, Giuliano prende conoscenza, suo malgrado. Le cose che percepisce venivano spinte dalla mia parte, in un tutto continuo, ingrandivano davanti ai miei occhi, fino a giungere a portata di mano. Ma in quel punto io ero sempre distratto o assonnato, per cui passavano alle mie spalle troppo presto, senza che fossi riuscito a sentirne il reale spessore. Sono i primi segnali di una sconfitta? O questa presa d’atto è una delle componenti della conoscenza che va cercando?

Si accorge che Flora, tornata a lavorare nei teatri e divenuta di nuovo la donna misteriosa e imprendibile che si allontana sempre più da lui, in realtà ha la sostanza di quelle cose vuote che passavano come tappeti volanti sopra di lui; si fa forza e l’abbandona. Potevo trattenerla, conservarla totalmente soltanto nella memoria.

Così, di nuovo solo, ecco che arriva in Danimarca alla ricerca di quel nonno mitico, di quel Daniel Wivallius che aveva tanto mai nutrito la sua fantasia di visionario. Va in giro, nessuno conosce Daniel, ora è un’ombra anche lui. Ma è proprio lassù, in quel paese lontano in Danimarca, Aarhus, mentre lo cerca nelle case e nelle bettole, che ha la percezione di quella scoperta che andava cercando: Noi non eravamo che musiche effimere contenute da un disco, da uno spartito che può essere suonato infinite volte, mentre ritenevamo di essere lo spartito medesimo, e che i suoi fogli venissero stracciati con la nostra morte, in maniera che le note non venissero più ripetute. Le cose si ripetevano, ritornavano uguali, si ripercuotevano come echi, somigliando tutte quante a una accaduta in principio del tempo. Eccolo il passato. La sua forza sta nell’essere in se stesso anche presente e futuro. Ossia, il tempo.

Si sente finalmente cresciuto, sono passati molti anni trascorsi in giro con Flora, avverte che questa percezione può condurlo a una grande e risolutiva scoperta. Che è questa: la fantasia. Attraverso la fantasia avrei potuto vivere e raccontare tutte le avventure del mondo, mentre viverle veramente, ora, mi avrebbe soltanto generato un sentimento di noia e di ripetizione.

Dunque la fantasia è lo strumento più importante che possiede l’uomo per intuire, percepire la bellezza e il mistero che stanno al suo interno e nel mondo. E raccontare, al modo di Pietro, il vecchio abitante di Cretis, significa rappresentare la vita. Da sempre tendevo alle storie e al racconto. Già più volte avevo avuto la sensazione che le parole e il racconto fossero le cose più solide del mondo. Mentre le altre passavano fatalmente…(omissis) perché il tempo, il Grande Illusionista, ne simulava soltanto la concretezza e la solidità, quando in realtà le disgregava, ed esse erano soltanto simulacri, fantasmi che correvano dal futuro al passato, le parole invece erano eterne, e potevano servire per sempre a suscitare la suggestione delle cose. Dunque, l’avventura da me cercata, la festa lontana non avevano altro luogo che nel mondo della parola.

Il suo ritorno a Cretis è segnato dal destino, il quale tuttavia gli riserverà qualche sorpresa, che il lettore scoprirà da sé. Cretis sarà per Giuliano il centro del mondo.

È uno straordinario romanzo, questo di Sgorlon, in cui le singolari atmosfere sono rese con una delicatezza ineguagliabile, e che celebra la sua stessa natura: la parola e la sua magia. Ci crederete? È un romanzo così ricco di percezioni, di sensibilità, di limpidezza della scrittura, che scoraggia molti di noi a ripercorrere, così inadeguati dopo di lui, i sentieri magici della parola.

Carlo Sgorlon. Non riesco a comprendere il seguito di pubblico di alcuni narratori italiani viventi, di cui si sente parlare spesso. Confesso che non nutro per essi il necessario entusiasmo e mi trovo quasi sempre nella condizione di interrompere la lettura dei loro libri celebrati. Non così accade per Carlo Sgorlon, che considero un narratore vero, e raro nelle patrie lettere dell’Italia dei nostri giorni. I primi romanzi che ho letto di lui (solo dopo qualche tempo sono seguiti gli altri) e che mi hanno ammaliato, non uso a caso questo aggettivo, sono La conchiglia di Anataj e L’ultima valle. Figure come quelle di Anataj, di Gurka, zio Eroska, Vanka il luparo, ma ve ne sono molte altre, non si dimenticano. Ne La conchiglia di Anataj la storia si svolge in una paese oltre gli Urali, dove la neve e le asperità della vita non mancano, ammantandosi, nondimeno, come i paesaggi, di malia. Si centellinano le descrizioni suggestive di questo narratore friuliano che fa onore alla nostra letteratura, e del quale quasi nessuno parla, capace di adoperare parole come: micidioso, sbilencato, guardatura, sbrendoloso, sodezza, allarmosi. Anche ne L’ultima valle, dove un ingegnere è alle prese con la costruzione di una diga, non manca l’ampio respiro di una narrazione che sgorga spontanea e che attrae.

“Il vento nel vigneto”

Colui che ho sempre considerato il miglior narratore italiano vivente se n’è andato il giorno di Natale del 2009 (era nato nel 1930), una data di elezione, un segno distintivo per noi di riconoscenza e gratitudine.

Scrivere ancora sull’autore de “Il trono di legno†(1973), “La regina di Saba†(1975), “Gli dei torneranno†(1977), “La carrozza di rame†(1979), “La conchiglia di Anataj†(1983), “L’armata dei fiumi perduti†(1985), sei capolavori (ma non i soli), è da parte mia un doveroso omaggio che intendo fare a chi ha saputo trascinarmi nel mondo magico e misterioso della scrittura.

Ho scelto “Il vento nel vignetoâ€, perché fu il suo primo romanzo, e rappresentò il suo ingresso nel mondo delle lettere. Fu riscritto in dialetto friulano nel 1971 con il titolo “Prime di sereâ€.

Non si fa mai fatica a leggere Sgorlon, è un affabulatore nato. Una quiete, un piacere intimo ci avvolgono non appena iniziamo a scorrere i suoi romanzi.

Ne “Il vento nel vignetoâ€, un uomo, Eliseo Bastianutti, sulla cinquantina, “alto e massiccioâ€, un carrettiere, fa ritorno dopo anni al suo paese, Cassacco (è il paese in cui nacque Sgorlon). È stato in carcere a scontare una pena di circa trent’anni. Scende dal treno, la serata è ventosa, viene subito buio, è inverno. Lungo la strada scorge “pendere una frasca secca sopra la portaâ€. È un’osteria, entra e chiede da bere.

La vita di una volta fa irruzione in questa scena, anche se l’uomo ha visto passare sullo stradone “macchine e camion che correvano rombandoâ€. C’è sempre un angolo di antico fuori e dentro di noi. Basta coglierlo, lasciarlo affiorare.

La sorella Iolanda vive a Vendoglio, va da lei per ricevere aiuto, avere un lavoro, ma la trova fredda, distaccata, anzi dispiaciuta che sia tornato, con la brutta fama che ha. Sono le prime tappe difficili di un reinserimento: “Per loro è come se tu fossi mortoâ€. Eliseo prova vergogna della situazione in cui si trova. Che nessuno, cioè, abbia dimenticato la vecchia storia che l’ha condotto in carcere. Quale storia? È troppo presto per saperlo. Sgorlon non ha fretta, è un raccontatore alla maniera antica, scaltro, abile nell’intreccio, come lo era nella realtà suo nonno, dal quale ha imparato l’arte. Ci fa sapere che tutto è accaduto “per un’ora di rabbia bestialeâ€, e dobbiamo per il momento accontentarci.

Non solo la sorella, ma nessun altro lo vuole accogliere, avendo saputo che è stato in galera, tuttavia Eliseo “sentiva con forza che non voleva e non doveva andarsene dai suoi paesi.â€

È lo stesso amore di Sgorlon per la sua terra. Nessuno vi può rinunciare, nemmeno se ha contro il mondo intero. La terrea natia è madre e sposa. “Chiese a Dio che gli desse una mano.â€

Quando riesce finalmente a trovare una stanza tutta sua dove poter alloggiare gli sembrò una grande conquista e che ora c’era il modo di ricominciare: “Aveva un letto, un tetto, un numero di casa…â€

Bastano, ossia, le cose semplici, quelle basilari, e se c’è volontà e onestà tutto può riprendere. Sgorlon vuol mostrarci che la ricostruzione di una esistenza, che la società vorrebbe cancellare per sempre, è possibile, pur in mezzo a mille ostacoli. Lo fa per piccoli passi. C’è sempre un’anima buona pronta ad aiutarci. In questa caso è Rita De Luca, una vedova con un figlio, Riccardo, la quale, pur avendo sentito in paese, a Treppo, dei trascorsi di Eliseo, non chiede nulla del suo passato, anche quando Eliseo è pronto a parlargliene: “No. Sono fatti vostri.†È lei che gli affitta la stanza.

Se c’è in giro tanta cattiveria, basta dunque una piccola scintilla di bontà per riaccendere il fuoco della vita e la speranza.

Sgorlon afferma, così, che ogni uomo che sia stato colpito dalla sventura ha sempre la possibilità di rigenerarsi, purché non si arrenda e non si faccia travolgere dalla sfiducia.

La sorella di Eliseo, Iolanda, nutre del risentimento nei suoi confronti. Per le spese del processo ha dovuto vendere tutto e i genitori sono morti di crepacuore. Lei non perdona. Ricorda, e non vuole dimenticare: “C’era sempre un muro tra lui e gli altri, anche quelli che erano gentili, e forse ci sarebbe sempre stato.â€

Si parte da qui, da questo nero convincimento nei confronti degli altri. La rigenerazione, il riscatto sono tutti in salita. Da conquistare.

Intanto cura con amore la sua stanza, ha preso i vecchi mobili di casa sua dalla sorella, per lui quelle quattro mura diventano il suo tutto, il punto di riferimento ogni volta che avverte su di sé la solitudine: “quando lavorava da molte ore e si sentiva stanco, il pensiero di una stanza sua che lo aspettava bastava a mettergli un po’ di allegria.â€

Spesso le giornate sono ventose, un vento anche freddo, di tramontana, e Sgorlon lo fa assurgere a simbolo di una Provvidenza che non si è dimenticata di lui, che a poco a poco gli spazza via la strada e il passato: “La pioggia anzi si stava avvicinando; lo si capiva da come il vento aumentava, da come sbatteva i rami degli alberi e fischiava infilandosi tra i filari di viti dietro la casa. Eliseo sentì freddo.â€; “era di nuovo libero e immerso nel giro delle stagioni…â€

Intorno a lui il mondo è andato avanti, si sente smarrito. È stato rinchiuso in carcere per troppo tempo ed ora si trova immerso in un mondo che non conosce più: “Da ogni esperienza, da ogni particolare gli pareva di ricavare sempre la stessa conclusione, ossia che la vita ormai aveva dappertutto un altro carattere e un altro ritmo, che egli non capiva, al quale non poteva abituarsi, e in cui non c’era posto per lui…â€; “La vigna sotto la casa non la vedeva, ma sentiva il vento che passava e ripassava tra i filari. Era come una mano senza pace che raspasse tra le foglie e i viticci per far capire che l’inverno era vicino.†(è la chiusa del romanzo).
Le stagioni sono parte della Provvidenza. Ciascuna ha la sua bellezza e il suo fascinoso mistero.

Eliseo ha momenti di debolezza, ma sa fronteggiarli, non si lascia andare, anche quando a casa si trova solo. Allorché si mette a tavola per consumare quel poco che si è cucinato, stende la tovaglia e apparecchia con ordine. Potrebbe invece sbrigarsela alla buona senza tante cerimonie, ma  non vuole farlo: “Pure continuava in quel modo perché sentiva che doveva quel rispetto a se stesso, e che forse per avere quello degli altri doveva innanzitutto non dimenticare il proprio.â€

Tutta l’anima friulana è racchiusa in queste parole. La pazienza, l’ostinazione, la dignità. Si apprende che il delitto compiuto da Eliseo ha a che fare con il fratello Silvano, paralitico. È stato offeso, e lui lo ha difeso, finché la lite è trascesa.

Qualcuno, come il sarto, approfitta del suo passato, contando sul fatto che Eliseo è costretto a controllare i suoi gesti per non tornare in carcere, e così prova a imbrogliarlo, tentando di non pagargli il suo lavoro. È un duro colpo che lo umilia, lo accascia, rischia di mortificare la sua voglia di rifarsi: “Dunque nessuno dimenticava che lui era un ergastolano, e si poteva negargli anche quello che gli era dovuto, tanto era un ex galeotto, e i galeotti non invocano la legge per far valere i loro diritti.â€

C’è una pena che lo affligge, non sa ancora definirla, ma non gli dà requie. Il suo sguardo è sempre carico di malinconia. Quando osserva la vita di oggi, la compara a quella della sua giovinezza e pensa “che nella vita c’era qualcosa di perenne, che non mutava mai…â€

E questo ad un tempo lo affascina e lo turba: “Si era reso ben conto ormai che della vita gli piaceva non ciò che mutava di continuo, ma le forme fisse e rituali, o quelle che tornavano perennemente uguali a se stesse…â€; “Eppure nella vita dei paesi e delle colline c’era qualcosa che restava sempre uguale. Eliseo si domandava cosa fosse, ma era difficile individuarlo.â€

Il primo romanzo di Sgorlon, come si vede, già si allunga sulle ombre ed i misteri della vita, già cerca di individuarli e comprenderli: “Forse i destini degli uomini a volte erano totalmente diversi per ragioni più leggere di un capello.â€

Sembra quasi di leggere Thomas Hardy.
Non solo, ma la natura, come in Hardy, anche in Sgorlon è coessenziale: “Si sentiva calato dentro il ciclo delle stagioni, che per tanti anni non era esistito per lui, e gli pareva che il ritmo di esse regolasse anche la sua esistenza, come tra lui e la natura ci fosse una misteriosa simpatia…â€

Riccardo, il giovane figlio di Rita, è attratto dal mistero che avvolge Eliseo. Sa che ha commesso un delitto, vorrebbe sapere dalla madre il perché, ma la madre gli raccomanda di non chiedere: “è una grande maleducazioneâ€.

Dopo una lite con un prepotente, Eliseo spiega a Riccardo che non occorre essere delinquenti per uccidere un uomo; a volte bastano “l’ira e la superbiaâ€. Gli racconta ciò che successe. Come non ricordare il fra Cristoforo de “I promessi sposiâ€. Riccardo riesce a capire la bontà di Eliseo e si fa messaggero d’amore per lui.

A poco a poco intorno ad Eliseo tutto va assestandosi. Nino, lo straccivendolo, gli cede il suo lavoro. Con il triciclo Eliseo va in giro per i paesi a cercare roba vecchia che rivende facendoci un buon guadagno. Negli spostamenti ha tempo di godersi la natura: “Sentiva che, per vie misteriose, i due tronconi della sua vita si riallacciavano, si inserivano armonicamente uno nell’altro, superando il tempo lunghissimo e vuoto dell’ergastolo…â€

Risorge in lui la gioia di vivere: “riusciva a trovare in ciò una gioia elementare, connessa con la sensazione stessa di esistere, che veniva prima di tutte le ragioni che uno può avere per essere  triste e felice.â€

Vedete come, dentro una scrittura semplice, quasi elementare, da raccontatore antico, Sgorlon riesca ad inserire considerazioni sensibili e profonde.

Mi vengono in mente certi disegni del Picasso dei periodi blu e rosa, semplicissimi nella esecuzione ma difficili da imitare, o la scrittura di Charles Dickens.

A mano a mano che Eliseo si affranca dal passato e si afferma nella vita, Sgorlon immerge sempre più il personaggio e i suoi più cari amici, Rita e Riccardo, dentro una natura quieta, rigogliosa, riposante. In Sgorlon l’uomo non sarà mai slegato dalla natura. Comincia infatti qui, con questo romanzo, un percorso d’amore che l’autore non abbandonerà mai più.

 


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Bart